D'Annunzio a due facce di Giuseppe Galasso

D'Annunzio a due facce SCRITTI "FIUMANI,, D'Annunzio a due facce Tra le forze e gli uomini che più contribuirono a deteriorare la vita morale e a turbare e a deviare lo spirito della vecchia Italia risorgimentale e liberale, il posto e il ruolo di D'Annunzio non saranno mai tenuti troppo in conto. Non che tutto meritasse di salvarsi, di quella vecchia Italia, o che tutto fosse ancora incorrotto allorché D'Annunzio cominciò ad avere una sua reale influenza nel Paese. Basterebbe pensare, per questo, alla non lieve evoluzione dello stesso Carducci, o al vigoreggiare della polemica antiparlamentare e al progressivo diffondersi del nazionalismo nei primi anni del secolo, o ancora al repentino e fortunato sviluppo del futurismo proprio negli anni che precedettero la « grande guerra » e in cui D'Annunzio il suo ruolo e il suo posto li aveva già largamente conquistali. E basterebbe pensare, d'altro canto, alla massiccia incrostazione routinière della prassi e dell'ideologia liberale negli ultimi decenni dell'Ottocento, alla stanchezza prodotta da tre o quattro decenni di materialismo sempre più stanchi, al disgusto per il conformismo estetico e morale di una società borghese in via di rapidissima trasformazione nelle nuove condizioni determinate dallo sviluppo della scienza e della tecnica e dal progressivo emergere ed affermarsi di nuovi ceti della stessa borghesia e di altre classi. I semi che D'Annunzio spargeva non erano, dunque, gettati al vento, ed egli stesso era, del resto, un prodotto tipico di quel tempo e di quella società. Il che non ne diminuisce per niente la statura di scrittore e di poeta, che rimane, per quanto se ne dica in contrario, fuori e al di sopra dell'ordinario, fra le pochissime veramente internazionali della nostra letteratura contemporanea, ben al di là di un Carducci o di un Pascoli, coi quali venne associato in una Trimurti la peggio assortita che fosse possibile e che solo una critica accademica e provinciale poteva escogitare e mantenere come stereotipo di un'epoca fin quasi alla metà di questo secolo. Certo è che lo spirito ancora prevalentemente carducciano (e cioè, tutto sommato, democratico e risorgimentale) delle generazioni formatesi fino al fatale agosto 1914 cedette a un chiaro predominio dannunziano all'indomani della guerra. E quando poi il « Comandante » si precipitò a Fiume a correre quella che egli stesso si proponeva di titolare « penultima ventura », le fortune del dannunzianesimo politico toccarono un vertice che non fu senza gravissime conseguenze sulle capacità di resistenza del regime democratico in Italia. In questo senso le parole che D'Annunzio pronunziò in uno dei suoi molti addii alla città giuliana, quello del 31 dicembre 1920, — « fra poco il nuovo anno incomincia; è già nostro; già ci appartiene; sarà il nostro anno mirabile » — erano tutt'altro che prive di fondamento. Nel 1921 IV eia, eia, eia, alala » e l'« a noi » fiumani sarebbero dilagati, con le squadre dei fasci, per tutto il Paese, e il seme gettato a Fiume avrebbe ampiamente concorso a preparare il successo mussoliniano del 1922, anche se D'Annunzio era ben lontano dall'immaginare, lasciando Fiume, che il beneficiario della situazione che egli aveva contribuito a determinare sarebbe stato il focoso tribuno romagnolo, le cui vie e le cui fortune alla fine del 1920 apparivano ancora assai incerte. Sarebbe stato, del resto, da meravigliarsi, se l'influenza dannunziana da Fiume non fosse stata cosi forte. Nella storia dell'Italia unita, tranne le due imprese garibaldine di Aspromonte e di Mentana — e, dunque, in più di mezzo secolo — non v'era stato esempio di movimento armato che tendesse a scavalcare e a subordinare a sé la politica estera del governo legittimo, sanzionata e ripetutamente approvata in Parlamento. Per di più, alla sedizione e all'azione violenta a Fiume parteciparono (e questo era ancor più nuovo e più grave) gruppi organici delle forze armate dello Stato. Infine, furono indubbiamente gli scritti e i discorsi fiumani di D'Annunzio a dare piena forma e a completare i temi della polemica antidemocratica e dello stile politico-letterario che sarebbe rimasto poi proprio del fascismo e per cui non si esagera nel dire che D'Annunzio contò più dello stesso Mussolini: la piccola borghesia rancorosa e presuntuosa dei «colletti bianchi», le « avanguardie » letterarie sempre pronte a sposare arditamente le cause più sbagliate e a farsene ragione di nuovi e più incredibili conformismi, i frenetici dell'azione, tutti coloro che si sentivano disoccupati e sciupati ora che il Paese voleva e doveva pensare alle noiose faccende del vivere quotidiano e civile in tempo di pace, e tutti coloro a cui non pareva vero di poter dare un facsimile di pensiero e di idealità alla loro insofferenza non solo di quanto di peggio, ma anche di quanto di meglio vi era nel costume politico liberaldemocratico affermatosi in Italia, ne furono letteralmente affascinati. Le parole dette e scritte da D'Annunzio a Fiume ebbero perciò un peso storico e politico rilevante, e l'idea di lui di farne una raccolta completa da inserire nella sua opera omnia era più che giustificata. Oltretutto, anche dal punto di vista letterario non si trattava delle cose sue meno pregevoli, e sotto questo aspetto meritano pure certamente di essere considerate e valutate. Renzo De Felice, che ha ora realizzato il proposito dannunziano della pubblicazione (D'Annunzio: La penultima ventura, ed. Mondadori), spiega anche i presumibili motivi per cui la pubblicazione non ebbe poi luogo, ed ha aggiunto — assai opportunamente — agli scritti del 1919-21 «alcuni testi di anni successivi all'impresa fiumana per completare il filo del discorso che D'Annunzio era venuto intessendo con i suoi legionarii e che continuò ancora per alcuni anni e per rendere più chiara la sostanziale diversità, specie col '20, del fiumanesimo rispetto al fascismo ». Con la sua impareggiabile competenza in materia, De Felice tocca qui un altro punto fondamentale per intendere la storia italiana di quegli anni: un punto, peraltro, assai paradossale. Nell'impresa fiumana come De Felice abbondantemente dimostra — D'Annunzio consumò gran parte del suo personale prestigio di uomo politico, ma il « fiumanesimo » ne uscì come « un aspetto minore ma tutt'altro che irrilevante della realtà politica italiana », e ciò fino al punto da essere addirittura « considerato da non trascurabili settori del movimento antifascista un punto di riferimento ancora valido ». Mentre, infatti, il corso delle cose convogliava nel fascismo e a beneficio di Mussolini tutta la sostanza antidemocratica del movimento e tutta la forza scardinatrice della retorica dannunziana, un'altra faccia dell'* avventura » continuava la sua più sommessa storia, la faccia « ragionevole », quella per cui essa acquistò « un significato "rivoluzionario" più ampio di quello che solitamente si crede », che avrebbe trovato nella « Carta del Carnaro » il suo testo canonico. Chi legge le pp. XXI-XXX dell'introduzione di De Felice è messo immediatamente in grado di rendersi conto di que sta natura duplice del « fiuma nesimo » con osservazioni e approfondimenti che sono fra i più penetranti che si possano leggere sull'argomento. E anche se De Felice dà forse a questa faccia « ragionevole » un peso piuttosto accentuato nei confronti dell'altra, bisogna riconoscere che solo nella distinzione e nel riconoscimento di tutti gli elementi costi tutivi di quella fase magmati ca della storia italiana post bellica si può trovare la chia ve per cui « tutte le tessere del mosaico trovano la loro giusta collocazione ». Giuseppe Galasso