Un favoloso ritorno degli Impressionisti di Marziano Bernardi

Un favoloso ritorno degli Impressionisti ECCEZIONALE A PARIGI Un favoloso ritorno degli Impressionisti (Dal nostro invialo speciale) Parigi, 23 settembre, La gente si pigia nelle sale del Grand Palais, fa coda davanti ai quadri più famosi, guarda, commenta, si colgono dal flusso ininterrotto di pubblico esclamazioni di ammirazione in lingue diverse. E questo pellegrinaggio di devoti eh'è cominciato venerdì scorso dopo la visita del presidente Giscard d'Estaing durerà certo col medesimo ritmo fino al 24 novembre, quando avrà termine — anche con la chiusura dell'attigua mostra nel Grand Palais, « Le musée du Luxembourg en 1874 », ch'è l'altra faccia (e ci riserviamo di parlarne) della pittura francese di cent'anni fa — la celebrazione ufficiale del centenario dell'Impressionismo. Per essere più esatti, della sua prima scandalistica apparizione parigina nei locali del fotografo Nadar, Boulevard des Capucines, battezzata col titolo « L'Exposition des Impressionnistes » appioppatole dal giornalista Louis Leroy per la presenza in quella fatidica esposizione della piccola tela di Monet, Impression, solài levati!. Era il 15 aprile 1874, una data capitale nella storia dell'arte moderna europea: come quelle delle Demoisellcs d'Avignon (1907) di Picasso e del primo dipinto astratto (1910) di Kandinsky. Eppure una buona parte delle opere esposte al Grand Palais codesto pubblico la conosce a memoria, può rivederle ed estasiarsene quando vuole nel maggior museo del mondo dell'Impressionismo, il Jeu de patirne di Parigi. Ma, come hanno dichiarato Hélène Adhemar, conservatore capo delle gallerie del Jeu de paume e dell'Orangerie, e Anthony M. Clark, del dipartimento delle pitture europee del Metropolitan Museum of Art di New York, nel magnifico catalogo che si apre col saggio dell'accademico di Francia René Huyghe, la mostra da loro allestita non vuol essere una retrospettiva dell'Impressionismo, bensì un florilegio della produzione più significativa e prestigiosa dei suoi maestri nel loro periodo « eroico », estesa da un Degas tutt'altro che impressionista, La famiglia Belletti (1858-'60) al tempo della Baie de Monetile, vite de l'Estaqtie (circa 1884-'86), un quadro di Cézanne prestato dal Metropolitan che, giustamente nota la scheda del catalogo, « S'élève au-delà de l'Impressionnisine, mais n'existerait pas sans lui »: e difatti in quel mare di lavagna, in quelle case e sponde e colline viste e rese con spirito geometrico, già s'avverte il presagio del Cubismo (e il pubblico, a giudicare dalla ressa, gli preferisce quel celeberrimo canto di gioia, quell'incantevole brano narrativo alla Maupassant ch'è il Bai du Moulin de la Gaiette di Renoir). * * Buona parte del Jeu de paume, s'è detto. Ma l'interesse eccezionale di questa mostra che forse mai più potrà ripetersi deriva dall'ingente, generoso contributo dato da altri musei. Straordinario soprattutto quello americano, che ai visitatori offre la visione diretta di opere eccelse per lo più note ad essi soltanto dalle riproduzioni a colori, spesso infedeli. Per esempio, della Grenouill'ere di Monet, « pendant » di quella di Renoir; della Venirne aux cbrysantbèmes, del Portrait de Tissot, della Classe de danse del 1871, di Degas; di quelle meraviglie che sono La femme au perroquet e En bateau di Manet; della Còte du Jallais, Pontoise di Pissarro; del Poni à V illeneuve-La-Garenne di Sisley; dei Parisiens au Pare Monceau e della fa mosissima (a nostro giudizio fin troppo) Terrasse à Scinte Adresse comprata nel 1967 a 580.000 sterline, oggi pari a 890 milioni di lire, di Monet; della Madame Charpentier et ses enfants di Renoir. Prestiti del Metropolitan, che così ribadisce la sua più vasta intesa culturale coi musei nazionali francesi, cui s'aggiungono quelli di Boston (Mary Cassar, A l'Opera; Degas, Aux courses en province), di Kansas City (Monet, Boulevard des Capucines), d'una collezione privata di New York (Degas, Classe de danse, circa 1875), di Minneapolis (Degas, Hortense Volpilicon enfant). Né basta. Da Mosca è venuto il Dé/enner sur l'berbe di Monet, da non confondere con quello di Manet; da Birmingham Les environs de Paris, di Guillaumin; da Stoccolma La grenouillère di Renoir; da Tournai Chez le pere Latitile, di Manet; Stavros Niarchos ha prestato la Nature morte à la pendtde de marbré noir di Cézanne. Altri dipinti hanno concesso alcuni musei e privati collezionisti francesi, tra cui il Marmottan (la Impression, soldi levanl, che naturalmente non poteva mancare) e Durand-Ruel, nome intimamente legato, come tutti sanno, alla storia dell'Impressionismo (uno splendido Boudin, La danse à la ville e La danse à la campagne di Renoir). Insomma, delle 42 pitture che compongono la superba antologia, la metà ha varcato i confini della Francia per confermare l'intramontabile partecipazione internazionale a una nuova visione dell'arte che, sorta dal genio francese, divenne patrimonio estetico del mondo intero. ★ ★ Tanto radicata e di sé cosciente nella cultura universale e questa visione artistica, vitale da un secolo perché inscindibile dal senso umano che a promosse appunto come inevitabile esigenza esistenziale e dunque durevole, che sembra superfluo nell'occasione di un centenario ritornare sui motivi ideali che la prepararono, la determinarono, la portarono al suo trionfo. Innumerevoli volte essi furono chiariti, e del resto anche questo giornale, a scadenza di data nell'aprile scorso, li sunteggiò per i suoi lettori. Motivi che si indicano, sia sul piano intellettuale che morale, sia nell'ambito estetico che in quello scientifico (ma le teorie ottiche e coloristiche dei Chevreul o degli Helmholtz, dei Rood o degli Henry, più che studiate e metodicamente applicate furono dagli Impressionisti intuite e immedesimate nel loro istinto), nella rivolta alle regole scolastiche, alle convenzioni accademiche, al peso delle tradizioni, alla pigrizia delle abitudini, a tutto un bagaglio di discipline che impedivano il rinnovamento del gusto, all'illusione d'una fissità della vita secondo il dogma antico del « nihil mutai ». Non sono sufficienti questi motivi a spiegare la rivoluzione impressionistica. Questa folla commossa che dopo cent'anni di « ismi » estetici tenaci od effimeri, giustificati o gratuiti, viene adesso a contatto fisico con quaranta capolavori che si potrebbero dire superati » da non si sa quante esperienze travolgenti e tuttavia si esalta della loro contemplazione, e vi ritrova — senza alcuno sforzo di intelligenza critica — le ragioni della loro sopravvivenza, anzi della loro attualità, costituisce, ci sembra, una « verifica » d'altissima necessità umana ch'è il maggior titolo di vanto della stupenda mostra del Grand Palais. Una finissima scrittrice d'arte francese, Eveline Schlumberger, definiva al principio di quest'anno gli impressionisti quali « peintres du bonheur ». Di essi quasi tutti vivevano, con le loro famiglie, nella nera miseria che una drammatica letteratura aneddotica ha copiosamente illustrato. Lavoravano accanitamente persuasi della loro giusta causa, e il loro lavoro era irriso o disprezzato. S'aiutavano l'un l'altro ma a volte la disperazione li sopraffaceva, come avveniva a Monet (il Monet adesso degli 890 milioni) quando scriveva a Bazille: «Depttis httit jours pas de paini pas de feti pollila cuisine, pas de lumière, c'est atroce »; od a Sisley quando implorava DurandRuel d'un piccolo soccorso per dare al macellaio e al droghiere « quelque chose ». Eppure erano, quegli eroi della vita quotidiana, « felici » — ha affermato la scrittrice — di essere liberi di dipingere ciò che gli piaceva e come gli piaceva: non II corpo di S. Cecilia portato nelle catacombe alla maniera dell'acclamato Bouguereau, o la nuda Verità da Ballo Excelsior del Grand Prix de Rome Lefèbvre (i due quadri sono alla mostra del « Luxembourg nel 1874 »), ma un divertimento popolare sulla riva della Senna o i solchi d'un campo imbiancato dalla brina o il gioco del riflesso di tre vele nell'acqua alle regate di Argenteuil. Diceva Renoir: « Noi abbiamo la gioia di dipingere dei quadri. Se per di più ci coprissero d'oro, la nostra sorte sarebbe troppo belle ». Dunque pittori della « gioia di vivere ». Nemmeno con la gioia del dipingere si spiegano esiti artistici tanto eccelsi, perché la grande arte non si spiega senza la coincidenza di realtà umane che non possono restarle estranee, anzi le si impongono. Era ciò che non capivano pittori del « Luxembourg 1874)», benché parecchi dota- tissimi di sorprendenti capaci- ta esecutive come appunto un Bouguereau o un Cabancl o un Geremie. Invece il pubblico che accorre al Grand Palais lo capisce, ed ancor oggi sente che gli impressionisti di cent'anni fa, non i loro stanchi epigoni, questi davvero « superati », gli sono spiritualmente necessari, tuttora maestri di vita e quindi d'arte. Sente che al di là delle ricerche tecniche, della perspicuità ottica (le ombre colorate, la giustapposizione dei toni, la rapidità esecutiva per cogliere la « impressione » atmosferica, del movimento, o che altro), essi cercpvano e raggiungevano la verità dell'uomo, che fa tutt'uno, pensiero ed azione, con la sua libertà. Su Le Monde di domenica, dopo aver ricordato giustamente che non è mai esistita una «dottrina impressionistica» — e meglio lo si vede dall'ampia, eccellente sezione documentaria della mostra — e che alla parola « dottrina » va piuttosto sostituita quella di « fraternità » sia nel sentire che nell'agire, André Fermigier ha rilevato che il grande problema dell'arte ufficiale al tempo dell'esplosione impressionistica era il logoramento dei soggetti. Che cosa si poteva dipingere che non fosse già stato rappresentato? E ci si appigliava allora a una reception d'un étranger chez les trappisles, o a le consul Boétius enfermé dans la tour de Pavie par ardre de Tbéodoric, reqoit les adieux de sa fille et de son petit-fils avant d'aller au supplice. « Che precisione atroce.' », esclama il critico. ★ * Gli impressionisti inventarono allora il nuovo tema, ma con maggiore spregiudicatezza dei realisti alla Courbet, senza l'aggressività sociale di questo, senza « le romantisme, le frisson pantheiste » del suo paesaggismo. Lo inventarono trattando i temi più semplici, ovvi, quotidiani della vita moderna, descrivendo gli aspetti naturali, i volti, gli atteggian.enti, i fatti, i sentimenti dei loro contemporanei dopo averli guardati e indagati con gli occhi e la psicologia di uomini moderni. È, s'intende, trovarono per l'invenzione il linguaggio adatto, « impressionista ». Ma per riuscirvi occorreva una sete inestinguibile di verità e di libertà. Per querto René Huyghe ha ribadito: «L'impressionismo, visione dell'universo nuovo ». Per questo gli impressionisti del Grand Palais sono vivi e « nostri » malgrado il tempo passato. Certo non si può ripetere l'Impressionismo nella sua forma figurata. Ma si può ripetere e mantenere intatto il suo spirito. Marziano Bernardi