II groviglio dell'Eritrea di Alfredo Venturi

II groviglio dell'Eritrea PERCHÉ IL NEGUS HA PERSO IL TRONO D'ETIOPIA II groviglio dell'Eritrea Nel 1962 Hailè Selassiè soppresse l'autonomia della grande provincia costiera - Là, fra le truppe impegnate contro la guerriglia, è nata la rivoluzione di oggi - Ma l'errore politico dell'imperatore continua a essere il più grosso problema dei suoi successori (Dal nostro inviato speciale) Addis Abeba, settembre. «Sono contento per loro», dice il giovane eritreo commentando con distacco la caduta di Hailè Selassiè. « Loro » sono gli etiopi, i nove decimi della popolazione raccolta fino a ieri sotto lo scettro imperiale. L'altro decimo, i due milioni e mezzo che vivono nell'antica colonia italiana, sembra considerare gli avvenimenti di questi giorni con lo stesso distacco che a suo tempo caratterizzò l'ottica della gente d'Angola o del Mozambico nel giudicare la rivoluzione democratica portoghese. « Sono affari loro: per noi che cosa cambia? », spiega, e soltanto a malincuore, con molto scetticismo, ammette che sì, essendosi modificato il quadro politico di riferimento del problema eritreo, qualcosa potrebbe cambiare. Ma, più facilmente, insiste, nulla potrebbe cambiare: in fondo i militari, che da alcuni mesi gestiscono il potere ad Addis Abeba, in Eritrea sono padroni assoluti da dodici anni. Gli "occupati" Siamo in un parco al centro della capitale, che in un grande sistema di gabbie ospita una trentina di splendidi leoni del Kaffa, e la gente li osserva divorare enormi pezzi di carne. Gli eritrei si riconoscono a volo nella folla, e quello che mi accompagna ne introduce altri nella conversazione. « Siamo, da sempre, in regime di occupazione militare », dice un camionista di Asmara. Fa da anni la spola fra il capoluogo eritreo e la verde capitale imperiale: un viaggio infernale di oltre mille chilometri che, a pieno carico, dura tre giorni e mezzo. La pista si arrampica sulle ambe, scende vertiginosa nelle valli, gira attorno alle infinite asperità di questo accidentato altopiano. Attraversa il Wollo e il Tigre, le due province che la siccità degli ultimi anni ha trasformato in frontiera di morte fra l'Eritrea e lo Scioa. « Bene, dice il camionista, da qualche mese s'incontrano pattuglie militari e posti di blocco in ogni parte del Paese: ma laggiù, in Eritrea, la presenza militare c'è sempre stata ». C'è sempre stata una «doppia » presenza militare: ci sono i quindicimila uomini della seconda divisione, e ci sono i quattromila insorti del Fronte di liberazione eritreo, e secondo i comunicati del Fronte i quattromila, se necessario, sono pronti a diventare quindicimila pareggiando il conto col « nemico ». La guerriglia nella grande provincia costiera è stata una delle grandi cause della crisi che ha sconvolto la vecchia Etiopia. E' un'altra analogia con il caso portoghese: truppe chiamate a pagare duramente il prezzo di errori politici, che nel crogiolo della guerra maturano coscienza di sé e volontà di cambiare, e che fi- niscono con l'imporsi al Paese. La rivoluzione culminata ora nella caduta del vecchio imperatore nacque proprio laggiù, fra i soldati della seconda divisione. Fra gennaio e febbraio gli uomini insorsero, catturarono i loro ufficiali, presentarono le loro richieste. Un ventaglio di rivendicazioni, che andavano da confuse esigenze di democrazia al desiderio di una più consona « condizione militare ». Chiedevano, fra le altre cose, che la si facesse finita con l'uso di trasportare dai luoghi delle battaglie soltanto i corpi degli ufficiali caduti, mentre i cadaveri dei soldati venivano lasciati alle iene. Gli ufficiali furono « interrogati », dovettero riempire questionari, impegnarsi a cambiare le cose. Il punto di mira dell'insurrezione si levava sempre più, e dalla cattiva qualità del cibo passava ad inquadrare il lontano centro del potere feudale, da dove era partita l'idea di quella guerra disgraziata. Dalla finestra ormai spalancata entrava la consapevolezza che era possibile spingere il cambiamento molto in profondità. Le altre grandi unità militari del Paese furono presto coinvolte, e mentre nasceva quell'organismo kafkiano che è il Comitato coordinatore delle forze armate, della polizia e dell'esercito territoriale, misterioso gruppo di militari che emanava decreti anonimi e prontamente applicati, cominciava l'inarrestabile tramonto della millenaria Etiopia imperiale. E cosi, il 12 settembre, secondo giorno del 1967 secondo il calendario copto, Hailè Selassiè ormai ridotto ad essere il monumento di se stesso veniva anche tolto dal piedistallo. Quest'uomo impassibile, che per giorni e giorni era stato costretto a vedere sullo schermo televisivo gli orrori della carestia nel Wollo, sapientemente « montati » accanto alle immagini brillanti della vita di corte, dovette certamente pensare, quel giorno, al suo più grave errore politico. Mentre un ufficiale gli leggeva il decreto con cui il Comitato lo detronizzava, presente il vecchio Ras Imru in qualità di notaio della destituzione, davanti al ronzio delle macchine da presa che registravano la scena per la storia,'il pensiero del re dei re era sicuramente fermo a quel giorno del 1962, in cui aveva deciso di trasformare l'Eritrea, legata all'Etiopia da uno statuto federale secondo la volontà delle Nazioni Unite, in una provincia ordinaria dell'impero, senza più le garanzie autonomistiche raccomandate dall'Onu. Contro l'Orni Ci si domandò, allora, perché mai l'imperatore, la cui storia personale era così legata a quella delle organizzazioni internazionali (basti pensare all'atteggiamento della Società delle Nazioni al tempo dell'aggressione fascista, alla perorazione di Hailè Selassiè nel palazzo di Ginevra), avesse calpestato una decisione dell'Onu. Si disse che, forse, aveva giocato la volontà panafricanista: il desiderio da parte di un grande leader africano, candidato alla guida politica e morale del continente, di mostrare al mondo un'alternativa centripeta alle tendenze disgreganti già manifeste in altri Paesi decolonizzati. Era il tempo della lacerazione katanghese, il tempo in cui si faceva strada un'amara tesi politica: quella secondo cui l'Africa tribale non sarebbe stata in grado di « produrre » grandi Stati nazionali. Altri dissero che il governo imperiale volesse sempli- | cernente, con l'annessione \ dell'Eritrea, assicurare l'in- i tangibilità del suo sbocco al mare. La storia etiopica è la storia di un'isola: un'isola geografica, cioè il grande altopiario verde circondato da deserti; un'isola religiosa, , cristiani monofisìti nel gran ! mare islamico. Per rompere questo isolamento è stata forse inseguita una presenza incondizionata sul Mar Rosso? Ma era forse necessario, o non bastava piuttosto, per questo scopo, l'Eritrea limitatamente autonoma così com'era uscita dalle risoluzioni dell'Onu? In questi giorni circola qui ad Addis Abeba un'interpretazione molto più « cattiva » della decisione di dodici anni fa: non andia- mo a cercare cause profon- de, si dice, l'imperatore voi- te una provincia eritrea semplicemente perché aveva qualche dignitario da siste- mare, solo per allargare il ventaglio delle sinecure da distribuire ai suoi vassalli. Ma possibile che un uomo abile come il vecchio Ras Tafari, un uomo che si è sempre ritenuto perfettamente al corrente delle situazioni e degli umori del paese, non si rendesse conto delle conseguenze? L'analisi di quell'errore politico deve tener conto di un fatto: l'Etiopia del 1962 era circondata da vicini ostili. Nella generale tendenza progressista nata in Africa sulle ceneri del colonialismo, il vecchio impero restaurato dagli inglesi spiccava per il suo conservatorismo. La Somalia, indipendente da due anni, rivendicava i deserti dell'Ogaden, sulla base del principio di nazionalità, perché effettivamente quei deserti sono percorsi da allevatori somali. E poi c'era la questione religiosa, aggravata dagli ottimi rapporti di allora fra l'Etiopia cristiana e Israele. Un buon politico avrebbe dovuto capire, semplicemente passando in rassegna queste condizioni, che il mondo arabo e musulmano non avrebbe tardato ad armare la mano degli eritrei, in buona parte fedeli all'Islam, contro l'impero accentratore. E non tardò infatti: la guerriglia divampò ben presto sul bassopiano costiero e sui primi contrafforti dell'altopiano, con episodi atroci e sanguinosi, e presto Asmara, questa gaia città così « italiana », conobbe una massiccia presenza militare e lo squallore del coprifuoco. Oggi c'è una zona abbastanza vasta, all'estremo Nord, dove non arrivano i decreti del governo provvisorio militare, così come ieri non vi arrivavano quelli dell'imperatore. Vi comandano i ribelli del Fronte di liberazione, organizzati al punto da mandare le cartelle delle imposte agli agricoltori italiani della zona. Col risultato che questi ultimi sono sottoposti a un doppio regime d'imposte, e contribuiscono sia alle spese del governo ufficiale, sia a quelle del Fronte rivoluzionario. L'errore politico del Negus è diventato oggi il più grosso problema dei nuovi dirigenti militari. Come andrà a finire?, chie- | do ad un ufficiale incontrato \ °-l ministero dell'Ini or mazìo j ne- E' un capitano, lo indi ì cano come membro del Co ! mitato, ma è inutile chiede \ re conferma. «Risolveremo I 11 problema in un quadro di I unità nazionale, risponde, i rispettando i diritti di tut ti ». Ma quelli vogliono l'indipendenza, insisto, combat- I tono Per Questo, perché vo I Oliono comandare. Risponde con un sorriso: « Vogliono comandare? Ebbene, qualcuno di loro comanda, non dimentichi che il generale Aman Andom, capo del nostro governo provvisorio, è proprio un eritreo ». Alfredo Venturi Eritrea. Pastori nomadi: hanno tratti tipicamente islamici che è impossibile rilevare sull'altipiano etiopico (Foto G. Neri)

Persone citate: Aman Andom, Hailè Selassiè, Negus, Wollo