Le confessioni di Andreotti

Le confessioni di Andreotti IL PASSATO E IL PRESENTE Le confessioni di Andreotti (Ricostruendo la tragedia del ministro del Papa nel 1848 egli giudica anche la crisi dell'Italia d'oggi) Non sorprende che Giulio Andreotti abbia dedicato alla vita c alla morte di Pellegrino Rossi il suo primo libro importante come storico pari time. Pellegrino Rossi, protagonista di Ore 13: il Ministro deve morire (editore Rizzoli), è un personaggio che occupa un posto marginale e discusso nell'Olimpo del Risorgimento; e Andreotti, pur lontanissimo da certa storiografia cattolica che rivaluta l'Antirisorgimento, sulla rivoluzione nazionale italiana ha opinioni assai lontane dalle tesi dominanti nella storiografia « patriottica », non senza riserve anche troppo aspre — a nostro giudizio — sulla parte dei « piemontesi »: con i quali appunto il Rossi venne ad aperto conflitto. E' un personaggio complesso d'intellettuale c uomo d'azione, teorico insigne di problemi costituzionali ma avido di milizia politica e fors'anche di potere, forte più d'orgoglio che d'ambizione. La sua vita si svolse fuori degl'itinerari consueti; la sua morte, pugnalato da estremisti nel cuore antico di Roma, fu tragica ed oscura: l'uomo che Cavour aveva definito « la mente forse più pratica d'Europa » venne assassinato come Cesare, e non lontano dal luogo dove Cesare cadde. Dopo aver insegnato a Bologna ed a Ginevra, aver occupato una cattedra alla Sorbona e un seggio tra i Pari di Francia, Pellegrino Rossi finì la sua carriera a Roma, come ambasciatore di Luigi Filippo e poi come ministro di Pio IX, negli anni tormentati fra il papato reazionario di Gregorio XVI e le brevi illusioni del papato liberale. Un periodo e un ambiente che interessano Andreotti per molte ragioni: come storico, come cattolico e come romano. Il suo giudizio sulla Curia è disincantato, aspre le sue valutazioni della politica pontificia, senza indulgenze l'analisi della sua città. Ma ben s'avverte che quel mondo ecclesiastico e quella città, pur con tante ombre, hanno un fascino per Andreotti; e che l'autore ricostruisce le vicende romane del suo personaggio quasi come un itinerario sentimentale: gli sono familiari i palazzi e le botteghe, la Corte e le strade, i prelati ed i popolani che fanno da comparse o da sfondo alla tragedia del « Ministro che doveva morire ». Questa ricerca del tempo perduto non ha, tuttavia, un valore determinante nell'interesse di Andreotti per Pellegrino Rossi. Egli ne ammira soprattutto, con esatto giudizio, il culto della Ragione, il « gran senso dello Stato », l'intransigente attaccamento alla libertà, il merito d'essere stato « pioniere d'una nuova concezione dell'uomo europeo ». Rossi è il meno nazionalista dei patrioti italiani; l'Europa — o, meglio, la civiltà liberale europea — era la sua patria. Dalla monarchia di Luigi Filippo, oasi costituzionale nel mondo della Santa Alleanza, accettò la cittadinanza francese; vi rinunciò per farsi cittadino, e ministro, del Papa quando s'illuse di poter condurre a istituzioni moderne e liberali l'arcaico e dispotico Stato della Chiesa: « Anche i governi più paterni — scriveva — sono per la natura delle cose stupidi ed iniqui se siano assoluti ». Quantunque Andreotti non lo dichiari, sembra tuttavia che un altro elemento lo abbia indotto ad occuparsi di Pellegrino Rossi: da tanti segni si direbbe ch'egli veda nella Roma del 1848 un'anticipazione dell'Italia d'oggi, e scorga nella tragedia politica ed umana del suo personaggio tanti motivi della nostra inquietudine e della nostra crisi. Merita leggere il libro in questa chiave: i riferimenti sono discreti, suggeriti con sottigliezza disincantata, ma abbastanza trasparenti; e al di là dello scetticismo s'avverte quasi una rabbia per le inguaribili irrazionalità della politica, ora come cent'anni fa. ★ ★ Pellegrino Rossi fu nominato capo del governo, a mezzadria (per sua disgrazia) con i cardinali-ministri, il 15 settembre 1848; morì esattamente due mesi dopo, mentre entrava in Parlamento per esporre il suo programma, dimostrando la tragica esattezza del pronostico di Luigi Carlo Farini: « I mediocri verranno messi in ombra dalla saggezza di Rossi, gli indisciplinati temeranno la sua severità, gli sbrigliati guarderanno con so¬ spetto chi può frenarli: di qui il suo ostracismo ». Furono i congiurati a ucciderlo; ma la condanna politica era sottoscritta da più mani: sostenuto senza convinzione da Pio IX, sgradito come laico ai prelati, come moderato agli estremisti e come liberale schietto ai conservatori, aveva il torto irreparabile di voler rompere con abusi, inerzie e privilegi per mettere ordine nello Stato. Un programma riformista equivaleva, nella Roma papalina, alla rivoluzione. Nel discorso che la morte gl'impedì di leggere ai parlamentari, proponeva la riforma fiscale: carico proporzionale ai redditi, fine delle esenzioni per religiosi ed aristocratici, caccia agli evasori. Chiedeva la riforma dell'esercito, tagliando gli stipendi agli ufficiali fuori servizio e concentrando le spese sugli armamenti; la riforma della polizia, evitando duplicazioni di compiti con i carabinieri ed esigendo dalle forze dell'ordine l'imparzialità politica. Prometteva guerra al sottogoverno, per stroncare la pratica delle nomine clientelari, degli appalti assegnati come ricompensa ai fedeli, dei lavori pubblici amministrati come merce di scambio. Voleva imporre una politica estera misurata sui mezzi dello Stato. Era un programma che offendeva interessi e passioni di un composito schieramento dai cardinali nostalgici di Gregorio XVI ai demagoghi, e tale da suscitargli contro una congiura degli opposti estremismi, com'egli stesso aveva previsto sulla Gazzetta di Roma: « Due parliti concordemente attendono a rovesciare le forme del governo costituzionale: l'uno sperando di richiamare un passato di cui è impossibile un ritorno, l'altro mirante a precipitare nella dissoluzione e nell'anarchia la società intera, agitando le passioni e l'inesperienza d'una parte del popolo ». E poiché lo Stato era debole, né le vecchie abitudini consentivano di perseguire con lo stesso rigore uomini di mano e mandanti, all'opposizione costituzionale s'aggiungeva una diffusa e pressoché impunita attività terroristica; le iniziative della polizia non bastavano a stroncarla, le segnalazioni dei servizi segreti erano così poco attendibili che Pellegrino Rossi preferiva « non calcolare le chiacchiere degli stolti ». D'una congiura contro l'odiato ministro si parlò molto in Roma, ma nessuno seppe prevenirla, e neppure predisporre un efficace servizio d'ordine. Gli esecutori appartenevano all'estrema sinistra popolana: Ciceruacchio ne era il capo, Luciano Bonaparte principe di Canino il possibile ispiratore. Tuttavia trovò larga credibilità « l'ipotesi d'un disegno reazionario — come scrive Andreotti — che avesse fatto leva sul prodursi di irreparabili tensioni all'apertura delle Camere, tali da giustificare una ferrea ripresa de! potere da parte della Curia e del Papa. Ciceruacchio sarebbe stato l'ignaro provocatore d'una strategia » che oggi definiremmo della tensione. Così alle ore 13 del 15 novembre 1848 Pellegrino Rossi venne ucciso con una pugnalar;: mentre, disceso dalla carrozza, s'avviava verso l'aula parlamentare; la scotta non intervenne, i congiurati fuggirono, e Roma ufficiale dimostrò un'infinita prudenza nel lutto per il ministro assassinato. Se l'inchiesta sollevò un gran polverone senza giungere a conclusioni sicure, e si smarrì a lungo su piste fantastiche (venne sospettato come complice persino un docente di medicina legale, che a lezione aveva spiegato la tecnica dell'omicidio con il pugnale), la polizia pontificia non manca di qualche attenuante: la motte del Rossi fu seguita dalla fuga del Papa, dalla pio clamazione della Repubblica e dall'intervento francese. Ma, restaurato Pio IX, la giustizia della Sagra Consulta non dimostrò né fretta né zelo: per istruire il processo agli assassini del ministro impiegò sei anni, tanti quanti separano la strage nella Banca dell'Agricoltura dal probabile processo Valprcda-Ventura a Catanzaro: e sul banco degl'imputati apparvero soltanto gli esecutori. Il principe Bonaparte, pudicamente definito negli atti di polizia « il noto ricco signore », non fu neppure interrogato sui suoi rapporti con il turbolento estremismo roma¬ no; « farlo apparire apertamente correo del più vile assassinio — concluse la magistratura su istruzioni superiori — avrebbe potuto urtare la suscettibilità della Corte francese ». Su possibili complici del partito cardinalizio non furono nemmeno aperte le indagini; nessuno si chiese a chi giovasse quella « grande congiura », la cui responsabilità venne interamente addossata ad una dozzina di artigiani, negozianti e mezzi intellettuali romani. Le prove — morto l'esecutore del delitto, latitanti i più diretti responsabili — erano fragili; i giudici le rinforzarono dimostrando cieca fiducia nei delatori, incoraggiati dalla promessa della impunità, ed accettando documenti più utili che credibili. Due condanne a morte e qualche ergastolo soddisfecero i giudici ed i' governo: la sentenza appariva abbastanza severa da scoraggiare gli inquieti, non troppo crudele per la diffusa convinzione che i prigionieri non sarebbero rimasti molti anni in carcere, e saggia perché seppelliva la tragedia senza perdersi nella ricerca imbarazzante « di troppi presumibili rei, impuniti o addirittura innominati ». Così andavano certe indagini politiche nella Roma papalina ai tempi di Pio IX. Sulle indagini d'oggi, in questo libro, il ministro Andreotti non dà alcun giudizio. Carlo Casale?»no Le confessioni di Andreotti IL PASSATO E IL PRESENTE Le confessioni di Andreotti (Ricostruendo la tragedia del ministro del Papa nel 1848 egli giudica anche la crisi dell'Italia d'oggi) Non sorprende che Giulio Andreotti abbia dedicato alla vita c alla morte di Pellegrino Rossi il suo primo libro importante come storico pari time. Pellegrino Rossi, protagonista di Ore 13: il Ministro deve morire (editore Rizzoli), è un personaggio che occupa un posto marginale e discusso nell'Olimpo del Risorgimento; e Andreotti, pur lontanissimo da certa storiografia cattolica che rivaluta l'Antirisorgimento, sulla rivoluzione nazionale italiana ha opinioni assai lontane dalle tesi dominanti nella storiografia « patriottica », non senza riserve anche troppo aspre — a nostro giudizio — sulla parte dei « piemontesi »: con i quali appunto il Rossi venne ad aperto conflitto. E' un personaggio complesso d'intellettuale c uomo d'azione, teorico insigne di problemi costituzionali ma avido di milizia politica e fors'anche di potere, forte più d'orgoglio che d'ambizione. La sua vita si svolse fuori degl'itinerari consueti; la sua morte, pugnalato da estremisti nel cuore antico di Roma, fu tragica ed oscura: l'uomo che Cavour aveva definito « la mente forse più pratica d'Europa » venne assassinato come Cesare, e non lontano dal luogo dove Cesare cadde. Dopo aver insegnato a Bologna ed a Ginevra, aver occupato una cattedra alla Sorbona e un seggio tra i Pari di Francia, Pellegrino Rossi finì la sua carriera a Roma, come ambasciatore di Luigi Filippo e poi come ministro di Pio IX, negli anni tormentati fra il papato reazionario di Gregorio XVI e le brevi illusioni del papato liberale. Un periodo e un ambiente che interessano Andreotti per molte ragioni: come storico, come cattolico e come romano. Il suo giudizio sulla Curia è disincantato, aspre le sue valutazioni della politica pontificia, senza indulgenze l'analisi della sua città. Ma ben s'avverte che quel mondo ecclesiastico e quella città, pur con tante ombre, hanno un fascino per Andreotti; e che l'autore ricostruisce le vicende romane del suo personaggio quasi come un itinerario sentimentale: gli sono familiari i palazzi e le botteghe, la Corte e le strade, i prelati ed i popolani che fanno da comparse o da sfondo alla tragedia del « Ministro che doveva morire ». Questa ricerca del tempo perduto non ha, tuttavia, un valore determinante nell'interesse di Andreotti per Pellegrino Rossi. Egli ne ammira soprattutto, con esatto giudizio, il culto della Ragione, il « gran senso dello Stato », l'intransigente attaccamento alla libertà, il merito d'essere stato « pioniere d'una nuova concezione dell'uomo europeo ». Rossi è il meno nazionalista dei patrioti italiani; l'Europa — o, meglio, la civiltà liberale europea — era la sua patria. Dalla monarchia di Luigi Filippo, oasi costituzionale nel mondo della Santa Alleanza, accettò la cittadinanza francese; vi rinunciò per farsi cittadino, e ministro, del Papa quando s'illuse di poter condurre a istituzioni moderne e liberali l'arcaico e dispotico Stato della Chiesa: « Anche i governi più paterni — scriveva — sono per la natura delle cose stupidi ed iniqui se siano assoluti ». Quantunque Andreotti non lo dichiari, sembra tuttavia che un altro elemento lo abbia indotto ad occuparsi di Pellegrino Rossi: da tanti segni si direbbe ch'egli veda nella Roma del 1848 un'anticipazione dell'Italia d'oggi, e scorga nella tragedia politica ed umana del suo personaggio tanti motivi della nostra inquietudine e della nostra crisi. Merita leggere il libro in questa chiave: i riferimenti sono discreti, suggeriti con sottigliezza disincantata, ma abbastanza trasparenti; e al di là dello scetticismo s'avverte quasi una rabbia per le inguaribili irrazionalità della politica, ora come cent'anni fa. ★ ★ Pellegrino Rossi fu nominato capo del governo, a mezzadria (per sua disgrazia) con i cardinali-ministri, il 15 settembre 1848; morì esattamente due mesi dopo, mentre entrava in Parlamento per esporre il suo programma, dimostrando la tragica esattezza del pronostico di Luigi Carlo Farini: « I mediocri verranno messi in ombra dalla saggezza di Rossi, gli indisciplinati temeranno la sua severità, gli sbrigliati guarderanno con so¬ spetto chi può frenarli: di qui il suo ostracismo ». Furono i congiurati a ucciderlo; ma la condanna politica era sottoscritta da più mani: sostenuto senza convinzione da Pio IX, sgradito come laico ai prelati, come moderato agli estremisti e come liberale schietto ai conservatori, aveva il torto irreparabile di voler rompere con abusi, inerzie e privilegi per mettere ordine nello Stato. Un programma riformista equivaleva, nella Roma papalina, alla rivoluzione. Nel discorso che la morte gl'impedì di leggere ai parlamentari, proponeva la riforma fiscale: carico proporzionale ai redditi, fine delle esenzioni per religiosi ed aristocratici, caccia agli evasori. Chiedeva la riforma dell'esercito, tagliando gli stipendi agli ufficiali fuori servizio e concentrando le spese sugli armamenti; la riforma della polizia, evitando duplicazioni di compiti con i carabinieri ed esigendo dalle forze dell'ordine l'imparzialità politica. Prometteva guerra al sottogoverno, per stroncare la pratica delle nomine clientelari, degli appalti assegnati come ricompensa ai fedeli, dei lavori pubblici amministrati come merce di scambio. Voleva imporre una politica estera misurata sui mezzi dello Stato. Era un programma che offendeva interessi e passioni di un composito schieramento dai cardinali nostalgici di Gregorio XVI ai demagoghi, e tale da suscitargli contro una congiura degli opposti estremismi, com'egli stesso aveva previsto sulla Gazzetta di Roma: « Due parliti concordemente attendono a rovesciare le forme del governo costituzionale: l'uno sperando di richiamare un passato di cui è impossibile un ritorno, l'altro mirante a precipitare nella dissoluzione e nell'anarchia la società intera, agitando le passioni e l'inesperienza d'una parte del popolo ». E poiché lo Stato era debole, né le vecchie abitudini consentivano di perseguire con lo stesso rigore uomini di mano e mandanti, all'opposizione costituzionale s'aggiungeva una diffusa e pressoché impunita attività terroristica; le iniziative della polizia non bastavano a stroncarla, le segnalazioni dei servizi segreti erano così poco attendibili che Pellegrino Rossi preferiva « non calcolare le chiacchiere degli stolti ». D'una congiura contro l'odiato ministro si parlò molto in Roma, ma nessuno seppe prevenirla, e neppure predisporre un efficace servizio d'ordine. Gli esecutori appartenevano all'estrema sinistra popolana: Ciceruacchio ne era il capo, Luciano Bonaparte principe di Canino il possibile ispiratore. Tuttavia trovò larga credibilità « l'ipotesi d'un disegno reazionario — come scrive Andreotti — che avesse fatto leva sul prodursi di irreparabili tensioni all'apertura delle Camere, tali da giustificare una ferrea ripresa de! potere da parte della Curia e del Papa. Ciceruacchio sarebbe stato l'ignaro provocatore d'una strategia » che oggi definiremmo della tensione. Così alle ore 13 del 15 novembre 1848 Pellegrino Rossi venne ucciso con una pugnalar;: mentre, disceso dalla carrozza, s'avviava verso l'aula parlamentare; la scotta non intervenne, i congiurati fuggirono, e Roma ufficiale dimostrò un'infinita prudenza nel lutto per il ministro assassinato. Se l'inchiesta sollevò un gran polverone senza giungere a conclusioni sicure, e si smarrì a lungo su piste fantastiche (venne sospettato come complice persino un docente di medicina legale, che a lezione aveva spiegato la tecnica dell'omicidio con il pugnale), la polizia pontificia non manca di qualche attenuante: la motte del Rossi fu seguita dalla fuga del Papa, dalla pio clamazione della Repubblica e dall'intervento francese. Ma, restaurato Pio IX, la giustizia della Sagra Consulta non dimostrò né fretta né zelo: per istruire il processo agli assassini del ministro impiegò sei anni, tanti quanti separano la strage nella Banca dell'Agricoltura dal probabile processo Valprcda-Ventura a Catanzaro: e sul banco degl'imputati apparvero soltanto gli esecutori. Il principe Bonaparte, pudicamente definito negli atti di polizia « il noto ricco signore », non fu neppure interrogato sui suoi rapporti con il turbolento estremismo roma¬ no; « farlo apparire apertamente correo del più vile assassinio — concluse la magistratura su istruzioni superiori — avrebbe potuto urtare la suscettibilità della Corte francese ». Su possibili complici del partito cardinalizio non furono nemmeno aperte le indagini; nessuno si chiese a chi giovasse quella « grande congiura », la cui responsabilità venne interamente addossata ad una dozzina di artigiani, negozianti e mezzi intellettuali romani. Le prove — morto l'esecutore del delitto, latitanti i più diretti responsabili — erano fragili; i giudici le rinforzarono dimostrando cieca fiducia nei delatori, incoraggiati dalla promessa della impunità, ed accettando documenti più utili che credibili. Due condanne a morte e qualche ergastolo soddisfecero i giudici ed i' governo: la sentenza appariva abbastanza severa da scoraggiare gli inquieti, non troppo crudele per la diffusa convinzione che i prigionieri non sarebbero rimasti molti anni in carcere, e saggia perché seppelliva la tragedia senza perdersi nella ricerca imbarazzante « di troppi presumibili rei, impuniti o addirittura innominati ». Così andavano certe indagini politiche nella Roma papalina ai tempi di Pio IX. Sulle indagini d'oggi, in questo libro, il ministro Andreotti non dà alcun giudizio. Carlo Casale?»no