Essere vittima di un incidente di Nicola Adelfi

Essere vittima di un incidente COME SI MISURA L'UOMO Essere vittima di un incidente In ginocchio sull'asfalto, cercavo di sostenere il busto col braccio sinistro in modo da poter agitare la destra verso la colonna delle auto. A due passi mia moglie perdeva molto sangue dalla testa. Era la seconda domenica di settembre, appena trascorso il tocco, il sole picchiava con violenza accecante. Di tanto in tanto il braccio sinistro cedeva, e restavo allora piegato su me stesso, col capo chino. Degli automobilisti alcuni distoglievano lo sguardo da noi feriti, altri ci guardavano con la coda degli occhi. Una vettura azzurra si fermò accanto a noi, il padre ci mostrava ridendo ai figli, i bambini osservavano muti, sgomenti. Centinaia di macchine sulla Via Olimpica a Roma, lì dove scorre sotto la villa dei Savoia: un flusso ininterrotto, un fruscio di pneumatici così continuo, cosi vicino che quasi non lo percepivo più. Dalle espressioni dei guidatori ricevevo solo messaggi sconfortanti: vorremmo aiutarti, ma abbiamo fretta; scusaci, ma non vogliamo che l'interno della nostra vettura si sporchi di sangue; non sono affari nostri; guarda, guarda quanto sangue per terra; per favore, scansati, non ostruire la strada; a me non capiterà mai un incidente come il tuo. Passò forse mezz'ora, migliaia di persone ci videro e tirarono via. L'infortunio automobilistico, l'ansia per mia moglie, il sole così forte, via via cresceva la confusione nella mente, immagini e sensazioni si sovrapponevano veloci. Curiosamente una domanda futile premeva con una insistenza particolare: dove avevo visto un uomo nel mio atteggiamento supplice? Un quadre sulla ritirata delle armate napoleoniche attraverso la Beresina, con un ferito che invano supplica i compagni di non abbandonarlo a morire sulla neve? Oppure un gladiatore ferito a morte nell'arena del Colosseo? Dove mai? A tratti la mente si fissava su titoli da tempo abituali sui giornali: « Non soccorso, muore sull'autostrada », « Tre ore di agonia sull'asfalto », « Siamo uomini civili? », « La pietà è morta? ». Ma era specialmente il titolo di un libro di Riesman, Solitudine nella folla, che più spesso scattava nella mia mente al punto da farmi svagare lontano, una dozzina di anni fa a New York, quando lo acquistai nella libreria Brentano sulla Quinta Strada. Erano ricordi precisi, nitidi, come lampi nella mente annebbiata, durante i momenti in cui le forze venivano meno e mi afflosciavo al suolo. Però tornavo ogni volta a riscuotermi, mi appoggiavo di nuòvo al braccio vàlido, il sinistro, e in ginocchio imploravo ancora verso la colonna di auto. * * « S'il vous plait, dites-moi votre noni et votre adresse ». La voce era femminile, giovane. Col capo chino, risposi in francese di badare a mia moglie, forse più in pericolo di me. La straniera, come parlando a se stessa, bisbigliò: « Bon, pas de commotion cerebrale ». Mani forti e delicate mi adagiarono sul sedile anteriore della mia auto, al riparo dal sole. Lentamente mi si schiarì la vista, e vidi quattro giovani muoversi svelti intorno a noi feriti: vestiti di bianco come angioli, per la lievità e la coerenza dei movimenti mi pareva seguissero i ritmi di una danza. I ragazzi erano italiani, francesi le ragazze. Stavano andando al mare. Io e mia moglie invece ne stavamo tornando, da un villaggio sulle coste marchigiane, e la nostra auto era piena di cose, come avviene di solito al termine delle vacanze d'estate. C'era anche il gatto siamese, chiuso in un cesto di vimini. Dopo essersi arrabbiato per tutto il viaggio, trecento chilometri, ora stava quieto, zitto. Giunse l'autoambulanza, i quattro ragazzi ci dissero di non preoccuparci per le valigie, i pacchi, il gatto, tutto il resto: avrebbero provveduto con la loro macchina a portarli a casa nostra. Poiché non ho la forza d'animo, lucida e tranquilla fino alla morte, dell'indimenticabile amico Gigi Ghirotti, breve, brevissimo, sì e no un paio di ore, durò il mio viaggio nel tunnel ospedaliero. E tuttavia l'inizio, nei locali del pronto soccorso, era stato irreprensibile: in barella e in ascensore mi trasferirono da un piano all'altro, internisti e radiologi accertarono subito le mie condizioni fisiche, tra l'altro due costole spezzate e molti frammenti ossei fra di esse, sem¬ pre in barella fui messo su un lettino con l'avvertenza che vi sarci rimasto in osservazione quattro o cinque giorni. E fu qui che cominciarono le mie incompatibilità col sistema ospedaliero. La corsia era un lungo corridoio con pareti altissime, e la luce arrivava spietata da lucernari senza imposte, senza una tenda qualsiasi. I letti erano a stretto contatto; e chi rantolava, chi gemeva, chi smaniava. Incessante l'andirivieni di visitatori, infermieri, barellieri. Stavo seduto sul Iettino, frastornato, col cuore in tumulto. E mia moglie? Era al reparto femminile e non avevo modi per comunicare con lei. A un certo momento un in fermiere mi ingiunse ruvidamente di togliermi i pantaloni, perché così voleva il regolamento. Però io avevo sole quel che portavo addosso: i pantaloni strappati, lo slip, una camicia che il sangue e il sudore indurivano. Mi resi subito conto che non ce l'avrei fatta a resistere in quel luogo. Come si dice di certi animali, che vanno a nascondersi quando sentono vicina la fine, un'ottusa ostinazione mi spinse a pretendere di essere dimesso dall'ospedale. E non stetti a sentire ragione quando mi fecero presente il rischio di gravi complicazioni: se dovevo morire, meglio a casa mia. ★ * Libero, appena fuori della corsia cominciai a sentirmi più tranquillo. Dovevo camminare piano, tre, quattro passi per volta, ma ce la facevo. L'essenziale era mettermi in contatto col mondo di fuori, parenti, colleghi, amici. E pensavo che mi sarebbe stato facile perché avevo visto alle pareti molti telefoni a gettone. Però non fu così: le linee erano sempre occupate. Arrancando di qua e di là tentavo altri telefoni, lo feci decine di volte, e via via sentivo esaurirsi le forze, sempre più il segnale di « occupato » — tu tu - tu - tu... — stava diventando una specie di ossessione malvagia. Avevo addosso quattro biglietti da mille e un po' di spiccioli. Con duemila lire un infermiere mi fece entrare nel reparto femminile, raggiunsi mia moglie. Perdeva ancora sangue, ma l'emorragia prevedibilmente si sarebbe arrestata tra non molto. Le dissi che andavo via, di rifiutare anche lei il ricovero e di raggiungermi a casa: nel frattempo avrei trovato di certo un luogo migliore per curarci. Nell'androne principale quattro infermieri stavano ascoltando una cronaca sportiva da una radiolina. Mostrando mille lire, li pregai di chiamarmi un tassì. La risposta fu perentoria: avrei trovato una stazione di tassì appena fuori del cancello. La stazione c'era, ma non i tassì. Aspettai venti minuti. Il sole dardeggiava, neppure una bava di vento. Con che gioia entrai nelle stanze di casa mia. Mi sentivo in salvo, evaso finalmente dalla prigione della solitudine. Seduto su una poltrona col telefono accanto, mi pareva di essere padrone del mondo. Tuttavia fu una felicità breve. Lentamente sprofondai di nuovo nel buio abisso di solitudine. Nessuno rispondeva alle mie chiamate; nessuno. Si sarebbe detto che la città fosse stata colpita da una catastrofe nucleare, come nel film L'ultima spiaggia. Udii ronzare il citofono, pensando che fosse mia moglie Io raggiunsi avvilito dal pensiero di doverle dire che Roma era deserta e che perciò ci conveniva farci ricoverare nel luogo abbandonato, il Policlinico: nel caso di complicazioni, ci avrebbero assistiti. Però erano di nuovo i quattro ragazzi che ci avevano raccolti sulla Via Olimpica. Mi spiegarono che prima, con l'aiuto del portiere, avevano portato i bagagli e il gatto nel nostro appartamento, e poi erano andati al Policlinico per avvertirci di avere compiuto senza intralci l'incarico assunto. Adesso desideravano consegnarmi i miei occhiali, che uno di loro aveva messo in una tasca e dimenticato. Li feci salire, si accorsero del mio grande sconforto per l'incapacità di tirarmi fuori dalla compatta solitudine domenicale, e svo lazzando per le stanze, lievi come ballerini, efficienti e del solito buon umore, mi lavarono, una ragazza mi portò un caffè forte e bollente. Arrivò mia moglie e ci misero a letto. Non passò molto e un medico giovane, abbronzato, anche lui vestito di bianco, ci palpava dalla testa ai piedi, ci garantiva che non ci sarebbero state complicazioni e perciò non era necessario il ricovero in clinica; in caso di bisogno, avremmo potuto chiamarlo col telefono in qualsiasi ora della notte. Scrisse alcune ricette, un ragazzo andò svelto a prendere le medicine. Prima che fosse sera, la camera da letto fu piena di parenti e amici, sempre per merito loro, dei quattro giovani che in una Roma vuota e sorda avevano abbattuto per noi le pareti della prigione di solitudine. Adesso, col distacco del convalescente, ripenso a quel mio pomeriggio domenicale e mi dico che, come vidi in un ex voto a Pompei, accanto a ciascuno di noi ci sono veramente gli angioli del male e quelli del bene: nel caso mio, i maligni erano sulla destra, il lato ferito, e avevano il volto dell'egoismo, un volto arido, opaco; gli angioli benigni stavano invece sulla sinistra, dalla parte del cuore, e irradiavano con letizia la balsamica luce della pietà. Nicola Adelfi

Persone citate: Brentano, Gigi Ghirotti, Riesman, Savoia

Luoghi citati: New York, Pompei, Roma