La musa in osteria di Giulio Cattaneo

La musa in osteria IL CENTENARIO DI ROVANI La musa in osteria In quella « selva » di pensieri « in seme — in fiore — in frutto » rappresentata dalle Note azzurre di Carlo Dossi, fra aneddoti ora spiritosi ora insipidi, citazioni e resoconti di letture, giudizi critici curiosi e assurdi, abbondano i progetti letterari inattuati: « Il libro delle bizzarrie», «Il premio dell'Onestà », « Il libro delle prefazioni », « Storia dell'umorismo», «Manualetto d'amore », « Cascami dell'immaginazione del Dossi », « Mirabilia », « La Ghiaja di Roma ». Nel suo continuo progettare il Dossi suggeriva ai pittori del suo tempo spunti per quadri che avrebbero drvuto celebrare gli ultimi « degli immortali », Manzoni ma anche Rovani. A nove anni Giuseppe Rovani aveva « letto e riletto i tre tomi » dei Promessi sposi e più volte se ne andò fino a Brusuglio percorrendo « a piedi le sette od otto miglia che la dividono da Milano». In estasi di fronte alla villa, attendeva che Manzoni apparisse, « lento e lievemente curvo sotto il pensiero ». « Quanta luce d'idee su quelle due fronti! Quale mistica strettissima parentela fra quelle due anime! Mancò purtroppo il pittore che potesse sorprendere e comprendere la fatidica scena, e al letterato la parola non basta ». Altro tema quello di « una cattedra all'aria aperta » nel cortile della Noce a Milano: « Rovani a una tavola, circondato da una eletta schiera di letterati e artisti. Beve e fa loro una lezione di estetica. Questo quadro darebbe occasione di conservar le sembianze di molti egregi, onor di Milano, quali il Cremona, il Grandi, il Ranzoni, il Magni, l'Uberti... (e anche il Dossi, in un canto) ». L'osteria era il regno di Rovani che v'incontrava gli amici, concionava, scriveva articoli, romanzi e soprattutto beveva. Cominciò col vino e continuò negli ultimi anni con l'assenzio: gli piaceva in particolare il Bordeaux, tanto che finiva per pagare quindici lire (uno sproposito) per una cena a base di polenta ma innaffiata da due preziose bottiglie. Il vino, in bottiglia o in boccale, è presente ad ogni sua apparizione, nelle lezioni « di estetica » o alla notizia della morte della madre. « La patria non dà da mangiare » osservò un giorno tetramente. « De bev sì » gli replicò l'amico Perelli. Si abbandonava a stravaganze come ordinare una colazione « al rovescio », dalla mancia al cameriere e dal caffè alla minestra, o pranzare d'inverno in mezzo a un giardino con la tovaglia di neve « sulla pietra del tavolo ». Il bere si accompagnava ai debiti: « Io nacqui indebitato. Se la bolletta fosse un violino, mi sarissi un Paganini ». Era nato nel 1818 « mentre alla Scala si stava eseguendo l'ultima prova del Ciro di Babilonia del venticinquenne Rossini e Manzoni di 33 anni meditava il Carmagnola ». Suo padre Gaetano, orefice, anche lui frequentatore di taverne, aveva fama di « novellatore impareggiabile»: fra i pezzi del suo repertorio il ballo del papa e l'assassinio del Prina. La madre era una « tirolese manesca », con qualche apprezzabile capacità di infermiera, ma dura, avida, imbrogliona. Rapporti non facili coi genitori, un matrimonio non felice, la morte dell'unico figlio di quattro anni, il sospetto ingiusto da parte liberale su un suo patriottismo accomodante e impuro afflissero la vita di Rovani insieme alle ristrettezze economiche mal combinate con una natura disordinata e spendacciona. * * Nel '48 si trovò a Venezia e più tardi a Roma: per quanto sostenitore della sua dedizione alla causa italiana, il Dossi non è riuscito a registrare in questi episodi che ricordi di osterie e di caffè. Fu anche in esilio nel Canton Ticino, a contatto coi protagonisti della rivoluzione quarantottesca, ma nel '51 era impiegato come « scrittore diurnista » alla biblioteca di Brera a tre lire al giorno e collaboratore per la parte artistica della « Gazzetta di Milano ». Poi l'infortunio che doveva provocare la diffidenza nei suoi confronti dei barbuti patrioti: le corrispondenze nella « Gazzetta di Milano » sui viaggi e i soggiorni delle Loro Maestà Imperiali Francesco Giuseppe ed Elisabetta di Baviera. Di qui l'affronto del pittore Gerolamo Induno nel suo studio affollatissimo dove era esposta « La battaglia della Cernaja »: « Che fa ella qui? Questo non è il suo luogo. Ch'el vaga dai so tedesch lu ». Il risultato era prevedibile: « l'assenzio gli si vide più spesso sullo scrittoio ». In casa l'inferno o quasi con la madre piena d'odio per la nuora: tutti i piatti erano accompagnati ad ogni pasto da parole astiose e occhi grifagni: « Ah la mia minestra! Ah il mio allesso! Ah il mio arrosto! », tanto che gli sposi fuggirono all'osteria degli Angioli e poi in una casa per conto loro dove tutto andò a rotoli fra spese scriteriate, favorite da coorti di amici pitocchi. Altro luogo frequentato da Rovani, oltre alle taverne, il teatro: « la Scala era il suo regno » e « il suo trono era composto dagli scalini che mettono ai palchi ». Critico musicale e appassionato dell'opera lirica, prediligeva Rossini, amava molto meno Verdi (— se ghe sent denter la vanga — «e faceva l'atto di vangare ») e « odiava la nuova scuola musicale », Boito e Faccio. Rovani esordì letterariamente a quindici anni con un libretto d'opera, Don Garzia, e « nell'età dell'innocenza » proseguì con tre romanzi storici, Lamberto Malatesta, Valenzia Candiano e Manfredo Pallavicino, dove il fedele Dossi trovava « dell'ingegno » e « anche del cuore », pure costretto a riconoscervi « una ineguaglianza perpetua », una confusione « d'elementi disparati » e « pochissimo amore dell'arte ». Nel suo preludio ai Cento anni, Rovani affrontava il tema del romanzo, la « più disprezzata » di « tutte le forme della letteratura e della poesia » e « per alcune classi di persone la più aborrita » in un tempo in cui le ragazze che leggevano romanzi dovevano rinunciare a « qualunque possibilità di matrimonio » e i giovinetti che le imitavano, colti sul fatto, provocavano « un tumulto nella famiglia, un parapiglia nel collegio-convitto; minacce di castighi, di espulsioni,' di collere implacate ». * * L'autore si abbandonava per suo conto all'esaltazione del romanzo che « tutte le verità dell.i religione e della filosofia e della storia » avevano attraversato per uscire « dall'augusta oligarchia dei savi » e «travasarsi al popolo»: «è elegia, è lirica, è dramma, è epica, è commedia, è tragedia, è critica, è satira, è discussione ». Il Rovani cercò di farcire di tutti questi ingredienti i suoi lunghissimi Cento anni ma dimenticò nell'elenco il principale: il melodramma. L'ammantellato tenore Amorevoli va ad un convegno d'amore ed è scambiato per un ladro e arrestato, in una festa una maschera-ritratto svergogna la contessa Clelia che sviene, a sua volta la contessa Clelia interrompe con un grido una avventura amorosa del Galantino nella notte veneziana, una figlia assale il padre con la spada in pugno chiamandolo scellerato dopo che è stato ferito in duello il suo promesso sposo: di scene come queste abbonda il romanzo da vero melodramma. Donne perfide e intriganti, nani perversi, cavalieri onorati e orditori di cabale si mescolano a personaggi illustri, « onor di Milano » e d'Italia, secondo le consuetudini dell'opera lirica. * ★ Nel grande guazzabuglio dei Cento anni l'autore ha messo in scena le figure più rappresentative di due mezzi secoli concentrando nelle stesse stanze Parini, Pietro Verri, Beccaria, Algarotti ed altri valentuomini con uno zelo che supera largamente la verità storica. In questo mare di prosa sciatta ogni tanto un episodio divertente: il migliore è « il ballo del papa » che ancora fa ridere. Dopo i Cento anni, La giovinezza di Giulio Cesare, che sbalordì qualche contemporaneo per la sua « profonda dottrina archeologica e storie ». « Chi sa in mezzo a quanti libri ha scritto lei La giovinezza di .Giulio Cesare », disse un ammiratore a Rovani. « Ch'el disa in mezz a quanti liter — rispose Rovani — e dirà più giusto ». Lo scrittore morì cento anni fa, il 26 gennaio 1874: « Si attribuisce il rovinoso tracollo della sua salute dal dì che venne trasportato alla casa cosiddetta di Salute, alla sottrazione non graduata delle bibite alcooliche ». Dossi lo sistemò in compagnia di Dante e Shakespeare e « della nuova letteraria vendemmia fatta coll'uva d'Alfieri, Parini, Foscolo ecc. » considerò Manzoni il vino, Rovani il torchiatico e se stesso la grappa. « Del letterario inverno d'Alfieri e compagni, Manzoni è la primavera, Rovani l'estate, Dossi l'autunno ». Giulio Cattaneo