Malanni antichi e nuovi dell'agricoltura italiana

Malanni antichi e nuovi dell'agricoltura italiana Mentre continua la disputa sui prezzi agricoli Malanni antichi e nuovi dell'agricoltura italiana Il frazionamento delle aziende, i secoli di latifondismo, lo sfruttamento si sommano alla lentezza burocratica e alle beghe tra i partiti che ci hanno impedito di sfruttare le chances della Comunità europea - Finalmente un accordo sulle direttive? (Dal nostro inviato speciale) Bruxelles. 28 settembre. Aziende ampie ed efficienti, organizzazione moderna del lavoio, denaro a basso costo, cooperative per acquistare e vendere insieme i prodotti della terra. Sono queste le basi per dare all'agricoltura italiana quella spinta necessaria a farla uscire dal tunnel. Sarà un bene per tutta la collettività: gli agricoltori potranno alfine vivere dignitosamente, i cittadini avranno cibo migliore a minor prezzo. Se in un'azienda piccola e male amministrata produrre un quintale di grano costa 100, per ottenere la stessa quantità di cereale in una grande impresa condotta con criteri moderni si spenderà solo settanta. Così per latte e carne. La maggior parte degli allevatori italiani, dopo l'aumento dei mangimi, perde 4C-50 mila lire per ogni vitello; ma ciò accade perché essi devono acquistare il mangime, perché lavorano come i loro nonni, con stalle vecchie e inadatte, bestie malate, senza macchine. Ci sono eccezioni, ma poche. Lo stesso discorso vale per la frutta, il mais, la bietola e tutto il resto. Perché gli stessi prodotti coltivati in Francia, in Germania, in Inghilterra, in Olanda costano assai meno che in Italia? E' questa la domandaaccusa che si sente ripetere a Bruxelles quando si chiedono giudizi sui mali dell'agricoltura italiana. A nostro sfavore giocano certo i fattori negativi dell'ambiente, che nessuno può mutare: troppe colline (quasi il 43 per cento della superficie agraria-forestale) e montagne (35 per cento), con pendii accentuati, terreni argillosi e calanchivi, nel complesso aridi, difficilmente lavorabili. Altrettanto sfavorevole è la distribuzione delle precipitazioni: piove troppo ir. autunno e inverno, poco nelle altre stagioni. Ma ciò non basta a spiegare il profondo divario tra l'agricoltura italiana e quella media della Cee. Abbiamo quasi uri milione e mezzo di aziende agricole con meno di 5 ettari mentre in Francia i «fazzolett di terra» non sono neanche 300 mila, e poco più di 350 mila in Germania; la percentuale di occupati nel settore agricolo s'avvicina al 18 per cento, contro medie molto più basse altrove: 12 in Francia, 7 in Germania, 4 in Belgio, 2 in Inghilterra. I dati negativi potrebbero continuare, ma bastano questi per comprendere che non possiamo prendercela solo con la siccità e i cattivi terreni. Secoli di latifondismo, di abbandono o di sfruttamento piratesco della terra, secoli di angherie e di fame hanno ingenerato nei nostri contadini una sorte di cupo fatalismo: ai ricchi agrari, naturalmente, conveniva lasciar loro credere che nascere poveri fosse un difetto di natura. Dopo le false riforme del fascismo che ha aggiunto male al male, la politica clientelare della Coldiretti, braccio secolare della de nelle campagne, ha fatto il resto. Negli ultimi dieci anni c'è stato, specie in alcune regioni un timido risveglio. Ma è sempre partito dall'iniziativa di singoli agricoltori i quali hanno compreso che per ottenere di più dalla terra bisognava studiare, conoscere, lavorare uniti. E' stata introdotta un po' di tecnologia, sono nate le cooperative. La Comunità europea, che adesso la disputa franco-tedesca mette in pericolo, è stata la grande occasione che ci è stata offerta per uscire dal «medioevo agricolo». «Ma — ci fanno osservare delusi a Bruxelles — state perdendo anche questa chance». Da anni l'Italia insiste perché la Cee spenda un po' meno per sostenere i prezzi e qualcosa di più per le «strutture», cioè per migliorare e ampliare le aziende agricole, renderle efficienti, economicamente produttive. Finalmente, nel '72, la Comunità ha emanato norme per raggiungere proprio quegli scopi: sono le tre «direttive», che tutti i Paesi Cee hanno applicato, meno l'Italia. Per la lentezza della burocrazia, per le beghe tra i partiti, le direttive comunitarie attendono ancora quella legge nazionale necessaria per applicarle. L'inadempienza è tornata d'attualità in questi giorni a Bruxelles, perché sul nostro capo pende la minaccia d'una denuncia alla Corte di Giustizia. Sappiamo che di recente è stata inviata un'ultima sollecitazione al ministro dell'Agricoltura, con una data di scadenza precisa: 31 dicembre '74 (avevamo già avuto due proroghe). Dopo questa intimazione, pare che i partiti di governo si siano sforzati per trovare un accordo e che iprdcdRPucdeuudmgssGetsG ii disegno di legge stia per passare all'esame delle Camere Sarà la volta buona? I ritardi nell'approvazione delle norme sono stati provocati dal diverso punto di vista dei partiti sul modo in cui le Regioni dovranno applicarle. Per una zona andrebbe bene un orientamento, per un'altra c vorrebbe un'applicazione diversa. Prendiamo come esempio l'Emilia-Romagna, una regione rossa, dove c'è un'agricoltura di avanguardia, con una cooperazione molto diffusa. Qui, per «migl'oramento delle strutture» si intende miglioramento e sviluppo delle cooperative. Gli amministratori regionali emiliani dicono: se dieci contadini con 5 ettari ciascuno non possono procurarsi da vivere lavorando separatamente, uniamo le terre e otteniamo una cooperativa di 50 ettari e dieci persone: ma secondo le direttive Cee, su 50 ettari non devono lavorare più di tre-quattro persone. Ecco un modo distorto di interpretare le norme comunitarie. Il problema principale delle «strutture», infatti, è che si deve modificare il rapporto uomo-terra: se una volta un ettaro poteva bastare per una persona, adesso ce ne vogliono da 5 a 10. Le cooperative, secondo la Cee, servono per ottenere delle economie di scala, ma esse non sempre sono sufficienti per far raggiungere al mondo agricolo un reddito compara¬ bile con quello degli altri settori. Altre Regioni, dov'è diffusa la piccola proprietà coltivatrice, vorrebbero mantenere una specie di politica assistenziale, che però è assolutamente contraria allo spirito delle direttive. Quando la legge nazionale sarà discussa in Parlamento, vedremo quale tipo di accordo hanno trovato i quattro partiti di governo. E auguriamoci che la legge che uscirà approvata dalle Camere non si discosti troppo dallo spirito con cui la Cee ha emanato le direttive agricole, altrimenti ce la vedremmo respinta e dovremmo ricominciare tutto daccapo. Livio Burato

Persone citate: Livio Burato