L'antica arte di arrangiarsi

L'antica arte di arrangiarsi IL PITTORE DI PESCI L'antica arte di arrangiarsi Magro, vestito di scuro, sta appoggiato al muretto del ponticello che a Napoli unisce la via Partenope con i ristoranti che si affacciano sul mare intorno al Castel dell'Ovo; e quando mi vede passare, fa un gesto col capo come se mi riconosce o per salutarmi. Dalla cassetta che ha accanto capisco che è un venditore ambulante di souvenirs. Un quarto d'ora dopo lo rivedo nel ristorante dove sto mangiando. Gira tra i tavoli offrendo la sua merce: monili di corallo, ninnoli fatti con conchiglie varie e di diverso colore, scatolette intarsiate con scaglie di madreperla e che contengono un carillon. Più lo guardo e più mi convinco che non è una faccia nuova per me. Ma forse è solo un inganno della memoria: per i suoi zigomi alti, per le guance profondamente incavate, per lo sguardo triste e pensieroso, insistente è la sua rassomiglianza con Eduardo De Filippo; e probabilmente questo è il motivo che mi fa pensare di averlo incontrato da qualche parte. Ma all'improvviso scatta dentro di me un nome, Raffaele Ruotolo. Già, proprio così: conobbi Raffaele Ruotolo trenta anni fa, e aveva inventato un mestiere ingegnoso, molto redditizio, in una città piena di militari americani, inglesi, australiani e di altre nazioni. Tutta l'attrezzatura di Raffaele Ruotolo consisteva in un triciclo, una macchina fotografica col treppiede e un vasto assortimento di divise tedesche, compresi elmetti, gradi e decorazioni. Lo accompagnava un giovane biondo, con i capelli tagliati corti. Allora, al tempo dell'occupazione alleata, di lui mi ero interessato come giornalista. Guadagnava anche più di un milione il mese fotografando soldati alleati nell'atto di uccidere o di maltrattare un militare tedesco. Naturalmente si trattava solo di una finzione. La parte del tedesco era recitata dal giovane biondo e con i capelli corti. In una Napoli maciullata dai bombardamenti, specie nella zona portuale, io scenario di guerra era già bell'e pronto. Allora non esisteva la Polaroid, e Raffaele sviluppava e stampava le fotografie al vecchio modo, in un quarto d'ora. Lavorava anche di notte con lampi di magnesio, c'erano giorni in cui riusciva a guadagnare trenta, quarantamila lire, e la sua casa era sempre piena di stecche di sigarette e di cioccolata, barattoli di carne, caffè, burro, flaconi di vitamine. Ma come mai adesso Raffaele si era ridotto così male, con le scarpe scalcagnate e la cravatta lisa? Che fine avevano fatto i milioni accumulati con le fotografie? * * Intanto Raffaele Ruotolo continuava ad accostarsi timidamente ai tavoli e a mostrare la sua merce. Però gli andava male; tutti lo respingevano con gesti annoiati, senza nemmeno guardarlo. Quando arrivò al mio tavolo, dove leggere nei miei occhi qualcosa della curiosità e del compatimento che sentivo per lui, e senza esitare mi pose davanti un cofanetto intarsiato, l'aprì e ne uscirono le note di « O sole mio ». Con un sorriso di cortesia dissi che l'oggetto non mi interessava; e fu un'imprudenza perché se uno si mette a parlare vuol dire che concede al venditore la possibilità di rispondere, di attaccare un discorso. Io continuavo a scuotere il capo, dicevo poche parole di rifiuto, ma l'altro incalzava sempre con nuovi argomenti. A un certo punto lo interruppi domandandogli se non si chiamasse Raffaele Ruotolo. Lui rimase sorpreso, il suo sguardo svagò assorto e dopo una lunga pausa mi domandò: «Ma voi come fate a saperlo? ». Gli accennai alla sua precedente attività di fotografo, al nostro incontro di trenta anni fa, e lui, emergendo a poco a poco da quel tempo così remoto, suscitò tra noi due molti ricordi, anche se non tutti coincidevano esattamente con i miei. Di tanto in tanto sospirava: «A me mi ha rovinato la pace ». Poi tornò alla carica: « Siccome siete un amico mio, que¬ sto finissimo lavoro artistico a voi lo dò per solo 15 mila lire. Non pagate nemmeno la mano d'opera ». Ripresi a scuotere il capo: « No, Raffaele, non saprei proprio che farne, a chi regalarlo ». « E allora tenetevelo come mio regalo personale. Non mi date niente ». C'era tanto pallore nelle sue guance infossate, tanta tristezza nel suo sguardo, tanta povertà nel colletto e nei polsini sfilacciati, che pensai di tirarmi fuori dall'incresciosa situazione offrendogli duemila lire, a patto che lui si tenesse la scatola. All'istante Raffaele Ruotolo si raddrizzò in tutta la persona guardandomi con severità: «Questa umiliazione non me la dovete fare. Io non vado chiedendo l'elemosina. Guardate, per la vecchia amicizia vi pigliate il carillon e mi date appena diecimila lire ». Ormai anche io mi ero irrigidito. Dissi: «Raffaele, eccovi settemila lire e non ne parliamo più ». Detto, fatto. * * Alla tavola accanto erano seduti due milanesi, e la loro attenzione era stata attratta dal brillio del cofanetto e dalla fitta conversazione. Ora Raffaele appariva tutto diverso, ringalluzzito, e parlava sciolto, disinvolto, vantava le bellezze dell'oggetto, l'accurata rifinitu ra artigianale, la grande richiesta che arrivava da tutti continenti, specialmente da Hong Kong. E cominciò la contrattazione. Raffaele partì subito da trentamila lire. Quan do i milanesi gli offrirono la metà, Raffaele mostrò l'intenzione di prendere la merce e di andarsene. Intanto diceva « Questo significa voler prendere per fame la povera gente ». Qppure: « Si vede che non apprezzate un'opera d'arte ». O anche: «Trentamila o niente, neppure una lire di meno. Che credete, di essere in Africa? ». I due milanesi si interrogavano perplessi, infine fecero una nuova offerta: ventimila lire. Raffaele, tutto aggrondato nel volto, disse che ci rimetteva, di malavoglia prese i due biglietti di 10 mila lire e andò via senza nemmeno salutare. Io ero sinceramente scandalizzato, sembrandomi una truffa belle buona, e da me tollerata. Se con le mie settemila lire Raffaele aveva trovato sicuramente il suo guadagno, con quale faccia tosta, con quale furbo intuito della personalità delle vittime era riuscito a strappare 20 mila lire ai due milanesi, e per di più lasciandogli un senso di colpa? Chiamai un vecchio cameriere per pagare il conto, e incidentalmente gli domandai se conoscesse da molto tempo Raffaele Ruotolo. «Chi? Avete detto Raffaele Ruotolo? Mai sentito nominare ». « Ma come, è quello uscito proprio adesso, il venditore di souvenirs ». « Vi sbagliate, signore. Quello è Gennarino Locaselo, siamo nati e cresciuti nello stesso rione. Sì, Locaselo Gennaro, prima aveva la vista buona e faceva il pittore ». Ero allibito: in modo particolare per la prontezza e la versatilità con cui, sotto i miei stessi occhi e con la mia ingenua partecipazione, il venditore aveva improvvisato la sua rete e mi aveva irretito. Non volevo però che il cameriere si accorgesse di quel mio stato d'animo e con simulata disinvoltura ripresi il discorso: «Ah, dunque, prima Gennarino faceva il pittore. Quadri a olio, immagino ». « No, signore, pittore di pesci ». « Capisco, nature morte ». « No, signore, Gennarino con un pennello metteva una tinta di rosso sulle branchie delle triglie non più fresche, e così le faceva apparire appena pescate, di scoglio ». « E ci sono ancora a Napoli i pittori di pesci? ». « Certamente, veri artisti, però ora lavorano solo pesci congelati ». Quando tornai all'albergo, d'un tratto mi accorsi di avere dimenticato la scatola col carillon al ristorante. Non stetti a rammaricarmene. Anzi mi sorpresi a sorridere; ma solo a fior di labbra, appena un momento Dentro di me intanto andava insinuandosi l'amaro e lo sconforto di una frase abituale tra i napoletani: «Che bisogna fa' a questo mondo per campa». N'.cola Adolfi L'antica arte di arrangiarsi IL PITTORE DI PESCI L'antica arte di arrangiarsi Magro, vestito di scuro, sta appoggiato al muretto del ponticello che a Napoli unisce la via Partenope con i ristoranti che si affacciano sul mare intorno al Castel dell'Ovo; e quando mi vede passare, fa un gesto col capo come se mi riconosce o per salutarmi. Dalla cassetta che ha accanto capisco che è un venditore ambulante di souvenirs. Un quarto d'ora dopo lo rivedo nel ristorante dove sto mangiando. Gira tra i tavoli offrendo la sua merce: monili di corallo, ninnoli fatti con conchiglie varie e di diverso colore, scatolette intarsiate con scaglie di madreperla e che contengono un carillon. Più lo guardo e più mi convinco che non è una faccia nuova per me. Ma forse è solo un inganno della memoria: per i suoi zigomi alti, per le guance profondamente incavate, per lo sguardo triste e pensieroso, insistente è la sua rassomiglianza con Eduardo De Filippo; e probabilmente questo è il motivo che mi fa pensare di averlo incontrato da qualche parte. Ma all'improvviso scatta dentro di me un nome, Raffaele Ruotolo. Già, proprio così: conobbi Raffaele Ruotolo trenta anni fa, e aveva inventato un mestiere ingegnoso, molto redditizio, in una città piena di militari americani, inglesi, australiani e di altre nazioni. Tutta l'attrezzatura di Raffaele Ruotolo consisteva in un triciclo, una macchina fotografica col treppiede e un vasto assortimento di divise tedesche, compresi elmetti, gradi e decorazioni. Lo accompagnava un giovane biondo, con i capelli tagliati corti. Allora, al tempo dell'occupazione alleata, di lui mi ero interessato come giornalista. Guadagnava anche più di un milione il mese fotografando soldati alleati nell'atto di uccidere o di maltrattare un militare tedesco. Naturalmente si trattava solo di una finzione. La parte del tedesco era recitata dal giovane biondo e con i capelli corti. In una Napoli maciullata dai bombardamenti, specie nella zona portuale, io scenario di guerra era già bell'e pronto. Allora non esisteva la Polaroid, e Raffaele sviluppava e stampava le fotografie al vecchio modo, in un quarto d'ora. Lavorava anche di notte con lampi di magnesio, c'erano giorni in cui riusciva a guadagnare trenta, quarantamila lire, e la sua casa era sempre piena di stecche di sigarette e di cioccolata, barattoli di carne, caffè, burro, flaconi di vitamine. Ma come mai adesso Raffaele si era ridotto così male, con le scarpe scalcagnate e la cravatta lisa? Che fine avevano fatto i milioni accumulati con le fotografie? * * Intanto Raffaele Ruotolo continuava ad accostarsi timidamente ai tavoli e a mostrare la sua merce. Però gli andava male; tutti lo respingevano con gesti annoiati, senza nemmeno guardarlo. Quando arrivò al mio tavolo, dove leggere nei miei occhi qualcosa della curiosità e del compatimento che sentivo per lui, e senza esitare mi pose davanti un cofanetto intarsiato, l'aprì e ne uscirono le note di « O sole mio ». Con un sorriso di cortesia dissi che l'oggetto non mi interessava; e fu un'imprudenza perché se uno si mette a parlare vuol dire che concede al venditore la possibilità di rispondere, di attaccare un discorso. Io continuavo a scuotere il capo, dicevo poche parole di rifiuto, ma l'altro incalzava sempre con nuovi argomenti. A un certo punto lo interruppi domandandogli se non si chiamasse Raffaele Ruotolo. Lui rimase sorpreso, il suo sguardo svagò assorto e dopo una lunga pausa mi domandò: «Ma voi come fate a saperlo? ». Gli accennai alla sua precedente attività di fotografo, al nostro incontro di trenta anni fa, e lui, emergendo a poco a poco da quel tempo così remoto, suscitò tra noi due molti ricordi, anche se non tutti coincidevano esattamente con i miei. Di tanto in tanto sospirava: «A me mi ha rovinato la pace ». Poi tornò alla carica: « Siccome siete un amico mio, que¬ sto finissimo lavoro artistico a voi lo dò per solo 15 mila lire. Non pagate nemmeno la mano d'opera ». Ripresi a scuotere il capo: « No, Raffaele, non saprei proprio che farne, a chi regalarlo ». « E allora tenetevelo come mio regalo personale. Non mi date niente ». C'era tanto pallore nelle sue guance infossate, tanta tristezza nel suo sguardo, tanta povertà nel colletto e nei polsini sfilacciati, che pensai di tirarmi fuori dall'incresciosa situazione offrendogli duemila lire, a patto che lui si tenesse la scatola. All'istante Raffaele Ruotolo si raddrizzò in tutta la persona guardandomi con severità: «Questa umiliazione non me la dovete fare. Io non vado chiedendo l'elemosina. Guardate, per la vecchia amicizia vi pigliate il carillon e mi date appena diecimila lire ». Ormai anche io mi ero irrigidito. Dissi: «Raffaele, eccovi settemila lire e non ne parliamo più ». Detto, fatto. * * Alla tavola accanto erano seduti due milanesi, e la loro attenzione era stata attratta dal brillio del cofanetto e dalla fitta conversazione. Ora Raffaele appariva tutto diverso, ringalluzzito, e parlava sciolto, disinvolto, vantava le bellezze dell'oggetto, l'accurata rifinitu ra artigianale, la grande richiesta che arrivava da tutti continenti, specialmente da Hong Kong. E cominciò la contrattazione. Raffaele partì subito da trentamila lire. Quan do i milanesi gli offrirono la metà, Raffaele mostrò l'intenzione di prendere la merce e di andarsene. Intanto diceva « Questo significa voler prendere per fame la povera gente ». Qppure: « Si vede che non apprezzate un'opera d'arte ». O anche: «Trentamila o niente, neppure una lire di meno. Che credete, di essere in Africa? ». I due milanesi si interrogavano perplessi, infine fecero una nuova offerta: ventimila lire. Raffaele, tutto aggrondato nel volto, disse che ci rimetteva, di malavoglia prese i due biglietti di 10 mila lire e andò via senza nemmeno salutare. Io ero sinceramente scandalizzato, sembrandomi una truffa belle buona, e da me tollerata. Se con le mie settemila lire Raffaele aveva trovato sicuramente il suo guadagno, con quale faccia tosta, con quale furbo intuito della personalità delle vittime era riuscito a strappare 20 mila lire ai due milanesi, e per di più lasciandogli un senso di colpa? Chiamai un vecchio cameriere per pagare il conto, e incidentalmente gli domandai se conoscesse da molto tempo Raffaele Ruotolo. «Chi? Avete detto Raffaele Ruotolo? Mai sentito nominare ». « Ma come, è quello uscito proprio adesso, il venditore di souvenirs ». « Vi sbagliate, signore. Quello è Gennarino Locaselo, siamo nati e cresciuti nello stesso rione. Sì, Locaselo Gennaro, prima aveva la vista buona e faceva il pittore ». Ero allibito: in modo particolare per la prontezza e la versatilità con cui, sotto i miei stessi occhi e con la mia ingenua partecipazione, il venditore aveva improvvisato la sua rete e mi aveva irretito. Non volevo però che il cameriere si accorgesse di quel mio stato d'animo e con simulata disinvoltura ripresi il discorso: «Ah, dunque, prima Gennarino faceva il pittore. Quadri a olio, immagino ». « No, signore, pittore di pesci ». « Capisco, nature morte ». « No, signore, Gennarino con un pennello metteva una tinta di rosso sulle branchie delle triglie non più fresche, e così le faceva apparire appena pescate, di scoglio ». « E ci sono ancora a Napoli i pittori di pesci? ». « Certamente, veri artisti, però ora lavorano solo pesci congelati ». Quando tornai all'albergo, d'un tratto mi accorsi di avere dimenticato la scatola col carillon al ristorante. Non stetti a rammaricarmene. Anzi mi sorpresi a sorridere; ma solo a fior di labbra, appena un momento Dentro di me intanto andava insinuandosi l'amaro e lo sconforto di una frase abituale tra i napoletani: «Che bisogna fa' a questo mondo per campa». N'.cola Adolfi

Luoghi citati: Africa, Hong Kong, Napoli