Appartiene alla nostra storia di Vittorio Gorresio

Appartiene alla nostra storia LA PARABOLA DEL NEGUS DA PROGRESSISTA AD AUTOCRATE Appartiene alla nostra storia Haila Sellase è un personaggio, non dei peggiori, del recente passato italiano - I suoi anni migliori furono quelli prima della guerra con l'Italia: ammiratore dell'Europa, cercò di stroncare il potere dei ras e di creare una monarchia costituzionale - Al ritorno dall'esilio, trattò con lealtà gli ex nemici Il primo incontro con l'Italia di Haila Sellase (questa è probabilmente la migliore grafia del suo nome, raccomandata dagli specialisti) risale a mezzo secolo fa, quando egli venne a Roma, in qualità di reggente-erede del trono etiopico, nel corso di un suo viaggio di due mesi e mezzo attraverso l'Europa. Era accompagnato da due ras, da trenta servitori, e nel suo bagaglio portava sei leoni e quattro zebre che distribuì equamente fra il re d'Inghilterra, lo zoo di Parigi e il presidente francese Millerand. A noi d'Italia non regalò niente, forse anche perché le accoglienze romane non gli furono molto lusinghiere. Mussolini gli dette una manata sulla schiena e fu tutto. Il caso Matteotti Era l'agosto del 1924 ed il Paese era turbato dall'assassinio di Giacomo Matteotti, di due mesi prima. Il suo cadavere (poi ritrovato nella boscaglia della Quartarella) non era ancora stato scoperto. A ras Tafari, come allora si chiamava il futuro imperatore, la stampa dedicò scarsa attenzione. Soltanto il Becco giallo pubblicò una vignetta che lo raffigurava in colloquio riservato con Mussolini sul tema del cadavere scomparso: «A me potete dirlo. Ve lo siete mangiato?», domandava Tafari secondo l'incivile didascalia razzista del disegno. Se lo si fosse conosciuto, egli meritava di meglio. Proprio quel viaggio europeo servì ad ammaestrarlo sulle realtà di un mondo più moderno del suo, e al ritorno in Etiopia il suo primo patetico pensiero fu quello di fondare una scuola a proprie spese, capace di ospitare 180 bambini. Grazie ad essa la popolazione scolastica etiopica poteva così ascendere alla cifra di 291: «La necessità urgente per il nostro popolo — disse Tafari il giorno dell'inaugurazione — è l'istruzione, senza la quale noi non possiamo conservare l'indipendenza». Nessuno, per disgrazia, lo seguiva, per quel disprezzo-timore che le classi feudali privilegiate hanno sempre nutrito nei confronti dell'istruzione. Tafari se ne angustiava, confidandosi con qualche europeo: «E' già abbastanza brutto essere ignoranti, ma è atroce che alcuni fra i nostri debbano esserne fieri». Egli era il progressista del tempo, ed è abbastanza singolare che oggi sia caduto sotto l'accusa di retrivo e oscurantista. Fu allora il primo a battersi contro la schiavitù sulla quale poggiava l'intero sistema sociale del Paese, e se non meraviglia che i suoi ras gli fossero contrari, più desolante e più frustrante per Tafari doveva essere il fatto che gli stessi europei ne raccomandassero la conservazione. In questo senso infatti si pronunciava alla Camera dei Cornimi nel 1926 il sottosegretario agli Esteri dell'epoca. Il povero Tafari deve essersi domandato che cosa realmente volessero dall'Etiopia le nazioni civili. Ma egli era dotato di una grande pazienza, convinto ingenuamente che il tempo avrebbe lavorato a suo favore. Continuava a coltivare i rapporti con gli europei, probabilmente ritenendoli più degni di credito di quanto essi meritassero in quegli i anni di ancora aggressivo colonialismo. Proteggeva i mis- I sionari delle altre Chiese cri- stiane, così attirandosi la condanna dei copti intransigenti i quali lo accusavano di voler distruggere il Paese e di consegnare i sudditi timorosi di Dio alla tirannide di una Chiesa straniera. La denuncia corrente nell'alto clero copto era che egli avesse fatto lega con i gesuiti, che fosse da anni segretamente diventato un cattolico e che presto avrebbe obbligato gli onesti cristiani d'Etiopia a dichiarare la loro fedeltà a Roma, pena le torture dell'Inquisizione. Quando, alla morte dell'imperatrice Zaoditù, nel 1930, diventò finalmente Negusa Nagast salendo al trono di Davide, confermò l'obbedienza alla fede tradizionale del suo popolo, promise ai sudditi di vigilare su di loro per l'amore di Dio, ma aggiunse pure un'esortazione che non sarebbe stata disdicevole da parte di un capo di Stato europeo: «Mercante, commercia! Contadino, ara la terra! Io vi governerò secondo le leggi e i decreti che mi sono pervenuti, tramandatimi dai miei padri». Aggiunse ad essi una Costituzione che mutava la condizione del popolo da quella di beni mobili del re in quella dì sudditi dello Stato, prevedeva un Senato di nomina imperiale ed un Camera di deputati scelti dai dignitari e dai ras, in attesa del tempo «in cui il popolo avrà raggiunto un grado di esperienza e di cultura che gli permetta di fare egli stesso la scelta». Forse non c'era ancora niente di propriamente rivoluzionario, ma era certo un avvio verso una monarchia costituzionale, istituto che Haila Sellase considerava idoneo soprattutto a stroncare il potere feudale dei ras, i quali non erano benigni nei confronti del nuovo imperatore, esterofilo e modernista. Il suo dramma, comunque, si consumava proprio in Europa dove, affatto insensibili alle prove di buona volontà del 225° discendente della regina di Saba e del re Salomone, le cosiddette potenze cospiravano ai suoi danni. L'Inghilterra e l'Italia concordavano di attribuirsi ingerenze e influenze in Etiopia, con una spregiudicatezza che indusse l'imperatore a fare appello, ancora ingenuamente, alla n e a a r a — i é e I Società ginevrina delle NaI zioni. «Lungo tutta la loro sto! ria gli etiopici hanno inconI trato di rado stranieri che I non desiderassero possedej re una parte del territorio abissino e distruggere la loro indipendenza ». Lui che era il più illuminato degli etiopici era perciò costretto suo malgrado a una diffidenza xenofoba, e aggiungeva con un misto di orgoglio ed umiltà: «Non si deve dimenticare che noi siamo stati introdotti nella civiltà moderna soltanto di recente, e che la nostra storia, per quanto gloriosa, non ci ha preparati ad adattarci rapidamente a condizioni che molto sovente sono al di fuori della nostra esperienza. La natura stessa non ha mai proceduto per balzi improvvisi e nessun paese si è mai trasformato in una notte sola». Si può anche dire che non sempre l'Etiopia si attenne ad osservare con scrupolo le clausole dei suoi trattati internazionali: diversi impegni contenuti in quello con l'Italia del 1928 non furono difatti onorati (a proposito di ìina strada da costruire fra il porto di Assab e Dessie) ma questo è un punto da considerare sotto una luce speciale. Erano accordi del tipo che i cinesi definiscono trattati diseguali, e non c'è dubbio che la diffidenza di Haila Sellase avesse più di un motivo di giustificazione. Inutili sanzioni Non gli sfuggiva che nel concerto europeo le potenze fossero indotte da loro interessi, anche non africani, a fare un fronte comune anziché favorire l'autonomo sviluppo di un paese extracontinentale: gli inglesi blandivano allora l'Italia per fronteggiare la Germania, e poi la Francia di Lavai avrebbe dato a Mussolini mano libera. Ci fu la guerra di conquista, che non è il caso qui di rievocare nelle sue fasi, se non per quanto direttamente riguarda la persona ed il comportamento di Haila Sellase. Nonostante tutte le profferte e gli impegni, nonostante le stesse sanzioni, l'Europa non dette aiuto all'Etiopia. Perfino l'Inghilterra, a dispetto di Eden, aveva praticamente abbandonato alla sua sorte il povero imperatore: «Tenete indietro il Piccolino!» fu la consegna di Sir Robert Vansittart, sottosegretario permanente al Foreign Office. Lo stesso Eden annotava il 29 novembre 1935: «Confesso che mi sembra che gli abissini abbiano avuto da noi un trattamento decisamente duro per quanto riguarda le armi. Per molti mesi abbiamo mantenuto un embargo su di esse che non aveva nessuna giustificazione». Il povero imperatore si era invece fidato degli europei, di che lo rimproverava per primo il suo ministro della Guerra, il vecchio ras Mulughietà: «Imperiale Maestà, non impicciarti troppo di politica. La tua debolezza è che ti fidi troppo dello straniero: sbattilo fuori. Che cosa fanno qui tutti questi pazzi della stampa? Fa fare fagotto a tutti gli stranieri». Non sarebbe bastato, in ogni modo, perché l'esercito etiopico era inconsistente, armato di soli 200 cannoni e 3500 mitragliatrici, 15 aeroplani di cui otto in condizioni di volare e 3 capaci di combattere. Il carburante era suffiI dente per 8 mesi di volo e ogni cannone disponeva di 300 colpi. Diceva Haila Sellase: «I due peggiori difetti del mio popolo sono un'audacia piena di presunzione e un'arroganza superlativa». Di fronte alla superiore potenza del nemico, i due difetti furono duramente pagati, mentre l'imperatore riteneva sufficiente mobilitare a suo favore l'opinione pubblica del mondo. Corrispondenti di guerra accorsi sui luoghi del conflitto potevano bensì toccare il cuore dei loro lettori ma non determinare un cambio di orientamento dei governi: « Ci siamo resi conto — disse l'imperatore a uno di loro — che l'Etiopia è ora completamente sola, senza amici che la possano aiutare». Secondo il colonnello so¬ vietico Konavolov che fu l'ultimo dei consiglieri europei a restargli vicino, Haila Sellase «sembrava alla fine delle sue forze, il corpo e lo spirito scossi da un insieme di stanchezza e di orrore, di repulsione e di disperazione». Era circondato dal caos, e disse al colonnello: «Non so che cosa fare. I miei capi non vogliono far niente. La mia testa non funziona più». Ammise di aver perduto la speranza di salvarsi dagli italiani: «E' al di sopra delle nostre forze tenerli indietro». Così, alle 4,20 del mattino del 2 maggio 1936 salì ad Akakì su un treno speciale per Gibuti, nella Somalia francese, dove potè imbarcarsi sull'incrociatore inglese Enterprise, diretto ad Haifa in Palestina. Ancora sul trono Seguì la solita vicenda delle umiliazioni e mortificazioni di ogni esilio, fino al giorno che in Inghilterra si ritenne di poterlo strumentalizzare di nuovo, una volta sconfitta la resistenza degli italiani in Etiopia durante la seconda guerra mondiale. L'imperatore fu riportato prima in Sudan, poi ricondotto ad Addis Abeba, restaurato sul trono di Davide, esattamente cinque anni dopo che Badoglio alla testa dell'esercito italiano aveva fatto il suo ingresso nella capitale d'Etiopia: «Vraiment — disse quel giorno l'imperatore — j'ai été très émotionné». L'emozione, comunque, non gli fece perdere la saggezza politica. In fondo, per quanto è lecito giudicare dal suo comportamento negli ultimi trentanni, Haila Sellase aveva capito che gli italiani gli avevano semplicemente mosso guerra, ciò che nel codice ideologico etiopico non è un reato al cospetto di Dio. Dai tempi di Salomone e della regina di Saba ne sono state fatte tante. Verso gli italiani rimasti in Etiopia Haila Sellase ha quindi sempre mantenuto un atteggiamento di amichevole lealtà, che non dobbiamo dimenticare ed anzi ascrivere a suo onore. E' un personaggio, non dei peggiori, della storia italiana. Vittorio Gorresio Dessie, 1936. Accanto alle bombe inesplose, dopo un attacco aereo italiano (Foto Ap) Addis Abeba. Il Negus in una recente immagine: l'obolo ai poveri nelle campagne intorno alla capitale (Foto G. Neri)

Persone citate: Assab, Badoglio, Giacomo Matteotti, Matteotti, Mussolini, Negus, Robert Vansittart