Le dolcezze del dialetto

Le dolcezze del dialetto RISPONDENDO AD ALCUNI LETTORI Le dolcezze del dialetto Alcune mie considerazioni circa le « piccole patrie » mi hanno attirato missive vibranti; una lettrice ha chiesto su « Specchio dei tempi » se considero cittadini di second'ordine quanti parlano in dialetto. Cara signora, sapesse che lo struggimento di tutta la mia vita è stato di non saper parlare un dialetto! La mia totale mancanza di orecchio musicale mi ha impedito d'imparare a ballare, mi ha reso difficile la conquista delle lingue; ma questo è nulla: la vera mai sanata ferita è di non parlare un dialetto. Scuole elementari e ginnasio a Roma, le elementari con bambini del popolo; come vorrei imitarli, in quelle o ed e larghe e strascicate, ma soprattutto nella cadenza, nella tonalità un po' bassa. Inutile; basta tenti di dire sor paino perché mi scherniscano. Liceo e Università a Torino. Tutti parlano piemontese, anche Ruffini ed Einaudi. Mi dovrebbe riuscire facile, j I perché mia madre lo parla j con parenti e amiche d'in fanzia ritrovate, e l'ho senti- ; to dai primi anni, la nonna che all'imbrunire diceva sa 1 ra i bosc c visca 7 ciair; e ! nella mia sete di leggere a 1 sei, sette anni ho letto cen- to volte certi suoi libretti, le commediole Gìgin ca baia e Gigin ca baia nen. Ho presente tutto il lessico piemontese. Ma inutile; non passerò mai l'esame di saper pronunciare la violeta. Anni maturi: insegno a Bologna; amerei saper parlare quel dialetto corposo come la cucina emiliana, robusto, ma che ha anche dei diminutivi dolcissimi, che finiscono in ein. le due vocali più che strette; amerei, pur se abbia l'impressione che la sera i bolognesi debbano avere stanchi i muscoli della bocca per la fatica di certi vocaboli; ma mai riuscirei a dire « pastasciutta » e « quarantotto », come lo dicono i bolognesi, con una ardua contrazione. Avrei anche desiderato saper parlare come una cognata toscana, dire come lei la 'n mi va a fagiolo. Ma inutile tentare. Se mai, cara signora, non disprezzo, ma invidia, per chi possiede un dialetto. Però... a me la mancanza di un dialetto non ha mai impedito di stringere, soprattutto a Torino, nella prima giovinezza, le più care amicizie. Non so se per l'immigrato, di cui tanto giustamente ci si preoccupa, i dialetti non costituiscano una barriera. Non a questo però pensavo limitando l'importanza che debbono avere le « piccole patrie ». Bensì ricordare che il dialetto era da gran tempo la lingua familiare, della intimità. Quando un superiore cominciava a rivolgersi all'inferiore conterraneo nel comune dialetto, era come se gli desse del tu, 10 ammetteva nella cerchia più intima. Tutti i Savoia parlavano piemontese, ma il Sindaco di Torino non avrebbe mai pensato di dare in piemontese il benvenuto a Umberto I che giungeva nella città; anche se poi forse, fuori della cerimonia ufficiale, 11 re avrebbe preso l'iniziativa di parlargli in dialetto. Ora la sana famiglia, l'intimità, l'amicizia vera ignorano il diritto. Il diritto si connette alla filosofia della pratica, e famiglia ed intimità appartengono al mondo degli affetti; nella famiglia dove ci si vuol bene non si pensa neppure che esista un codice con il regolamento dei rapporti familiari. Per questo, allorché si vuole fondare sul dialetto la piccola patria con istituzioni giuridiche, mi sento offeso nella mia sensibilità di amante deluso, ma sempre innamorato. A. C. Jemolo

Persone citate: A. C. Jemolo, Einaudi, Inutile, Ruffini, Savoia, Umberto I

Luoghi citati: Bologna, Roma, Torino