Evitare il naufragio in un mare di petrolio di Igor Man

Evitare il naufragio in un mare di petrolio 1 RAPPORTI DELL'ITALIA CON GLI ARABI Evitare il naufragio in un mare di petrolio Manca ancora una pianificazione che ci consenta di esportare più prodotti e più tecnici Roma, ottobre. Rischiamo di morire affogati in un mare di petrolio. Questa battuta di un finanziere americano, che assiste a Washington all'assemblea annuale del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale di sviluppo, riguarda l'economia di tutto il mondo occidentale. Petrolio — a meno di nuovi embarghi — ce n'è tanto, ci stiamo dissanguando per pagarlo mentre i Paesi produttori di greggio son pieni fino al collo di dollari, anzi di petrodollari come adesso usa chiamarli. Alla fine del 1974, secondo i calcoli degli esperti, i Paesi produttori della insostituibile materia prima avranno riserve liquide per 80 miliardi di dollari. (In gennaio ne avevano 15, saliti a 30 in giugno e a 40 agli inizi del settembre). A questi 80 miliardi bisogna aggiungerne cinque che gli verranno da altre esportazioni. Grosso modo i padroni del petrolio, ancorché impegnati in ambiziosi programmi di trasformazione interna (industrializzazione, agricolturizzazione ecc.), potranno importare per non più di 30 miliardi di dollari. (Rimane un surplus di 55 miliardi: il problema per l'economia dell'Occidente è di far rifluire i petrodollari verso i Paesi che li hanno sborsati; da qui la recente proposta di creare un organismo finanziario mondiale che faccia da filtro tra produttori di petrolio e consumatori). L'Italia importa petrolio a un ritmo che in un anno dovrebbe portare a un consumo di circa 100 milioni di tonnellate di greggio. Per i primi sei mesi del 1974, il deficit provocato dalle importazioni di petrolio si è aggirato sui 1800 miliardi di lire. Per recuperare parte di questi miliardi, per riciclarli, come si dice, non c'è che un mezzo: esportare di più nell'area del petrodollaro. In una intervista al nostro Salvatorelli (cfr. La Stampa del 15 settembre 1974) l'economista prof. Nino Andreatta dice che l'anno prossimo dovremmo poterci assicurare una quota maggiore di commesse. « A nostro favore giocano la posizione geografica e quella politica ». L'interscambio spd1pII prof. Andreatta stima che le importazioni dei Paesi petroliferi sono destinate, sia pure lentamente, ad aumentare, fino a raggiungere, secondo le diverse previsioni, i 100-150 miliardi entro il 1980. L'anno passato i Paesi dell'Opec hanno importato dal nostro beni per un miliardo e mezzo di dollari, cioè il 6 per cento delle importazioni complessive. « Se questa quota si mantiene — scrive Andreatta — (cfr. Corriere della Sera del 26 settembre 1974), esse saranno di sei-nove miliardi di dollari alla fine degli Anni 70, e basterà un aumento di due punti della percentuale di importazioni dall'Italia per arrivare a coprire il costo valutario dei nostri fabbisogni petroliferi ». Di fronte alla « aggressività » dei produttori di petrolio, degli arabi in particolare, desiderosi di investire i petrodollari non solo in Europa e nei mercati occidentali ma anche nei propri Paesi, come reagisce l'Europa e segnatamente l'Italia? Secondo Omar Grine, della « Arab Iron and Steel Union », « la politica verso gli arabi da parte di Paesi che non siano gli Stati Uniti o l'Unione Sovietica è, in larga misura, di difesa, di reazione ad uno choc. Non si vedono ancora i segni di un piano reale e generale ». Gli arabi, almeno a parole, sembrano non capacitarsi come mai l'Italia si dimostri tanto lenta a muoversi, così esitante. « Bisogna rendersi conto — ha detto il maggiore Jallud, primo ministro della Libia — che gli arabi non sono né degli orchi, né dei poveri ingenui; che l'interesse degli arabi non risiede nell'occumulare somme favolose in depositi congelati. I Paesi arabi, al contrario, sono pronti a mettere tutti i loro mezzi a disposizione per un'azione comune utile ai loro popoli e a quelli del mondo in generale, ai popoli europei in particolare ». Da parte sua il segretario generale della Lega Araba, Mahmoud Riad, ha dichiarato: « Noi non chiediamo all'Europa di rompere le sue relazioni con Israele. Il mondo arabo ha bisogno dell'Europa, di know how industriale, per il suo sviluppo tecnologico. Noi intendiamo collaborare con l'Europa ». A Cetraro (Cosenza) dal 12 al 14 luglio scorsi l'Ipalmo ha tenuto un convegno («La cooperazione economica fra l'industria italiana e i Paesi arabi»), in collaborazione con l'Università di Calabria e con il contributo della Sir. Alla domanda formulata in vari toni da parte degli esperti arabi: « Come potete o volete collaborare con noi? », 1 delegati italiani non hanno praticamente risposto. Buio assoluto, a parte gli interventi dei professori Andreatta, Casadio e Saba. Dal convegno, come scrive Piero Sanavio (cfr. Il Globo, 17 luglio 1974), è emersa la desolante mancanza di comunicazione tra gli operatori economici e i teorici dell'espansione, soprattutto l'assenza, in questo campo, di una seppur vaga pianificazione concertata. Dal convegno « non è emerso neppure un censimento o un'indicazione di quali ditte nazionali operano nel mondo arabo, né dei modi in cui un'operazione concordata sia possibile per consentire la penetrazione in quei mercati di altre società nostrane ». Tuttavia il convegno organizzato dall'Ipalmo è servito se non altro ad indicare agli operatori italiani gli strumenti di investimento nel mondo arabo. Su questo tema, Sabbah Al-Hay, direttore del centro per ricerche economiche, finanziarie e sociali di Beirut, ha fatto un'interessante comunicazione. Per chi voglia fare affari esistono tre tipi di istituti che hanno la funzione di incanalare i fondi arabi: agenzie governative che vanno dai ministeri delle Finanze, come in Kuwait, alle banche locali o interarabe; banche private (arabe o straniere che operano nell'area); istituti bancari specializzati come l'Ubae (di cui fa parte il Banco di Roma); le agen-1 zie kuwaitc-egiziane o saudiqatare, la corporazione finanziaria araba. Secondo Sabbah Al-Hay, gli istituti governativi di investimento svolgeranno un ruolo d«sblgcsaacqTrldtdlmvzbdvnembslMpèegvdSpsdlpusatcmenstqisdp sempre più importante nei | rprossimi anni. L'Arabia Sau- ddita, per esempio, vedrà nel r1974 aumentare i profitti da I ppetrolio dagli otto miliardi di j indollari del '73 a 23 miliardi «Nuovi tipi di istituti bancari stanno ora sorgendo. Sono banche dì credito a medio e lungo termine che saranno in grado di offrire due tipi di capitale finanziario agli investimenti privati in territorio arabo: certificati dì deposito a lungo termine e titoli anch'essi a lungo termine ». Altro discorso interessante quello fatto da Zaven Bedros Terzian, il principale collaboratore di Nicholas Sarkis, l'ideologo ed esperto arabo di problemi petroliferi, direttore del Centro arabo di studi petroliferi di Beirut. «Parlare dell'industria petrolchimica significa parlare dell'avvenire; parlare della cooperazione petrolchimica italo-araba è entrare in pieno in uno dei campi dove più che altrove si svolgerà la collaborazione tra Paesi arabi e Paesi europei ». Nel campo della petrolchimica, l'Italia, dicono gli arabi, potrebbe riprendere a svolgere nel Medio Oriente la politica avviata da Enrico Mattei negli Anni 50. Anche perché quello petrolchimico è un terreno che, con la sola eccezione dell'Iraq, teso all'agricolturizzazione del Paese, vede i Paesi arabi produttori di petrolio uniti. L'Arabia Saudita ha grossi progetti per la trasformazione sul posto del petrolio (l'aumento della sua partecipazione nelle compagnie americane ha proprio questo significato). « Il problema non è più con- zrrsesmzdpin(mintstpnPdppl(eppmsdlusnppappetstrollare o limitare l'estrazio , . ne del petrolio, ma intensìfi-\\care le ricerche d'energia ìn\laltre direzioni e trasformare ; sil petrolio arabo attraverso moperazioni downstream. In questo campo l'esperienza tecnica italiana potrà, se vorrà, dare il proprio contributo ». Uhi in testa La produzione petrolchimica araba — ha concluso Terzian — conoscerà fatalmente un boom. « Perciò negli accordi con organismi dei Paesi importatori di petrolio, gli arabi si attendono innanzitutto un aiuto tecnologico che porti alla formazione di manodopera e tecnici nazionali. Gli arabi hanno i mezzi economici necessari per finanziare "senza problemi" lo sviluppo di un'industria petrolchimica sul posto ». Per quanto ci riguarda, l'Italia.è in grado di cooperare in questo e in altri settori col mondo arabo, coi Paesi ricchi di petrodollari. Forti dell'espe- ltOsqtiicsdcrzlipaspadlpnl rienza dell'Iri, capace di pro durre acciaio come di costruì re autostrade, possiamo pro porre i cosiddetti « progetti integrati » in cui alla produ- zione industriale si unisce la ristrutturazione del territorio, la creazione di impianti sociali, insomma lo sviluppo economico di intere regioni. Senza fondi Come vedremo in un prossimo articolo, l'Italia si è già mossa e bene ma la cooperazione economica coi Paesi dell'Opec viene esercitata soprattutto dai grandi gruppi industriali pubblici e privati (Eni, Iri, Fiat); le piccole e medie industrie faticano a inserirsi nel circuito dei petrodollari. Faticano perché la stretta creditizia non consente loro il reperimento di capitali con cui far fronte alla necessità della produzione. Per vendere, poi, c'è bisogno di « promozione », in parole povere di propagandare i prodotti. In Italia abbiamo lo strumento adatto, l'Ice (Istituto per il commercio estero), ma è in crisi. Non può svolgere la sua attività perché afflitto da un male comune: la mancanza di fondi. Nell'ottobre del 1973, Pasquale Landolfì, responsabile delle attività all'estero dell'Eni, ammoniva: « Siamo ad una svolta decisiva nella nostra politica petrolifera. Se non agiremo con estrema ra^ pidità nello stabilire teste di ponte con i Paesi produttori, a breve scadenza non avremo più fiato per sostenere le pressioni di Paesi con mezzi enormi, e soprattutto gli Stati Uniti. (...) Non possiamo sempre contare sul fatto che , . \\ Paesi Produttori, in portico\lale Quelli arabi, non ci con ; siderino dei nemici: dobbia m0 dimostrare che sappiamo lavorarci insieme non soltanto in campo energetico. (...) Ovviamente ci vuole un sostegno alle spalle: senza di questo saremo inevitabilmente sopravanzatì dagli altri ». Un « sostegno alle spalle »: in Francia il 20 marzo scorso il governo ha varato un meccanismo di finanziamenti destinato ad assicurare facilità di investimento alle imprese che han bisogno di accrescere la loro capacità di produzione al fine di incrementare le vendite sui mercati esteri, in particolare nell'area dei petrodollari. Per aumentare, alla fine degli Anni 70, la nostra esportazione « di due punti » in modo da arrivare a coprire il costo valutario del nostro fabbisogno petrolifero, le imprese italiane, pubbliche o private che siano, hanno bisogno di un valido « sostegno alle spalle ». Igor Man