Bresson - Lancillotto alla corte di re Artù

Bresson - Lancillotto alla corte di re Artù PRIME SULLO SCHERMO Bresson - Lancillotto alla corte di re Artù Lancillotto e Ginevra, di Robert Bresson, con Laura Duke Condominas. Francese, colore. Cinema Centrale d'Essai. Ospite polemico dell'ultimo festival di Cannes, il già recensito Lancillotto e Ginevra («Lancelot du Lac») offre un Bresson-super, ossia dissugato più del solito e più del solito riconcentrato nella scommessa, esteticamente rischiosa, di fare dell'arte prescindendo dal sentimento. Si fa più presto a dire che i personaggi della bella leggenda brettone, che l'Autore ha riletto nel poema di Chrétien de Troyes e sulla quale l'epica romanza ha tanto ricamato, rientrano nell'ottica bressoniana degli « oggetti », oggetti vuoti, secondo si vede nella bellissima sequenza finale dove le armature dei cavalieri d'Artù si mettono a sanguinare senza che vi sia nulla dentro. Levato via tutto il magnifico e il favoloso (il Re è come gli altri, la Regina meno di un'ancella, i Cavalieri catafratti sferragliano come pentolai e i consigli di Corte si tengono negli anditelli di una reggia-cascinale), Bresson ha sposato l'idea alta, rigorista, che il Medioevo aveva di se stesso e ha fatto che non l'Amore ma la Morte informi di sé la storia di Ginevra e Lancillotto, ricondotta a una visione cupamente celtica dell'epos cavalleresco. Quella storia è presa nel suo momento crepuscolare: i Cavalieri tornano avviliti al loro sovrano perché non hanno potuto conquistare il « Graal » la mitica coppa contenente il sangue di Cristo e dispensatrice di forza. Sfido: uno di loro, Pefceval, il privilegiato, se l'è già appropriata e poi è scomparso. Ai reduci esclusi dal beneficio della Grazia, il Re impone una dura disciplina (che è poi quella di Bresson) di esercizi spirituali e belligeranti. In quest'aria di Trappa matura la passione di Lancillotto per la Regina, quasi una condanna dall'alto, che importa intrighi, lutti, vane imprese di valore e infine una fraterna carneficina. L'ultima immagi- ne è quella d'un mucchio di panoplie sanguinanti, intorno a cui ruota una mulacchia. Con Bresson, maestro dell'immagine pura combinata col suono, è ravvolto un pittore. Lancillotto e Ginevra (mirabilmente aiutato dalla fotografia scura di Pasqualino De Santis) ha cose prelibate: l'occhio morello del cavallo, che splende nella notte, l'abbraccio degli amanti (un quadro), il bagno della Regina, la giostra della quintana, il torneo, il temporale; e certe « suites » (i Cavalieri che visti dal basso montano in sella) che sono una festa del ritmo cinematografico affidato ai particolari. Ma d'altra parte, lasciando come irreverente un certo sospetto di Teatro dei Pupi scorciato dalla cintola in giù (staffe, sproni, zampe di cavalli prevalgono infatti nell'interesse del regista), quando i personaggi parlano e con quella stiratura quasi disumana, e gli amanti amoreggiano in quell'aria di funerale, si pensa che neppure un artista come Bresson può sfidare l'austerità oltre un certo punto, o può farlo soltanto al prezzo d'una fredda determinazione concettuale che intacca nella « maniera ». Questo sia detto con tutto il rispetto per un'opera che nella sua spogliatezza trabocca di valori plastici e di geniali soluzioni cinematografiche; di un'opera che presume, secondo la poetica bressoniana, di « non mostrare niente » che non sia il rapporto delle immagini tra loro e delle immagini coi suoni. Un po' inacetito dagli anni, Bresson ha spinto alle soglie del sonno la dimostrazione che il cinema non è fotografia dèlia realtà ma creazione di realtà. Alla stregua di così orgoglioso concetto torna inutile menzionare gli interpreti, vanificati dall'Autore non solo come divi ma anche come attori. 1. p.

Luoghi citati: Cannes, Ginevra