Nella Trieste dei profughi di Stefano Reggiani

Nella Trieste dei profughi LE "MINORANZE,, AL CONFINE ORIENTALE Nella Trieste dei profughi Per i 150 istriani rimasti il campo di raccolta è una specie di cronicario - Ma continua ad alimentarsi quello di Padriciano, dove arrivano i fuggiaschi dell'Est - Per loro, come per le vittime delle dittature fasciste, si invoca un trattamento più liberale (Dal nostro inviato speciale) | Trieste, ottobre. La condizione del rifugiato politico è scomoda fin dal nome, col suo corredo di Pregiudiziali ideologiche e di scelte viscerali. Profugo da dove e perché? Eppure nessuno negherà che esista al mondo minoranza più fragile e degna di considerazione. Ognuno rifletta alla sua parte, se vuole: la logica dei blocchi e la sferza delle ingiustizie si tendono come confini ideali lungo i meridiani. C'è chi sceglie Cuba o l'Algeria, magari dirottando un aereo; chi preferisce ancora l'Italia e gli Stati Uniti, magari per approdarvi a nuoto (s'intende, nella prima ipotesi). Trieste respira l'aria dei \! | profughi per dannazione confinaria e contingenza storica: è stata al centro della più violenta e amara retorica del rifugiato nel dopoguerra; da poco ha preso a cuore il problema delle mi- noranze come via dialettica j per giungere a una convi\ venza fruttuosa tra due po■ poli e due Stati non sempre ! in sintonia. La buona volonj tà sta riducendo o eliminani do il problema dei profughi istriani; la diffidenza e la reticenza proteggono la vicenda dei rifugiati dall'Est europeo. La condizione di prò' fugo diventa nell'un caso I storica, una cristallizzazione | che ancora resiste in alcuni I patetici e incorreggibili ospij ti di Trieste; nell'altro caso j una tappa intermedia, una I sono ombrata che riesce sgradita a chi è accolto e a I chi accoglie. Villa Carsìa è l'ultimo centro di raccolta per profughi | istriani rimasto in esercizio, insieme con «Le Noghere»; è arrivitn a 1700 ospiti negli anni caldi, ne ha adesso cen- tocinquanta. Qualcuno ha già chiesto di comperare le baracche, deteriorate da vent'anni d'uso. Ci si chiede che vorrà farne. Resìstono a Villa Carsia gli anziani e i solitari, gli emarginati e i poveri: della condizione di profugo hanno fatto uno stato di precaria stabilità. La nostra visita, condotta con l'aiuto di un solerte funzionario, è priva di ogni animosità retorica o di ogni imbarazzo formale. La minoranza che abita qui non sollecita più nessuna parteci- pozione, le basta il sussidio dello Stato e l'orticello da coltivare presso la baracca. Un uomo magro, col viso coperto dal sapone da barba (appena il solco di una rasatura al sommo di una gota), ci riceve nei tinello. Non c'è acqua corrente, non ci sono gabinetti nelle baracche; i servìzi igienici sono in un fabbricato a parte. L'uomo col volto insaponato mostra la stanza da letto e le poche suppellettili: è senza scarpe, cammina con leggerezza tra le pareti di compensato. Da un'altra parte ci aspetta il più vecchio abitante del villaggio: fa il calzolaio, ha ottant'anni e due grandi baffi a imitazione di Francesco Giuseppe. Ricorda che nel suo paese faceva l'agricoltore; intorno a lui si stringono, come in una scenetta familiare, altri vecchi infagottati e catarrosi. Non è un campo di prodighi, ma ormai un cronicario: gli abitanti non se ne vogliono andare, rifiutano la casa di riposo e la gratuita ospitalità dello Stato. Gli pare di avere a Villa Carsia, sull'altopiano battuto dai venti, il privilegio di una indefinibile libertà. Come anche i miti dei propri fantasmi si deformano nelle abitudini, e come l'idea di libertà è relativa! Con puntiglio burocratico sorgono le case costruite per i profughi. Un primo concorso per alloggi, in un quartiere residenziale verso Sistiana, andò deserto. Se uno s'aspetta di essere un ospite, forse tende a continuare il suo rapporto o la sua finzione. All'osteria c'è un gruppetto che gioca al biliardo, vicino alla cappella c'è una saletta di ricreazione, dove il prete fa il cinema con un proiettore portatile. Trieste è a cinque minuti di macchina, ma qui sull'altopiano il tempo si sfalda con la lentezza delle cose già scontate. L'anno scorso lo Stato ha elargito 230 milioni in piccoli sussidi ai profughi. Prendiamo lo specchio di acqua davanti a Muggia. La cittadina è bellissima, con quel Duomo bianco affacciato sulla piazza-teatro, ma l'acqua non si può dire delle più invitanti e il panorama marino è più industriale che turistico. Tra petrolio e verde, sul filo delle onde, corre un confine che si può attraversare senza visti e carte doganali. Da Ancorano a Lazzaretto, dalla Jugoslavia all'Italia, ci sono due chilometri a nuoto. Poniamo che un giovanotto, come l'ungherese P. M. di 24 anni, ingegnere elettrotecnico, si tuffi ad Ancorano alle prime luci dell'alba e giunga nuotando a Lazzaretto, in vista del posto di polizia. Che cosa gli capiterà e come sarà accolto da parte italiana? La polizia ne disporrà, innanzi tutto, il ricovero in ospedale. I medici gli ordineranno qualche giorno di cura, trovandolo « perfrigerato » dalla lunga permanenza in acqua. Poi gli agenti, che hanno preso nota della sua richiesta di asilo politico, lo condurranno al campo di Padriciano. Qui troverà un fortilizio recintato di 35 mila metri quadrati con cinque fabbricati per gli alloggi e otto per i servizi. Perché recintato? Spiega un alto funzionario: « Per proteggere l'ospite, per garantire la sua riservatezza », ma naturalmente anche per controllarlo, poiché la sua verginità penale non è certa. Tuttavia potrà uscire, con un permesso rilasciato al posto di polizia di Padriciano. Non dovrà fermarsi molto, al campo: un mese, quaranta giorni. La sua credibilità politica, di fuggitivo con l'anima bianca, sarà vagliata da una commissione selettiva, composta di tre membri (un delegato dell'alto commissariato dell'Onu per i profughi, un incaricato del ministero degli Esteri italiano ed un rappresentante del ministero dell'Interno). Gli "eleggibili" C'è un frasario speciale che regola le tolleranze e le ipocrisie internazionali: il rifugiato su cui non esistono dubbi sarà dichiarato « eleggibile » e non troverà ostacoli all'emigrazione anche nei Paesi più prudenti. Il non eleggibile sarà trasferito nei campi di Capita e dì Latina, ad attendere che uno Stato meno fiscale gli dia il visto di ingresso. Dice l'alto funzionario: « Non mi risulta che gli Usa chiedano la condizione di eleggibilità ». In un film ungherese di qualche anno fa ("Rompere il cerchio, di Bacso) il protagonista, nelle prime sequenze, s'esibisce in un tentativo fallito di espatriare. Perché? Per scontentezza della sua condizione umana e di lavoro: la specializzazione in fabbrica non era garanzia di partecipazione, lottare contro i vecchi burocrati era quasi impossibile, coltivare evasioni personali reso diffìcile dai bilanci stretti. Il tentativo di fuga da parte del¬ l'operaio serviva a Bacso per accusare i gruppi dirigenti e le strutture anchilosate della fabbrica, per parlare di socialismo ad un Paese formalmente socialista. I rifugiati di Padriciano non hanno avuto la ventura positiva dell'eroe cinematografico (preso, condannato al carcere, liberato, riscattato dall'amore e dal lavoro). Non bisognerà fargliene carico, né cercare di forzare ideologicamente la loro vicenda. In genere provengono dalla Mitteleuropa socialista (Ungheria e Cecoslovacchia), spesso sono laureati o diplomati. Contano di trovare nel mondo occidentale, e segnatamente in America, un | posto conforme alle ambizioni e al gusto dell'indipendenza maturato nel loro gruppo sociale e culturale. La contestazione individualistica può portarli a schietti entusiasmi reazionari: s'affidano alla questura italiana con sollievo e insieme inquietudine. Libera uscita? In un sopralluogo lungo il recinto di Padriciano ci accompagna un profugo russo, sotto una pioggerellina autunnale che annebbia l'aria verso Trieste. Le finestre lasciano intravedere piccole siepi di calze e di biancheria; da una parte stanno gli uomini, dall'altra le donne. Due ungheresi, da poco arrivati, discutono con l'ufficiale di polizia per avere il permesso di stare fuori la notte. « Che volete fare? » s'informa l'ufficiale, severo, ma forse disposto a cedere, II russo ha una tuta Cile- ìstrina da calciatore, parla inglese e francese, con qualche traccia di spagnolo che frammischia alla sua vaga confessione. Dopo la laurea in ingegneria, ebbe un lavoro di direttore di macchina su una nave. Viaggiava il Mediterraneo. Una notte, al largo della costa, si gettò in acqua e raggiunse a nuoto l'Italia. Quanti atleti e nuotatori tra i profughi. Emerge anche nel russo l'insofferenza dei quadri e dei compiti fissati senza debolezze | individuali. Ha rotto i ponti con la famiglia, ora andrà in Sud Africa. Perché? C'è bisogno di ingegneri. E poi deve sembrargli il posto più adatto a compensare e a equilibrare i suoi rancori. Dice: « Mi trattavano come un cucciolo, in patria ». Durante la guerra fredda le fughe dall'Est erano una notizia ghiotta, ed erano intese come radicali armi ideologiche. Erano tempi di facili contrapposizioni; anche a sinistra c'era un abbandono acritico al ricatto dei sistemi concorrenti e della necessità esemplare delle concrete incarnazioni storiche. Oggi, in Italia, la condizione dei profughi è diventata motivo di rivendicazione civile per le coscienze più avvertite. Un recente libro bianco promosso da Magistratura democratica lamenta che i cinquemila esuli che ogni anno raggiungono il nostro Paese dall'Europa dell'Est e dagli Stati a dittatura fascista non ricevano un trattamento sollecito e liberale, come dettato dalla Costituzione. Soltanto i 350 cileni sfuggiti al regime di Pinochet hanno evitato l'internamento nei campi italiani. E gli altri? Pare che Capua, Latina e Fara Sabina siano in condizioni più dure di Padriciano, campo di transito; e che ì soggiorni vi siano estenuanti. Un avvocato, difensore di esuli antifascisti, ha detto che il trattamento italiano « disonora la democrazia ». La frizione dei confini ha cambiato apparentemente quadro storico e geografico, l'interesse della gente si ap- ì punta soprattutto sugli espa- tri avventurosi e cruenti verso i Paesi del Terzo Mondo, il giudizio politico deve essere formulato di volta in volta; ma resta che la condizione di rifugiato, ad ogni latitudine, è la più cruda e triste che ci sia, stato di una minoranza che prende rilievo solo per gli usi consentiti dalla propaganda, e quindi infelice e bisognosa di tutele che non le leggi solo, ma la pietà e il rimorso possono offrire. Stefano Reggiani

Persone citate: Bacso, Fara Sabina, Lazzaretto, Pinochet