Joyce giovane

Joyce giovane ATTRAVERSO LE LETTERE Joyce giovane Ritratto dell'artista da giovane: si tratta proprio di James Joyce; e la lettura della scelta dal suo epistolario, che con molto amore ne ha ricavato Giorgio Mclchiori (J. J. Lettere, ed. Mondadori) invita a tracciarne un abbozzo. Più di una fotografia la conosciamo: in lunga palandrana scura a vent'anni; in giacchetta e gilet a ventidue, bonetto sul capo, mani sprofondate in tasca, calzoni che si afflosciano sulle scarpe, il capo leggermente piegato verso destra: un'aria scanzonata, pur senza sorriso, un'occhiata caustica, stretta la bocca come una feritoia. Sappiamo ancora, da varie testimonianze, che il giovanotto — già era stato a Parigi, in fuga dai « fetidi » borghesi di Dublino e da quel malanno necessario che è una famiglia — amava vestire in modo singolare: un maglione sdrucito e scarpette da tennis, il cui colore bianco era appena un ricordo. Puro stile « camp », potremmo oggi affermare. In più sappiamo delle sue salaci battute, della sua sconfinata presunzione, della sua simpatia, e del suo tirare a esser Dante. Amò Ibsen, al punto che per scrivergli una lettera studiò il norvegese. Per dire qualcosa della sua presunzione basti la memoria di un altro scrittore (per qualcuno il più grande poeta in lingua inglese del nostro secolo): William Butler Yeats. I due si incontrarono in un caffè di Dublino nel 1902. Yeats chiese a Joyce di leggergli qualcosa di suo — erano le prime « epifanie », espressione della vita colta nel suo farsi, libera da ogni obbligo formale. A Yeats sembrarono belle, pure se immature. Joyce rispose: « Veramente non mi importa se a lei piace o meno quello che /accio; non farebbe nessuna differenza per me. Proprio non so perché le stia leggendo queste mie cose ». Quando il colloquio finì, Joyce chiese: « Io ho vent'anni. Quanti anni ha lei? ». Yeats racconta: « Glielo dissi, ma devo confessare che mi ringiovanii di un anno. Con un sospiro commentò: "Lo immaginavo. L'ho incontrata troppo tardi. Lei è troppo vecchio" ». Yeats aveva trentasctte anni. Non staremo a stupirci di queste « stravaganze ». Anzi, ci affascinano. Joyce era un uomo già sciolto da ogni impegno di galateo, solfeggiava la sua esistenza sul ritmo del rifiuto di ogni obbedienza, ma non respirava l'aura bohémien che, dati gli anni, sarebbe stata la più sua. Non è uno di quegli arrsti scapestrati e un po' matti, stipati di genialità in tutti gli angoli della mente e del cuore, che Wyndham Lewis avrebbe così felicemente rappresentato in Tarr: esseri tutto sommato compassionevoli e di nessun futuro, irrisolti. ★ ★ Dunque, questo Joyce giovane non è già soltanto il poeta di Chamber Music, o lo scrittore che ha cominciato a progettare Dubliners e Dedalus: c'è qualcosa di stranamente originale dentro di lui, nel suo comportamento, nei suoi gusti. Canta con bella voce da tenore, legge la musica speditamente, ama Wagner, ridicolizza il bere ma beve fino ad andare lungo per terra, pensa che la libertà sessuale sia il presupposto della libertà spirituale, e possiede un immediato talento satirico che si rovescia — vedi il racconto di suo fratello Stanislaus — su chi gli vive accanto. E' un giovane in rivolta, ricco di estro. Se gli manca qualcosa, è l'amore. Ma verrà anche quello, proprio nel 1904. Il 10 giugno James passeggia per Nassau Street a Dublino. Vede una bella ragazza dai capelli castani, bel portamento, bella altezza. Le rivolge la parola, e quella risponde con vivacità. Lui portava il suo solito berretto: lei lo credette un marinaio: l'azzurro degli occhi lo fece scambiare anche per uno svedese. La ragazza si chiamava Nora Barnacle, lavorava in un albergo d'una certa eleganza: — presero appuntamento per il 14. Nora non si presentò. Il 15 lui le scriveva: « Potrei essere cieco. Ho seguilo a lungo dei capelli bruno-rossicci e ho concluso che non erano i tuoi. Sono tornato a casa molto abbattuto. Vorrei fissare un appuntamento ma potrebbe non andarti bene. Spero che sarai così buona da concedermene uno —• se non mi hai dimenticato! ». Si rividero il 16, e fecero una passeggiata fino a Ringsend: da quel giorno si incon- trarono regolarmente, e Nora fu la donna di James per la vita, la madre dei suoi figli. Il 16 giugno è la data dell'azione deU'Ulysses: è questo il più eloquente omaggio che Joyce poteva offrire a sua moglie. Dice Richard Ellmann, l'insostituito biografo joyciano: «Il 16 giugno fu il giorno fatidico che divise Stephen Dedalus, il giovane ribelle, da Leopold Bloom, il marito compiacente ». ★ ★ Nora non era una ragazza che avesse speciali qualità: non aveva alcuna cultura, né gusto. Aveva spirito e gusto a esprimersi, pare, con parole pungenti: aveva un pizzico di civetteria, e il sesso le era tutt'altro che sconosciuto. Joyce se ne innamorò, e le scrisse lettere d'una franchezza così arresa da farci intuire quanto nel suo animo vi fosse di novità, quanta leggerezza vi fosse nel suo spirito. « Mia Nora così specialmente imbronciata, ti ho detto che ti avrei scritto. Ora scrivimi tu e dimmi cosa diavolo non andava ieri sera. (...) La prossima volta che vieni lascia a casa il broncio — anche il busto ». « Cara Nora mi sono accorto di sospirare profondamente stasera camminando e ho pen sato a una antica canzone scrii ta trecento anni fa dal re in glese Enrico Vili — un re brutale e lussurioso. La canzone è così dolce e fresca (...). E' strano da quali pozzanghere fangose gli angeli traggano uno spìrito dì bellezza ». Era il bel corpo di Nora ad attrarre Joyce? Ebbe occasione di dire che Nora « lo fece diventare uomo ». Per questo soffrì stupori e rilut tanze. « Cara Nora. E' appena suonata l'ima. Sono rientrato alle undici e mezza. Da allora non ho fatto altro che starmene seduto su una poltroncina come un idiota. Senza poter fare niente. Non sento che la tua voce. Sto come un idiota sentendoti chiamarmi "Caro". Ho offeso due persone oggi pian tandole in asso. Volevo sentire la tua voce, non la loro ». In un'altra lettera il saluto va così: « Adieu, mia cara Nora dall'animo semplice, eccitabile, dalla voce profonda, sonnolenta, impaziente. Centomila baci ». Cosa cerca in questa ragazza tanto na'ive il raffinato scrittore di Chamber music e delle prime epifanie? Fugge via con lei da Dublino. I piccoli riti dell'avanguardia artistica locale gli sono venuti a noia. Amerebbe tornare a Parigi. E' in via di pubblicare i racconti presso un editore: — Dubliners, e ci vorranno ancora otto anni di trattative perché escano. Accetta qualunque offerta: — quella di insegnante di inglese presso la Berlitz School di Zurigo, ma finisce a Pola, un borgo di mare che non gli piace, la rada zeppa di navi da guerra austriache. A Nora chiede di essere la sua famiglia, e presto nascerà Giorgio, il primo figlio. E' una famiglia vagabonda quella che Joyce impianta: lui pronto a viaggiare e a mutare lavoro. Ma è proprio quel che desidera, per lo scopo di calarsi il più possibile — lui col suo gusto, la sua cultura, le sue aspirazioni — nel guscio più insipido e ovvio che possa accrgliere un uomo. Camere ammobiliate, pensioncine, trattorie da pochi soldi: una penuria inarrivabile, toppe ai calzoni, un continuo contare gli spiccioli. Da Pola a Trieste: — il mare, con la città di fronte può ricordargli l'odiosamata Dublino. Un via vai di studenti, di lezioncine gli mangiano tutto il tempo disponibile. A Trieste Io raggiunge Stanislaus fedelissimo. Ma a quel punto, Joyce parte per Roma: abbandona la Berlitz per far l'impiegato di banca. Nella rincorsa verso l'anonimato, il giovane poeta non conosce ostacoli. E' l'agosto del 1906: resterà a Roma fino al marzo del 1907, quando si accorgerà di avere sprecato sette mesi in un lavoro duro, mal remunerato. Allora tornerà a Trieste, ancora alla Berlitz. Le lettere da Roma a suo fratello Stanislaus rimasto a Trieste costituiscono l'altro grande momento da cui cavare elementi per l'approssimativo ritratto dell'artista da giovane che vorremmo dipingere. Non sono tanto le sue reazioni alla città che ci attirano: «Il Tevere mi fa paura»; «i romani sono bene educati » ; « Roma ha un solo caffè e quell'uno è peggio di tutti i migliori a Trieste. Questa per me è una dannata seccatura ». Oppure, dopo una visita ai Fori: « Roma mi fa pensare a un uomo che si mantenga col mostrare ai viaggiatori il cadavere di sua nonna ». No. E' il Joyce quasi impazzito di gioia davanti ai primi passi e alle prime parole italiane che pronuncia suo figlio che più sorprende; che va in trattoria e discorre di politica con l'oste, e gli altri « sciagurati ». Legge Oscar Wilde, ma sua moglie e il bambino giocano sul tappeto facendo bolle di sapone: e lui si diverte con il libro e con il gioco insieme. La vita, per il futuro scrittore di Ulysses, è una mescolanza di elementi affatto eterogenei: dominato da essi, se ne riempie tutto, se ne lascia invadere come dalla totalità dell'essere. Non più cattolico e mistico, come gli insegnanti della scuola che ha frequentato avrebbero desiderato fosse, i suoi occhi sono rivolti in basso, al formicolìo di ciò che accade e pare non accadere: — di là da questo non c'è vita. « Giorgie sta molto bene e è ingrassato. Passa le giornate a tirare in giro carte vestiti e scarpe. Viene spesso maledetto da entrambi i genitori per aver perso il pettine e la spugna o l'asciugamano o il mio cappello o le scarpe: e quando gli si chiede dove sono indica il soffitto o la finestra e dice La ». Queste lettere così ricche di notizie sui socialisti italiani, sulla disputa fra Enrico Ferri e Antonio Labriola (Joyce parteggiava per l'estremismo di Labriola), sono anche zeppe di conti di casa. Parrebbe miopia: parrebbe necessità. E' già il segno di Bloom che sgrana spiccioli in tasca come un rosario. Oh sì! la grande poesia si nutre di ben piccole cose e di problemi che in quel 1906 non toccavano il tetto delle cento lire; ma accanto a questo scopriva in Joyce il tormento di tutto un secolo, il crudo sapore dell'esistente assaporato senza aggettivi. Enzo Siciliano James Joyce, di Levine (Copyright N.Y. Rcvicw of Oooks. Opera Mundi c per l'Italia La Stampa)