Amendola vivo

Amendola vivo TACCUINO DELLA MEMORIA Amendola vivo Cannes, La Croisettc. Oltre la folla cosmopolita, così manifestamente ignara e immemore, anche quella che sfoggia macchine targate Italia, inseguo, ricerco, riesco lentamente a delincare il volto d'un uomo. Guardo la marea dei panfili che occupano, e praticamente colmano, il pori de plaisance, ma non su di essi poso Io sguardo; quasi miracolosamente, veggo le imbarcazioni trasformarsi, antiquarsi, assumere la foggia disusata d'un "postalino" semitraballante, graveolente, fumoso e scomodo. Mi ritrovo, felicemente o infelicemente, a bordo d'uno di quei postalini; la mia prima scoperta di Napoli e del suo golfo, Pasqua del 1920 (o del 1921?), mèta Sorrento; e il ragazzino, fra le altre sperienze e scoperte, fa quella, altresì, del mal di mare. Ma gli occhi della memoria son fissi sul volto e sulla persona d'un uomo, piuttosto alto, piuttosto pesante, grigiastro ormai di capelli e alquanto scuro di carnagione, vestito sobriamente e austeramente di scuro, nonostante l'assolato giorno festivo, l'aspetto rigido e severo, diverso dagli altri tipi umani che ho incontrati fin qui. Si salutano, lo sconosciuto e mio padre, con una cordialità un poco distante, si scambiano brevi e generiche parole. Avverto un certo imbarazzo, quasi le vestigia od i resti d'un'antica ostilità, ma insieme il rispetto sincero che mutuamente si dimostrano due leali avversarli. Ebbi l'impressione non pur d'un uomo fisicamente bellissimo, ma d'una personalità massiccia, imponente, d'unVlerità fondamentale rispetto a quanti "grandi" avevo conosciuti o veduti. E pochi ho veduti o conosciuti di poi, che per qualche modo gli somigliassero. O forse uno solo, ch'egli difficilmente avrebbe amato, pur sentendolo fondamentalmente un suo pari: l'anglo-puritano Sir Stafford Cripps. Cripps, in effetti, quanto riuscì "popolare" tra gli inglesi (ne! senso, naturalmente, di rispettato e ammirato, ma sempre con un misto di reverenza e di paura, e sempre sogguardato a distanza con malcelati fastidio e vergogna), altrettanto fu "impopolare" nella stessa nostra Italia immediatamente post-bellica e "resistenziale", appunto per quell'aspetto fra di predicatore e di pastore protestante, per quell'austerità d'uomo di religione, che non quadra con lo scanzonato cattolicesimo od anticlericalismo degli Italiani. Ebbene, qualcosa di quell' "impopolarità" sarcastica e volgaruccia, frutto in primo luogo d'un complesso d'inferiorità o, ch'è il medesimo, di cattiva coscienza, credo provassero gli Italiani nei confronti di Amendola. Perché, anche quando la nostra società e la nostra classe parlamentare erano tutt'altre, anche quando riflettevano un livello culturale, una pratica e un'osservanza di valori spirituali di cui s'è smarrito perfino il ricordo, l'uomo di religione, il laico che tanto più, anzi, è laico, quanto più è uomo di religione, pur senza professare una religione, non è stato mai popolare e, tanto meno, frequente: come non era né frequente né popolare il caso d'un uomo che entrasse in politica e facesse politica, e fosse deputato e ministro, dunque un tecnico e un professionale del parlamentarismo, non per le vie consuete dei partiti e delle clientele, i clubs dei notabili o le organizzazioni operaie, ma per le vie inconsuete della filosofia, della pubblicistica, della meditazione civile. ★ ★ Venne a notorietà mercé la sua collaborazione a riviste "impegnate", soprattutto la Voce, con i cui redattori ebbe frequenti baruffe e da cui volle più volte separarsi, perché nell'intimo doveva misurare le divergenze insanabili, la differenza sostanziale sua, da uomini come Papini e Soffici, come Prezzolini ed Ojetti: che erano, al loro meglio, dei "letterati" (e il piemontese Vittorio Alfieri ne avrebbe, anzi, duramente parlato come di "letterati protetti"). Amendola, invece, altrettanto "uomo di lettere", altrettanto esperto lettore dei nostri classici, proveniva da ben diverse filosofie, nonostante i comuni fondamenti volontaristici, nonostante il comune "primato della ragion pratica", che non fossero Nietzsche, William James o eventualmente Bergson. Era spiritualista, teosofo, parimenti avverso ai superstiti positivisti e agli idealisti di matrice hegeliana e di osservanza (i maestri compresi) crociogentiliana. E più conformistica, pur nel suo innato ami-con¬ ! j| formismo, sarebbe stata la sua via, se, quand'era ormai prossimo a toccare la mèta d'una cattedra universitaria, non avesse, invece, d'un tratto, lasciato la compagnia della Voce e della Firenze "vociana", non avesse risposto all'appello prima di Missiroli, poi di Luigi Albertini, entrando all'ufficio romano e del Carlino e del Corriere: donde la guerra e il dopoguerra lo trassero alla politica militante e alla tribuna parlamentare. Meridionale di Destra storica, in quanto ebbe fortissimo e religioso il senso dello Stato (sia come dovere civile sia come amministrazione rigorosa della cosa pubblica, la quale è di tutti, ed è al servizio di tutti), non sorprende che, prima ancora d'essere "salandrino", Amendola condividesse, non pur con Albertini e Salandra, ma con gli amici fiorentini, primo il Salvemini, 1' "anti-giolittismo". Con una radicale differenza, però: i "fiorentini" rimproveravano a Giolitti di non essere né estetico né letterato o letterario, di essere un prosaico burocrate, di governare l'Italia come un qualunque capo divisione — quando non avversassero in lui, come Salvemini (e in questo il Salvemini era tra gli uomini della Voce sostanzialmente solo), il settentrionalista, il "corruttore", in senso riformistico, parlamentare, "borghese", del socialismo italiano. * * Ora, proprio su questo punto essenziale, Amendola, che contro Giolitti e i socialisti, in ispecie durante la guerra, aveva scritto pagine feroci, si trovò suo malgrado concorde con Giolitti e sollecitò nel marzo 1920 la partecipazione dei socialisti al governo, magari al prezzo d'una scissione (che tosto seguì, comunque, a Livorno e a Roma, fra il gennaio del '21 e l'ottobre del '22): perché si dovev.i dare all'Italia un governo, il quale fosse capace e meritevole di governare, in quanto rappresentativo di tutte le forze e di tutte le classi, quelle, in ! ispecie, che nell'usura delle trincee e nell'indefessa mobilitazione delle fabbriche avevano più direttamente contribuito alla vittoria e al nuovo assetto europeo. Cadde nel vuoto l'appello di Amendola, soprattutto perché troppo pochi ne avvertirono il valore etico-religioso, e nell'intrallazzo partitico-parlamentare, nei ripicchi, nelle furberie e gelosie si disubbidì al dovere comune di salvare l'Italia, la libertà dell'Italia. Uomo j di religione, Amendola era per| ciò stesso uomo di libertà. E insorse quando la vide minacciata, invano sollecitando, egli ancora monarchico, la firma del re al decreto di stato d'assedio per stroncare la marcia su Roma: come insorse, né ebbe più speranza o requie, ma solo il proposito di far gettito della vita, pur di testimoniare per il paese e per l'avvenire, quando il fascismo si affermò. E non ebbe mai dubbii che lo si dovesse combattere, rifiutare e respingere /'/; folo. Ebbe allora alleati, e soprattutto intimi compagni ed amici, quei socialisti e "neutralisti" che aveva insultati, confondendosi suo malgrado con la marmaglia nazionalistica. Riconobbe sull'altra sponda uomini diversi ma uguali, in quanto anch'essi uomini di religione. Ebbene, questa consapevolezza della morte, questa costante preparazione alla morte, ancor prima e ancor più del falto della sua morte, del suo morire, come disse poi Croce nell'epigrafe salernitana, "di ferite italiane I in terra straniera", testimoniano l'unicità italiana e la religiosità purtroppo così poco italiana di Amendola: spiegano, illuminano, eternano le pagine ch'egli scrisse, i discorsi che pronunziò, imperando il fascismo, in cui volle combattere sempre non tanto una dittatura, quanto il Male, il nemico dell'Uomo, Satana e Caino insieme. Perciò, invitato a scrivere "un articolo, an pensierino, un rigo" in memoria di Anna Kuliscioff, alle soglie d'un "anno nuovo" che Claudio Treves gli augurava "meno perfido e a me auguro sia l'ultimo, se si deve" (l'anno che doveva segnare per l'uno la morte e per l'altro l'esilio...), Amendola ricordava l'antico suo ossequio per una donna devota alla "missione, che nega il dilettantismo e l'avventura, e conferisce rigida unilà di lavoro, di disciplina e di dovere ad una vita umana", senza "nulla che somigliasse ad un abito di polìtica professionale o alle deformazioni inevitabili della mentalità partigiana". E di Anna Kuliscioff, due cose, anzi, soprattutto fermava nel suo ricordo: i "grandi occhi credenti", lo "spirito indefessamente attivo, e tutto animato di fede e di speranza". Parlava forse, per allegoria, di se medesimo, della sua vita ormai prossima a spegnersi, del suo corpo straziato dalle bastonature fasciste. Ma qualcheduno non ha dimenticato di lui i "grandi occhi credenti", quali già vidi sul "postalino" napoletano d'oltre mezzo secolo fa. Né dimentica la sua religione, il suo essere uomo di religione. Un altro, soltanto, dei nostri "politici" fu, dopo di lui, uomo di religione: De Gasperi. Cinquantanni ormai, dalla morte di Amendola; e venti dalla morte di De Gasperi. Mi guardo intorno, frammezzo alla folla indifferente della Croisette. Gli occhi ricercano il cimitero dell'esilio dove Amendola fu sepolto e dove spesso convennero, come a mistico ritrovo, i suoi compagni e i suoi figli. Rivedo la pietra sepolcrale. Rileggo, ripeto nella memoria l'epigrafe che dettò per quel camposanto straniero Roberto Bracco, quasi una promessa, un impegno e un auspicio: "Qui vive Giovanni Amendola aspettando"... Piero Treves