Della campagna (e di altre cose)

Della campagna (e di altre cose) TACCUINO Della campagna (e di altre cose) La campagna — questa campagna che conosco da quando sono nato, dove da cinquantntre anni vengo ad ogni estate per brevi o lunghe vacanze — è tanto disertata dai contadini quanto affollata di villeggianti. Anche là dove era più povera di acque e di alberi e una volta c'erano solo delle casupole tra loro di-, stanti e qualche masseria diroccata, solitaria, silenziosa, ora è tutta un rombare di automobili, motociclette, motori idraulici, macchine per spettare, dissodare, trivellare. Terre che fino a qualche anno addietro si potevano comprare a qualche centinaio di migliaia di lire per ettaro, ora si vendono per non meno di dicci milioni. Medici, funzionari regionali, commercianti, comprano senza tirare sul prezzo e a volte, in concorrenza, alzandolo; vi costruiscono case comode e ben rifinite, cercano l'acqua e quasi sempre la trovano, piantano viti, alberi da frutto, palme, fiori. I luoghi sono talmente mutati, freschi e verdeggianti dove erano nudi e sferzati dal sole, che sembrano irridere al contadino che li ha lasciati per la Svizzera, la Germania, la Francia, e che ora, nelle ferie estive, torna a rivederli. « Vedi che è diventata, questa campagna », dice il contadino. Con un certo rimpianto, con un certo astio. Ma non se la prende poi tanto, che sa bene come stanno le cose. « Nella campagna », dice, «prima ci si buttava il lavoro c ora ci si buttano i soldi; e posso buttarcene anch'io, di soldi: comprarne un pezzo, pagare le macchine che trovano l'acqua e scatenano (lo scatenare è il dissodare in profondità: come se la terra, al di sotto dei venti centimetri che la zappa muoveva per la semina, fosse stata, compatta e dura, incatenata); ma in quanto a lavoro, non mi ci prende più ». I conti, infatti, non tornano: più ci si spende e meno se ne cava. Solo che nessuno vuol farli, i conti. Almeno finora. ★ ★ Uno dei pochissimi contadini rimasti, mio coetaneo, va ogni due settimane in paese: per sbarbarsi, che non ha mai saputo farlo da sé, e per com prare qualcosa. Ogni volta trova i prezzi più alti. E l'ultima volta che c'è andato non ha trovato né pasta né zucchero. « Siamo come durante la guerra », dice, « e guerra non c'è; figuriamoci se ci fosse ». Una lunga pausa. « L'Italia è rovinata. Se la sono mangiata ». Ancora una pausa. Poi domanda: « Quando uno è rovinato che fa? », ma sapendo la risposta. Infatti: «Quando uno è rovinato, comincia a vendere tutto quello che ha. Perché l'Italia non vende? ». Questa volta vuole risposta. Ma io domando: « Che cosa deve vendere? ». « Può cominciare col vendere un pezzo di Sicilia, magari mezza ». D'un gesto taglia la Sicilia da Palermo a Porto Empedocle: « Può cominciare col vendere questa mezza. Se non basta, può vendere l'altra mezza ». Mi vede sorpreso, stranito. « E perché non dovrebbe vendere la terra, se la gente se la è venduta tante volte, una generazione dopo l'altra? L'ha venduta all'America, l'ha venduta nelle guerre, la vende alla Germania: che ci fa, ormai, se vende anche la terra e non se ne parla più? La Germania è tanto ricca che un pezzo di Sicilia lo comprerebbe di certo, e forse tutta ». ★ ★ Una nuova formidabile ondata di conformismo sta per abbattersi sul nostro paese; meno fragorosa di quelle del 1925 (fascismo), del 1945 (antifascismo), del 1948 (anticomunismo, civiltà occidentale), ma tanto più grave nella misura in cui è spontanea, non mossa dalla preoccupazione del pane quotidiano. A parte le frange pazzoidi e folcloristiche, tra la gente di buon senso non si trova più uno disposto a dichiararsi anticomunista; e anzi quelle frange finiscono con l'apparire un'astuzia della Provvidenza, a far più risplendere il buon senso in generale e a render degne di riconoscimenti e di lodi le conversioni particolari. Ma che dico, non si trova più uno disposto a dichiararsi anticomunista? Non si trova più uno che non abbia simpatia per i comunisti, che non ab¬ bia in loro fiducia, che non speri vadano finalmente al governo e presto. « Se questo dente dobbiamo cavarcelo », mi confida un ex anticomunista, « è meglio farlo mentre c'è ancora la possibilità di avere l'anestesia ». ★ * Rileggo, dopo tanti anni, Armance. E' il libro di Stendhal che ho letto solo due volte (e la seconda dopo avei letto il saggio di Gide); gli altri li leggo in continua rotazione, e sempre facendo capo alla Certosa di Parma. Eppure è un bel libro, e molto stendhaliano. Forse me ne ha allontanato la costruzione: equilibrata e direi convenzionale, senza quelle imperfezioni e distrazioni, senza quel senso del non finito, che nelle altre cose di Stendhal immettono il lettore in un cerchio di confidenza, di giuoco: come se avendolo messo a parte di tutti i trucchi, di tutti i segreti, e volontariamente di tanto in tanto sbagliando, lo scrittore mantenesse col lettore un rapporto di sfida. Sfida a distogliersi da quel giuoco, a non restarne affascinato. E puntualmente perdendola, il lettore — come sempre quando si perde — vi ritorna. Dico il lettore per temperamento e formazione predisposto a Stendhal: che ce ne sono di quelli che appena vi si imbattono lo lasciano 11 e non vogliono più saperne: poveri — e molti — infelici; poiché Stendhal si rivolge « ai pochi felici ». Ma non è propriamente di Armance che voglio parlare, ma di quello che uno scrittore italiano dei nostri anni deve a Stendhal, di quanto questo scrittore sia stendhaliano. Si sa che Stendhal profetizzò l'avvento dei suoi veri lettori intorno al 1880 e intorno al 1935. Esattissima profezia: e non starò a ripetere la verifica dei modi e della portata in cui si è le due volte realizzata. Ora, nella seconda ondata generazionale, che rincalza e rinforza la prima, bisogna fare quello che nel gergo del cinema si dice uno « zoom » su Vitaliano Brancati. E l'occhio cade primamente sul Bell'Antonio, che tanto nel tema e nel sottotema somiglia ad Armance. 11 tema è quello dell'impotenza sessuale; il sottotema è quello di una particolare società, in un particolare momento storico. Come il titolo del libro di Stendhal è Armance ou quelques scènes d'un salon de Paris en 1827, quello del libro di Brancati potrebbe benissimo prolungarsi in ovvero qualche scena di un salotto catanese nel 1935: con tutta la differenza che può correre tra un salotto parigino e un salotto catanese, tra il salotto di una società e il salotto di una non-società (e il salotto catanese è poi il caffè, la piazza, la villa Bellini). Comunque, la monarchia di Carlo X, che doveva finire tre anni dopo, e il regime fascista, che sarebbe finito dopo circa dieci, fanno da sfondo e condizionano fino all'allegoria gli angosciosi casi dei due protagonisti: Ottavio de Malivert e Antonio Magnano. Certe annotazioni di Stendhal, negli interfogli di un esemplare di Armance, fanno vedere come le intenzioni andassero al di là della rappresentazione di un caso di impotenza: « Un giovane Montmorency nel 1828 è: 1" o gesuita, 2" o ufficiale della guardia abituato a cavalcare e intelligente come il suo cavallo, 3' o triste come Ottavio, poiché v'è contraddizione tra quel ch'egli stima e quel che prevede della sua vita futura... Impossibile che nel 1828 un giovane dica a se stesso: Ebbene, voglio decidermi: questi vantaggi sono ingiusti, ma poiché essi vengono a me senza che io li cerchi, voglio approfittarne. Né è possibile che dopo una simile conclusione egli trovi un istante di felicità ». L'impotenza di Ottavio e di Antonio è in effetti come una esemplazione fisiologica di una più profonda impotenza, di una « impossibilità ». Il vero loro segreto non è quello dell'impotenza sessuale (segreto di cui Stendhal si fa complice e che Brancati invece fa esplodere); è il segreto di una infelicità che possiamo riscontrare nelle pagine di Tacito: l'infelicità di vivere sotto un dispotismo più o meno blando, nella corruzione, nella cortigianeria. Che Brancati, scrivendo 11 bell'Antonio, avesse ben presente Armance, non c'è dubbio. Ne ha dato, anzi, più di un segnale: le epigrafi in testa a ogni capitolo, che non aveva messo negli altri romanzi (e una di Stendhal, tolta da una di quelle frequenti dichiarazioni diciamo cautelative del tipo: l'autore ha inventato, l'autore non è d'accordo, che non si sa se attribuire alla cautela appunto o al gusto della mistificazione); la descrizione della bellezza d'Antonio, al principio del libro, contrappuntata da quel che la gente pensa e sente di una tal malinconica bellezza; il modo di condurre il racconto, nei primi capitoli, quasi volesse, come Stendhal, mantenere il segreto sull'impotenza del protagonista... A momenti, si ha persino il senso di una intenzione parodistica: ma ciò viene dal fatto che le rispondenze tematiche e di struttura esterna rispetto ad Armance insorgono su uno stendhalismo di fondo, su una più profonda rispondenza. Brancati è, nella letteratura italiana, uno scrittore diverso. E direi che lo è in forza della sua frequentazione e assimilazione stendhaliana. Certo il Settecento, e il Settecento francese, è stato per lui molto importante: ma per come avvertitamente lo conosceva, Stendhal ne era il frutto che più gli conveniva. Quello che Gide in Stendhal dice « lo scrivere di colpo », come se la realtà venisse rimescolata occultamente e di colpo gettata sulla pagina con l'emozione dell'azzardo, credo sia la peculiarità di Brancati, la sua diversità. E appunto gli veniva da Stendhal, anche se lui credeva di amare Stendhal per quanto aveva di classico, di settecentesco, di voltairiano (« noi amiamo i romantici per quanto hanno di classico: per es. noi amiamo Leopardi per quanto ha dei greci, Byron e Stendhal per quanto hanno di Voltaire, Bellini per quanto ha di Mozart. L'800 è un gran secolo fin dove è alimentato dal gusto del 700: nel punto in cui quel gusto termina, cominciano le avvocature, il problemismo, l'arte per le masse, l'intimismo ecc. »). Leonardo Sciascia