Giuseppe Canepa socialista ligure

Giuseppe Canepa socialista ligure TACCUINO DELLA MEMORIA Giuseppe Canepa socialista ligure A Genova e in Liguria strade, viali, piazze portano il suo nome. Non l'ha dunque dimenticato la gente della sua terra e del suo mare, senz'attendere l'occasione fortuita e labile delle commemorazioni ufficiali, degli anniversari celebrati, generalmente, in tono minore, quasi per dovere d'ufficio. Perché i grandi, gli uomini autorevoli, in certa misura forse i suoi stessi collaboratori e compagni, possono anche restar indifferenti dinanzi al suo esempio e al suo nome. Ma non i suoi contadini marinai e operai liguri, soprattutto se radicati, o quanto più radicati, simultaneamente, al mare e alla terra: che veggono in lui tuttavia uno di loro, quasi un vecchio capitano in pensione, che si è acquistato, con duro lavoro, un appezzamento, una « costa », e la dirige e lavora, o ne governa la conduzione con orgoglio con tenacia e con parsimonia. Così lo rivedo al suo « Chioso » di Diano Marina, alto, bianco, solido, precocemente incanutito e precocemente sordo, sì da parer quasi vecchio quand'era ancor nella prima o piena maturità, un poco pingue e pesante, aperto e cordiale nel suo linguaggio italo-ligure, nel suo elegante italiano punteggiato, né solo nella pronunzia, di dialettismi. Ha lasciato un'organizzazione, ha lasciato una famiglia fedele, ha lasciato un giornale (sebbene quantum mtitatus ab ilio. Né la citazione virgiliana sarebbe dispiaciuta a lui, lettore e cultore appassionatissi ino sempre dei nostri classi ci...). Eppure, mi sembra, a un tempo, vicino e lontano, forse più lontano che vicino O vicino a captare e a cogliere le voci dell'avvenire. ★ ★ « Tendo l'orecchio »... Era un'espressione a lui consueta, che faceva un po' ridere, e molto divertire, la nostra innocente crudeltà di ragazzi, ben consapevoli e della sua sordità e dei tiri birboni che sovente gli procurava. Come quella sera al caffè di Badgastein, che, fra il suo poco intendere e il suo poco tedesco (suppliva, e gli faceva da interprete, la figliola, mentre linguisticamente l'aiutava parecchio anche la moglie, francese), capì Manilla per vantila, immaginò qualcosa di esotico e prelibato (amava la buona tavola e la buona cucina...), e rimase poi male, per la nostra medesima, e pur veniale. Schadenjreude, a vedersi dinanzi un comunissimo gelatino di crema. Eppure, con verità poteva dire di sé: « Tendo l'orecchio », perché sentiva come pochi, nel suo stesso partito, il domani. Tipicamente socialista, in quanto figlio di buona borghesia, laureato in legge (ma, nonostante il titolo, cui teneva, o che gli si dava, di avvocato, non credo abbia esercitato mai l'avvocatura, e certo non ci aveva né interesse né passione — se non, forse, per la tutela degl'interessi dei diseredati e dei deboli), uomo di ricca e raffinata, quantunque databile e datata, cultura, era, come la sua gente, intensamente ligure e intensamente europeo, nazionale e internazionale (od internazionalista): soprattutto era un uomo positivo, concreto, punto perciò retore o demagogo. Socialista fu sempre, perché solo nei ranghi del partito socialista poteva inquadrarsi, organizzarsi la sua gente marinara (donde l'attività sua di concerto con Giulietti, Calda e Pietro Chiesa) c perché a Genova, nella Sala Sivori, s'era pur costituito, con la scissione dagli anarchici nel 1891, il partito socialista. 11 quale, d'altronde, a lui ligure pareva dover accogliere, continuare, sublimare l'eredità di due liguri, gli spiriti magni della sua terra, i simboli della nazionalità e dell'internazionalismo italiani, Garibaldi e Mazzini. Non s'era, il Generale, negli anni suoi ultimi, consolato e riscaldato al «sole dell'avvenire»? Non aveva, il Mazzini, all'indomani della Commune parigina, pur da lui così fieramente avversata, riconosciuto c acclamato nella follìa medesima di quel cruento episodio «il salire inevitabile, provvidenzia¬ le degli uomini del Lavoro »? Canepa fu, quindi, non pur, costantemente, « riformista », ma di origini non marxiste; vide nel suo socialismo un fatto risorgimentale, di cultura, di umanità, di religione, assai prima e assai più che di partito politico, di organizzazione sindacale o sociale. Vide, appunto, il salire, l'inserirsi delle masse operaie neUa compagine dello Stato unitario: senza preoccuparsi dei pregiudizi e delle pregiudiziali, repubblicane od antiparlamentari che fossero. Il problema era di fare, di fare presto, magari precedendo il partito lungo una via non ancora battuta e ancora, soprattutto, incompresa. ★ ★ La stessa crisi « libica », di cui fu coronamento il congresso di Reggio Emilia e l'espulsione dal partito socialista, pubblico accusatore antimonarchico il giovane leader dell'estrema sinistra Benito Mussolini, rappresentò per Canepa e gli altri « riformisti » espulsi, Bissolati e Bonomi c Cabrini, tutti uomini che provenivano dall'« organizzazione » e dallo studio della politica estera (non solo diplomazia e relazioni internazionali, ma problemi del lavoro e dell'emigrazione, intercambio di mano d'opera, ecc.), l'occasione assai più che la causa della rottura: il momento, cioè, in cui ci si doveva decidere, scegliere o la via del socialismo parlamentare, con tutte le conseguenze ch'esso comportava, o la via, pericolosissima, dell'« involuzione rivoluzionaria » — a tutto e solo vantaggio del nazionalismo dittatoriale, dei suoi foraggiatoti capitalistici e militari. Su questo punto, abbia o non abbia veduto giusto, Canepa, comunque, non mutò mai. Venticinqu'anni più tardi, a necrologio di Angiolo Cabrini, ricordava sul suo giornale che la strada non seguita in Italia era pur quella che aveva condotto all'instaurazione di governi « socialisti » nei Paesi più evoluti e di regimi veracemente democratici nell'Europa occidentale e scandinava. (Scriveva così, non senza un accenno larvato che al suo quotidiano lettore in Palazzo Venezia sarebbe riuscito chiarissimo, un mese avanti l'assassinio di Carlo e Nello Rosselli, in pieno front populaìre di Leon Blum, né senza un implicito confronto fra le monarchie «socialiste» di Gran Bretagna, dei Paesi Bassi c dei Paesi nordici e la monarchia « imperiale » di Vittorio Emanuele). ★ ★ Non era, tuttavia, un dottrinario; e fu perciò tra i pochissimi (senza neppure i tentennamenti « etiopici » d'un Labriola) che, fallito il « bissolatismo » a Versailles, rientrasse disciplinato nella vecchia casa, per combattervi, da deputato « aventiniano » e dalle colonne del Lavoro, la battaglia ultima per l'Italia, la libertà e la cultura: per attestare, contro la soffocazione e l'obliterazione totalitarie, i valori della libertà e della cultura. Non dottrinarismo, dunque, ma fede, ottimismo mazziniano, coraggiosa mobilitazione di tutte le energie dcWintelligentsia antifascista, per la rivendicazione del passato, per la preparazione dell'avvenire. Interventista e combattente della prima guerra mondiale, volle che i lettori del Lavoro trovassero, fra il 1934 e il 1935, la conferma della sua scelta nel libro, oggi tanto svalutato, soprattutto a sinistra e all'estrema sinistra, di Adolfo Omodeo. Classicista, volle associare il suo quotidiano alle celebrazioni oraziane, ma con un mio articolo chiaramente anti-bimillenario. E mi rispedì a strettissimo giro di posta, con qualche rimprovero, che forse non meritavo, ma che mi fu caro, e mi è tuttavia, un articolo sul Psichari di Henri Massis, in quanto non permetteva si parlasse d'uno scrittore cattolico-nazionalista, elogiatore del nipote neo-convertito di Ernesto Renan. Com'era immutato al termine della prima guerra mondiale, l'interventista e partecipazionista Giuseppe Canepa, così era immutato, nella sua verde vecchiezza, all'indomani della seconda. Più che mai persuaso dall'insegnamento medesimo degli eventi di essere ancor sempre sulla via buona. Perciò, discutendosi alla Costituente il trattato, o dettato, di pace, disse nel luglio 1947 di non comprender neppure come si potesse esitare a sottoscrivere, comunque duro e ingiusto, un trattato che apriva alla nuova Italia le porte dell'Onu, che la restituiva alla comunità internazionale, al servizio e all'intercambio dell'Internazionale. Sentiva, dunque, come il sordo Beethoven, entro di sé, nel suo interiore silenzio, le voci del divenire e dell'avvenire. Ascoltava. «.Tendo l'orecchio »... E così noi, mentre tanto poco di lui scritto, parlato e narrato in verità sopravvive e ci assiste, basta che si tenda l'orecchio all'eco dei ricordi e alle nostalgie del passato, per ritrovarcelo diritto c sicuro davanti, guida e compagno verso il domani. Piero Treves Giuseppe Canepa socialista ligure TACCUINO DELLA MEMORIA Giuseppe Canepa socialista ligure A Genova e in Liguria strade, viali, piazze portano il suo nome. Non l'ha dunque dimenticato la gente della sua terra e del suo mare, senz'attendere l'occasione fortuita e labile delle commemorazioni ufficiali, degli anniversari celebrati, generalmente, in tono minore, quasi per dovere d'ufficio. Perché i grandi, gli uomini autorevoli, in certa misura forse i suoi stessi collaboratori e compagni, possono anche restar indifferenti dinanzi al suo esempio e al suo nome. Ma non i suoi contadini marinai e operai liguri, soprattutto se radicati, o quanto più radicati, simultaneamente, al mare e alla terra: che veggono in lui tuttavia uno di loro, quasi un vecchio capitano in pensione, che si è acquistato, con duro lavoro, un appezzamento, una « costa », e la dirige e lavora, o ne governa la conduzione con orgoglio con tenacia e con parsimonia. Così lo rivedo al suo « Chioso » di Diano Marina, alto, bianco, solido, precocemente incanutito e precocemente sordo, sì da parer quasi vecchio quand'era ancor nella prima o piena maturità, un poco pingue e pesante, aperto e cordiale nel suo linguaggio italo-ligure, nel suo elegante italiano punteggiato, né solo nella pronunzia, di dialettismi. Ha lasciato un'organizzazione, ha lasciato una famiglia fedele, ha lasciato un giornale (sebbene quantum mtitatus ab ilio. Né la citazione virgiliana sarebbe dispiaciuta a lui, lettore e cultore appassionatissi ino sempre dei nostri classi ci...). Eppure, mi sembra, a un tempo, vicino e lontano, forse più lontano che vicino O vicino a captare e a cogliere le voci dell'avvenire. ★ ★ « Tendo l'orecchio »... Era un'espressione a lui consueta, che faceva un po' ridere, e molto divertire, la nostra innocente crudeltà di ragazzi, ben consapevoli e della sua sordità e dei tiri birboni che sovente gli procurava. Come quella sera al caffè di Badgastein, che, fra il suo poco intendere e il suo poco tedesco (suppliva, e gli faceva da interprete, la figliola, mentre linguisticamente l'aiutava parecchio anche la moglie, francese), capì Manilla per vantila, immaginò qualcosa di esotico e prelibato (amava la buona tavola e la buona cucina...), e rimase poi male, per la nostra medesima, e pur veniale. Schadenjreude, a vedersi dinanzi un comunissimo gelatino di crema. Eppure, con verità poteva dire di sé: « Tendo l'orecchio », perché sentiva come pochi, nel suo stesso partito, il domani. Tipicamente socialista, in quanto figlio di buona borghesia, laureato in legge (ma, nonostante il titolo, cui teneva, o che gli si dava, di avvocato, non credo abbia esercitato mai l'avvocatura, e certo non ci aveva né interesse né passione — se non, forse, per la tutela degl'interessi dei diseredati e dei deboli), uomo di ricca e raffinata, quantunque databile e datata, cultura, era, come la sua gente, intensamente ligure e intensamente europeo, nazionale e internazionale (od internazionalista): soprattutto era un uomo positivo, concreto, punto perciò retore o demagogo. Socialista fu sempre, perché solo nei ranghi del partito socialista poteva inquadrarsi, organizzarsi la sua gente marinara (donde l'attività sua di concerto con Giulietti, Calda e Pietro Chiesa) c perché a Genova, nella Sala Sivori, s'era pur costituito, con la scissione dagli anarchici nel 1891, il partito socialista. 11 quale, d'altronde, a lui ligure pareva dover accogliere, continuare, sublimare l'eredità di due liguri, gli spiriti magni della sua terra, i simboli della nazionalità e dell'internazionalismo italiani, Garibaldi e Mazzini. Non s'era, il Generale, negli anni suoi ultimi, consolato e riscaldato al «sole dell'avvenire»? Non aveva, il Mazzini, all'indomani della Commune parigina, pur da lui così fieramente avversata, riconosciuto c acclamato nella follìa medesima di quel cruento episodio «il salire inevitabile, provvidenzia¬ le degli uomini del Lavoro »? Canepa fu, quindi, non pur, costantemente, « riformista », ma di origini non marxiste; vide nel suo socialismo un fatto risorgimentale, di cultura, di umanità, di religione, assai prima e assai più che di partito politico, di organizzazione sindacale o sociale. Vide, appunto, il salire, l'inserirsi delle masse operaie neUa compagine dello Stato unitario: senza preoccuparsi dei pregiudizi e delle pregiudiziali, repubblicane od antiparlamentari che fossero. Il problema era di fare, di fare presto, magari precedendo il partito lungo una via non ancora battuta e ancora, soprattutto, incompresa. ★ ★ La stessa crisi « libica », di cui fu coronamento il congresso di Reggio Emilia e l'espulsione dal partito socialista, pubblico accusatore antimonarchico il giovane leader dell'estrema sinistra Benito Mussolini, rappresentò per Canepa e gli altri « riformisti » espulsi, Bissolati e Bonomi c Cabrini, tutti uomini che provenivano dall'« organizzazione » e dallo studio della politica estera (non solo diplomazia e relazioni internazionali, ma problemi del lavoro e dell'emigrazione, intercambio di mano d'opera, ecc.), l'occasione assai più che la causa della rottura: il momento, cioè, in cui ci si doveva decidere, scegliere o la via del socialismo parlamentare, con tutte le conseguenze ch'esso comportava, o la via, pericolosissima, dell'« involuzione rivoluzionaria » — a tutto e solo vantaggio del nazionalismo dittatoriale, dei suoi foraggiatoti capitalistici e militari. Su questo punto, abbia o non abbia veduto giusto, Canepa, comunque, non mutò mai. Venticinqu'anni più tardi, a necrologio di Angiolo Cabrini, ricordava sul suo giornale che la strada non seguita in Italia era pur quella che aveva condotto all'instaurazione di governi « socialisti » nei Paesi più evoluti e di regimi veracemente democratici nell'Europa occidentale e scandinava. (Scriveva così, non senza un accenno larvato che al suo quotidiano lettore in Palazzo Venezia sarebbe riuscito chiarissimo, un mese avanti l'assassinio di Carlo e Nello Rosselli, in pieno front populaìre di Leon Blum, né senza un implicito confronto fra le monarchie «socialiste» di Gran Bretagna, dei Paesi Bassi c dei Paesi nordici e la monarchia « imperiale » di Vittorio Emanuele). ★ ★ Non era, tuttavia, un dottrinario; e fu perciò tra i pochissimi (senza neppure i tentennamenti « etiopici » d'un Labriola) che, fallito il « bissolatismo » a Versailles, rientrasse disciplinato nella vecchia casa, per combattervi, da deputato « aventiniano » e dalle colonne del Lavoro, la battaglia ultima per l'Italia, la libertà e la cultura: per attestare, contro la soffocazione e l'obliterazione totalitarie, i valori della libertà e della cultura. Non dottrinarismo, dunque, ma fede, ottimismo mazziniano, coraggiosa mobilitazione di tutte le energie dcWintelligentsia antifascista, per la rivendicazione del passato, per la preparazione dell'avvenire. Interventista e combattente della prima guerra mondiale, volle che i lettori del Lavoro trovassero, fra il 1934 e il 1935, la conferma della sua scelta nel libro, oggi tanto svalutato, soprattutto a sinistra e all'estrema sinistra, di Adolfo Omodeo. Classicista, volle associare il suo quotidiano alle celebrazioni oraziane, ma con un mio articolo chiaramente anti-bimillenario. E mi rispedì a strettissimo giro di posta, con qualche rimprovero, che forse non meritavo, ma che mi fu caro, e mi è tuttavia, un articolo sul Psichari di Henri Massis, in quanto non permetteva si parlasse d'uno scrittore cattolico-nazionalista, elogiatore del nipote neo-convertito di Ernesto Renan. Com'era immutato al termine della prima guerra mondiale, l'interventista e partecipazionista Giuseppe Canepa, così era immutato, nella sua verde vecchiezza, all'indomani della seconda. Più che mai persuaso dall'insegnamento medesimo degli eventi di essere ancor sempre sulla via buona. Perciò, discutendosi alla Costituente il trattato, o dettato, di pace, disse nel luglio 1947 di non comprender neppure come si potesse esitare a sottoscrivere, comunque duro e ingiusto, un trattato che apriva alla nuova Italia le porte dell'Onu, che la restituiva alla comunità internazionale, al servizio e all'intercambio dell'Internazionale. Sentiva, dunque, come il sordo Beethoven, entro di sé, nel suo interiore silenzio, le voci del divenire e dell'avvenire. Ascoltava. «.Tendo l'orecchio »... E così noi, mentre tanto poco di lui scritto, parlato e narrato in verità sopravvive e ci assiste, basta che si tenda l'orecchio all'eco dei ricordi e alle nostalgie del passato, per ritrovarcelo diritto c sicuro davanti, guida e compagno verso il domani. Piero Treves