La Scala diventa povera di Paolo Grassi

La Scala diventa povera Si troveranno i fondi per completare la stagione lirica? La Scala diventa povera Il 7 dicembre si darà il "FideHo"; ma, dice il sovrintendente Paolo Grassi: "La situazione finanziaria è disastrosa" (Dal nostro inviato speciale) Milano, settembre. La Scala è in stato di collasso. Si sa che l'apertura della stagione lirica è fissata per il 7 dicembre con «Fidelio» di Beethoven, diretta da Karl Bohm. E dopo? Un programma c'è, ma Grassi, il sovrintendente, ancora non s'arrischia ad annunciarlo; non sa se lo potrà rispettare. «La situazione finanziaria — dice — è disastrosa. Il bilancio della stagione '73-74 ha un forte disavanzo e soltanto di recente, quando già le spese erano state fatte, lo Stato ci ha comunicato che non intende coprirlo. Come possiamo esser sicuri del '75 se ancora non sappiamo come tappare i buchi del '73-74?». Tuttavia è fiducioso, afferma che riuscirà a condurre a termine la prossima stagione. Lo Stato ha stanziato per i tredici teatri lirici italiani, nella stagione '73-'74, 45 miliardi e 590 milioni di lire, e, di questi, 7 miliardi e 474 milioni sono stati assegnati alla Scala, il cui bilancio si è chiuso con un ulteriore passivo di un miliardo e 376 milioni di lire. «La situazione finanziaria si fa sempre più pesante — afferma il sovrintendente —, anche perché, oltre all'aumento continuo dei costi, lo Stato non ci corrisponde tutto ciò che ci assegna sulla carta. Siamo in arretrato con i contributi che ci pervengono: 20 miliardi dal 1967 in poi. Signi fica che, per corrispondere le paghe ai complessi artistici, orchestra, coro, balletto, e ai tecnici, settecento persone in totale, siamo costretti a contrarre mutui che ci costano profumatamente: quest'anno un miliardo e trecento milioni di interessi passivi». La Scala ha un bilancio complessivo di 11 miliardi. Le entrate non compensano gli altissimi costi della gestione. Nella scorsa stagione sono state allestite diciannove opere e otto balletti, 430 recite in totale, sempre con grande successo. «Ma i biglietti devono essere venduti a un prezzo politico, e non economico — dice Grassi —. Se dovessimo pagare tutte le spese con i biglietti, il loro prezzo sarebbe talmente alto che pochissimi privilegiati potrebbero assistere agli spettacoli. Un teatro come la Scala non è un'azienda comune, per il suo bilancio non si deve parlare di deficit, ma di "costo politico ed economico" il quale paga valori artistici, civili, culturali che la Scala esprime, a Milano e in tutto il mondo». Paolo Grassi, 55 anni, ha in mano le redini della Scala dal febbraio '72. Di famiglia pugliese, ma nato a Milano, ha dedicato tutta la vita al teatro. Lui e Giorgio Strehler fondarono, nel gennaio '47, il Piccolo di Milano, un organismo che ha via via accresciuto il proprio prestigio. Grassi lo ha abbandonato per insediarsi alla Scala, dove già da tre anni era consigliere. Non gli è certo mancata la vitalità, e ora che gli ostacoli si accentuano, lotta con maggior vigore. «Non siamo certo soltanto noi a dibatterci in questi problemi. Le nostre difficoltà sono le stesse che hanno gli altri teatri lirici italiani e l'Opera di Parigi, la Deutsche Oper di Berlino Ovest, la Staats Oper di Vienna, il Covent Garden di Londra, ì quali sono tutti pubblici istituti, oppure il Metropolitan di New York, che è mantenuto in vita da una fondazione. Nessuno, negli altri Paesi, si meraviglia degli alti costi dei teatri lirici a livello internazionale». Dei tredici Enti lirici italiani, tutti sovvenzionati, soltanto il Regio di Torino e l'Ente Concerti del Conservatorio di Cagliari hanno chiuso in pareggio, cioè sono riusciti a contenere le spese nella misura del contributo ricevuto, e il «Carlo Felice» di Genova ha addirittura avanzato 35 milioni. Tutti gli altri hanno chiuso con un ulteriore disavanzo: il più alto è quello della Scala; seguono «La Fenice» di Venezia con un miliardo e 300 milioni, l'«Opera» di Roma, un miliardo e 41 milioni, il «Massimo» di Palermo, un miliardo, per finire con l'Arena di Verona, 80 milioni di passivo. Ora, nonostante questi bilan ci così pesanti, che dovrebbero indurre gli amministratori a contenere le spese, i vari teatri si fanno concorrenza, si contendono i cantanti o i maestri, pretendono, a volte, addirittura di avere in esclusiva certi personaggi, con il risultato di far salire enormemente le loro quotazioni, che sono già in origine molto elevate. Grassi dice, a questo proposito: «Gli onorari che noi discutiamo e concordiamo sono uguali, e a volte inferiori, a quelli^ei grandi teatri lirici». E aggiunge: «Di recente enti italiani hanno corrisposto a direttori, cantanti, ballerini, solisti, onorari superiori a quelli della Scala». La tradizione lirica ha buon diritto di essere tenuta in vita, è un fatto culturale importante, e, inoltre, questi enti teatrali danno lavoro ad una massa di coristi, ballerini, orchestrali, tecnici, operai, di circa ottomila persone. Queste sono le spese incomprimibili, e rappresentano il 70 per cento di quelle totali. Qualcuno ha avanzato la proposta di ridurre il numero degli enti, in modo da abbassare il totale del deficit; ristrutturandoli, però, al fine di soddisfare le esigenze degli spettatori con ampie tournées. Paolo Grassi su questa proposta non si pronuncia, si limita a dire: «Certo, qualcosa deve essere mutato, ma non sta a noi stabilire chi deve rimanere e chi deve essere ridimensionato». Le sue parole sottintendono che non si può naturalmente pensare di toccare la Scala, che è il teatro lirico più qualificato d'Italia. «La Scala — dice Alfredo Mazzoni, sindacalista della Fils, Federazione italiana lavoratori spettacolo, aderente alla Cgil — dovrebbe cominciare col mettere a disposizione i propri magazzini agli altri teatri. Perché accumulare tanto materiale che rimane poi inattivo quando altri spendono decine di milioni per averne del simile?». Secondo Mazzoni, i tredici teatri sono troppi, come gestioni, non come strutture. In altre parole, uomini e attrezzature andrebbero gestiti in modo diverso. «Basta — dice — con la po¬ Un vecchio palco della Scala, in una stampa d'epoca litica della grandeur, che ci costa solo dei soldi e rende poco. Occorre la collaborazione fra i vari enti, non la lotta. Gli enti dovrebbero essere sciolti, e al loro posto dovrebbero essere costituiti dei centri produttivi. La riforma che auspichiamo dovrebbe creare un effettivo servizio pubblico che programmasse il proprio piano di lavoro, tenendo presenti anche le necessità dei lavoratori e degli studenti, i quali, ovviamente, dovrebbero essere rappresentati nei consigli di gestione». Remo Lugli