Per un pugno di miliardi

Per un pugno di miliardi I nostri soldi Per un pugno di miliardi (Col blocco festivo delle auto, poco il risparmio e grandi i danni) Nei primi 8 mesi di quest'anno abbiamo consumato il 10 per cento di benzina in meno dello stesso periodo (primi otto mesi) dell'anno scorso. Può anche essere una buona notizia per i nostri conti con l'estero, perché significa così, grosso modo, che abbiamo risparmiato una quarantina di miliardi di lire (in valuta estera) di importazioni. Ma la notizia perde un po' del suo interesse, se si confronta con gli oltre 4000 miliardi di disavanzo della bilancia commerciale — quindi, cento volte tanto — registrati nel solo primo semestre dell'anno. Diventa addirittura negativa se si pensa allo sconquasso provocato nell'industria, nel turismo e nelle attività collaterali da tutte le misure prese contro l'automobile, appunto per risparmiare benzina, pervicacemente ostinali a considerarla come il « nemico numero uno » dei nostri conti con l'estero, come una droga da eliminare per la salvezza del nostro organismo. La benzina, liei consumi petroliferi, rappresenta invece lo spicchio più piccolo e il suo consumo costituisce — o meglio, costituiva — un segno sicuro di vitalità di tutto l'organismo economico. Quando parlo di misure contro l'automobile, e in particolare dell'aumento di prezzo della benzina, mi riferisco, naturalmente, a quella parte, molto cospicua, della quota destinala al fisco, non al rincaro dovuto ai nuovi prezzi del greggio all'origine. Anche il fisco, però, dato il minor consumo, non ha molto da rallegrarsi di come sono andate le cose. Meglio sarebbe cercare di aumentare le entrate da altre parti, evitando, per un pugno di miliardi in più subilo, di pregiudicare l'avvenire. La stessa bilancia dei pagamenti avrebbe tutto da guadagnare occupandosi non soltanto delle uscite, cioè delle spese per le importazioni, ma anche delle entrate, cioè degli incassi per le esportazioni. Sembra incredibile che, con la fame di valuta estera che abbiamo, l'attività delle nostre raffinerie petrolifere sia diminuita del 3.5 per cento nei primi otto mesi dell'anno, sempre in confronto al 1975, e addirittura del 15 per cento in luglio e dell'I 1 in agosto. Le raffinerie, come tutti sanno — ma forse non tutti — lavorano anche per l'esportazione, cioè importano petrolio greggio, lo trasformano in olio combustibile, gasolio, cherosene, benzina, eccetera e riesportano questi prodotti, incassando va¬ luta estera. La posizione geografica dell'Italia, a metà strada tra Paesi produttori e Paesi consumatori di petrolio, la sua capacità di raffinazione, sono tali che potrebbero coprire, non certo totalmente, ma per una parte non indifferente, il nostro « disavanzo petrolifero ». Purtroppo, abbiamo fatto di tutto per spuntare quest'arma, con le licenze di esportazione e altre misure che hanno scoraggiato i clienti esteri, proprio nel momento in cui il cliente può scegliere, perché il mondo è pieno, scoppia, di petrolio, greggio e raffinato. Siamo riusciti egualmente, nonostante queste misure sbagliate, ad esportare in sci mesi « derivati dalla distillazione del petrolio », come si chiamano nel linguaggio doganale, per oltre 700 miliardi di lire, con un aumento del 140 per cento rispetto ai primi sei mesi del 1973, ma solo per il rincaro dei prezzi e non in misura tale da compensare l'aumento, in valore, delle importazioni di greggio (oltre il 200 per cento in più). Ma si poteva, e si doveva, fare molto di più. Si dice sempre, e con ragione, che la nostra industria è trasformatrice, cioè importa materie prime e semilavorati e li trasforma in prodotti finiti, buona parte dei quali destinati all'esportazione. Non si capisce perché solo al settore petrolifero non si voglia applicare questa etichetta: non nel suo interesse (che non mi riguarda) ma nel nostro, di contribuenti, di consumatori e di lavoratori.

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