I buoni affari con l'Urss di Paolo Garimberti

I buoni affari con l'Urss UOMINI CHE HANNO ROTTO IL GELO DELL'ISOLAMENTO ECONOMICO I buoni affari con l'Urss In Russia, oggi, c'è spazio per tutti, a condizione di avere intraprendenza e conoscenza del mercato; ma l'esordio dei "pionieri", vent'anni fa, fu diffìcile - L'esperienza di Savoretti - Una camera al "Natsional" come ufficio di rappresentanza per i manager stranieri - Il miracolo della fabbrica di Togliattigrad che ha favorito un nuovo tipo di rapporti con le imprese straniere: oggi sono undici le ditte italiane rappresentate a Mosca (Dal nostro corrispondente) Mosca, agosto. «Quando vi arrivai la prima volta, nell'aprile del 1954 — dice Piero Savoretti — Mosca mi mise addosso una terribile tristezza. La gente era vestita alla meglio, si riparava dal freddo di un inverno interminabile con corti cappotti trapuntati, grigioverdi, residui del tempo di guerra. Le vetrine erano rare e, quelle poche, vuote. Ricordo che nella via Gorkij i negozi di alimentari esponevano polli di cartone. Ma, dopo i primi contatti, ebbi la sensazione di un paese teso, fervente di programmi di sviluppo. Ero stato mandato a Mosca da una società inglese, la Lambton. Quando tornai in Italia, andai a trovare i dirigenti di varie ditte, dicendo a tutti: la c'è un mercato di immense possibilità». Vent'anni fa, non esisteva m linea aerea diretta MilanoMosca. Si arrivava nella capitale sovietica, a bordo dei vecchi «Iljushin 14», facendo tappa a Zurigo, Praga, Vilnjus, in Lituania, e Minsk, in Bielorussia. Un viaggio che oggi si può fare comodamente in automobile. Mosca aveva allora un solo aeroporto (oggi ne ha quattro), a Vnukovo, e l'aero stazione era una baracca di legno con la vernice scrostata dai geli invernali, riscaldata da gualche stufa. Dall'aeroporto alla città c'erano venti chilometri di strada in aperta campagna: Mosca cominciava un paio di chilometri prima del giardino dell'Accademia delle Scienze, quello che oggi — nella megalopoli di quasi otto milioni d'abitanti, dove si costruisce al ritmo frenetico di duecento appartamenti al giorno — viene considerato pieno centro. Un estraneo Piero Savoretti —- oggi cinquantaduenne, «manager» della Novasider — fu uno dei primi, non soltanto in Italia, ma nel mondo, a credere che il «pianeta Russia» — come s'usava chiamarlo allora — devastato dalla guerra e macerato dagli stenti di un tremendo dopoguerra, sarebbe potuto diventare il nuovo eldorado degli uomini d'affari occidentali. Nel 1956, quando s'installò stabilmente a Mosca per «fare affari», l'Unione Sovietica cominciava ad uscire dall'isolamento internazionale, sia politico che economico, e stava sbarazzandosi all'interno di quella cappa di sospetti e di paure, che viene comunemente definita «il terrore staliniano». A Savoretti assegnarono una stanza ai- I Mosca. Una scena consueta durante l'estate: venditrici di bibite e gelati con i loro banchetti nelle vie della capitale russa l'Albergo Natsional, ufficio e residenza al tempo stesso («ricordo ancora il numero, il 301», dice) e lo trattarono con estrema diffidenza: «Quando tentavo di telefonare a qualcuno — racconta — non riuscivo mai a sapere se quel tale c'era o non c'era, talvolta non capivo neppure se certi fantomatici interlocutori esistevano davvero o erano soltanto una finzione. Lo straniero, allora, era considerato un estraneo, a volte anche peggio, e m'impedivano in tutti i modi di avvicinare i russi». Il cerchio di gelo s'allentò molto lentamente, solo all'inizio degli Anni Sessanta. Savoretti si sposò a Mosca, con una bionda impiegata dell'Inturist, Nina Ivanovna, i contatti con i russi non vennero più ostacolati, arrivarono i primi grossi affari, fino al più importante, storico addirittura, tra la Fiat e il governo sovietico per la costruzione della fabbrica automobilistica di Togliatti, che egli propiziò e seguì fino alla conclusione. Oggi, su Piero Savoretti esiste una mitologia, nella quale, come in tutte le mitologie, è difficile distinguere la favola dalla realtà. E' sta¬ to scritto di lui che entra nell'ufficio di Breznev senza bussare ed è certamente un'esagerazione, che però dà la misura del livello dei suoi contatti con il mondo politico ed economico sovietico, dimostrato anche dal fatto che egli è stato il primo uomo d'affari occidentale al quale il ministero del Commercio Estero ha consentito di aprire una sede fuori da un albergo, in una villetta a due piani nel Triochprudny Pereolok, a due passi dagli Stani Patrarshie, dove Buigakov ambientò l'inizio di «Il maestro e Margherita». Vecchio ricordo Nella casa di Savoretti, con i camerieri discreti e perfetti, o nei nuovi uffici della Novasider, la stanza numero 301 della Natsional diventa un ricordo romantico, e così le traumatiche esperienze dei primi contatti con la classe dirigente sovietica, attanagliata da paure e complessi nei confronti dello straniero. «Ho visto nascere — dice Savoretti — l'attuale classe dirigente tecno - economica. E' .gente che ha sempre avuto un forte contenuto ideale, completa- mente votata al suo lavoro, quasi fosse una missione. Questo spirito è rimasto intatto oggi. La selezione dei quadri venuti su in questi anni è stata molto severa. Ogni giorno, ci troviamo di fronte a dirigenti sempre più giovani, sempre più preparati e sempre più manageriali, all'occidentale, intendo, nei modi. L'età media del dirigente di "Eantora", d'ufficio, continua ad abbassarsi e la preparazione professionale e culturale ad alzarsi». La vicenda di Savoretti, al di là del fascino pionieristico che può contenere è un paradigma applicabile alle esperienze di tutti gli uomini d'affari italiani a Mosca (le ditte italiane con rappresentanza sono oggi undici), quale ne sia la provenienza professionale o anche politico ideologica: dagli ex studenti dell'università di Mosca, venuti qui attratti da un credo che alcuni hanno rigettato e altri no — come Lelli della Sirce, Pepitoni della Restital, e tutti quei ragazzi che furono la spina dorsale della Novasider di Savoretti — ai funzionari arrivati a Mosca già «adulti» professionalmente a scoprire un mondo che talvolta li obbliga a rivedere gli schemi manageriali acquisiti in Italia, come Billotta dell'Eni, Cottone della Fiat, Cagliani della Banca Commerciale, ultimo arrivato, cui è stato assegnato un ufficio con vista sul teatro Bolshoj per una singolare, non certo voluta, analogia (a Milano, gli uffici della «Commerciale» s'affacciano sulla Scala). La stanza in albergo, per anni, con un fornello nel gabinetto per cuocere un piatto di spaghetti quasi di nascosto dalla direzione, le comunicazioni difficili ed esasperanti con l'Italia, prima di ottenere i telex, i primi, duri contatti con gli «apparateiki» sovietici, conquistati poi con cortesie e attenzioni, le interminabili sedute di lavoro, scandite da brindisi con vodka a cinquanta gradi o cognac armeno, nelle quali non si sa se conta più l'abilità professionale o la resistenza del fegato: la trafila è stata uguale per tutti. Stanza buia Con Mario Billotta, dell'Eni, c'incontrammo la prima volta quattro anni fa, in una stanza dell'albergo Ukraina, arredata con mobili di betulla massicci e sfiancati, così buia da apparire sinistra. Billotta tirò fuori da un armadio, che fungeva da schedario, un pacco di caffè italiano e ne preparò due tazze su un fornelletto. Il sapore del caffè che mi offre oggi è lo stesso d'allora. Ma lo gustiamo in un ufficio luminoso, seduti in poltrone firmate da «designers» italiani, al piano terra d'un palazzo della Sadovo-Samotechnaja, davanti al teatro delle marionette di Obrazov. L'Eni ha ora una sede di rappresen¬ tanza di sei stanze, arredate da architetti italiani, più una sala per le conferenze dove vengono proiettati film-documentari sull'attività della società per gli ospiti sovietici. «La nostra condizione — osserva Billotta — è mutata nella stessa misura in cui sono cambiati i nostri interlocutori sovietici. Essi cercano d'imitare, in tutto e per tutto, il "manager" occidentale. Le nuove organizzazioni di import-export, che continuano a sorgere, sono strutturate secondo modelli occidentali. I posti di responsabilità vengono affidati quasi esclusivamente a gente che è stata all'estero, ha assimilato perfettamente il nostro approccio ai problemi e agli uomini. Hanno cominciato all'inizio degli Anni Sessanta a mandare gente all'estero e ora la prima generazione di questi nuovi "managers" sovietici è tornata in patria e ha preso le leve del potere, anche se la decisione finale su un affare non è mai individuale, ma sempre collegiale e questa resta la maggiore differenza tra noi e loro. Ma una volta era impossibile telefonare ad un'organizzazione qualsiasi e dire: voglio parlare con il tal dei tali. Rispondevano invariabilmente: richiameremo noi. Oggi, questa fobia del contatto improvvisato con lo straniero è passata». Dalle esperienze degli uomini d'affari italiani a Mosca, dalle loro considerazioni si delinea il quadro di una Russia che cambia, almeno nei rapporti con l'estero, anche se resta immutabile sul piano interno, delle libertà politiche e intellettuali cioè. E' lo stesso quadro che si potrebbe comporre con un paziente «collage» della cronaca politica sovietica di questi ultimi anni, analizzando le personalità emergenti e le tendenze di quella che è stata definita la «Westpolitik» di Breznev. Anche in politica si affermano i tecnocrati, gli esperti settoriali, un tipo d'approccio verso gli interlocutori e uno stile di conduzione che sembrano mutuati, con qualche inevitabile correttivo, dall'Occidente. Lo stesso Breznev sì è circondato progressivamente di un «gabinetto personale», un gruppo di teste d'uovo — come Zagladin, Aleksandrov Agentov, Blatov, Rusakov —, perfettamente poliglotte, abituate al contatto con gli stranieri, di solida cultura generale e politica, che nulla hanno in comune con il tradizionale «apparateik» russo. La garanzia D'altra parte, è normale che l'evoluzione di modi e di uomini vada di pari passo in politica ed in economia, visto che la seconda condiziona la prima o ne è comunque la forza trainante. Non è forse di Breznev la formula che la creazione di un sistema d'interdipendenza economica tra Est e Ovest costituirà, negli anni a venire, la garanzia dell'irreversibilità dei mutamenti avvenuti nei rapporti politici tra capitalismo e socialismo? Resta da vedere in che misura l'Italia può ancora be¬ neficiare della «Westpolitik» economica sovietica o se, piuttosto, l'interdipendenza di cui parla Breznev non va intesa, come sembra dimostrare il recente passato, soprattutto in funzione delle grandi potenze politiche ed economiche, quali gli Stati Uniti, la Germania occidentale o il Giappone. Pessimismo Savoretti è, in proposito, pessimista fino allo sconforto e all'irritazione a causa di quella che egli considera una politica economica, nel settore dell'esportazione, poco lungimirante da parte dei nostri governi. «Noi che siamo stati i pionieri su questo mercato — dice — oggi siamo in crisi, mentre gli americani stanno arrivando ora con tutta la loro potenza, la loro organizzazione, l'appoggio del loro governo e, per colmo d'ironia, trovano dall'altra parte interlocutori affinati da più di vent'anni di negoziati con noi». Pepitoni, della Restital (che si dice appartenga al pei), afferma che tutte le nostre difficoltà sul mercato sovietico «dipendono dalla mancanza di crediti e dall'assenza di una politica comune da parte delle ditte operanti qui, come fanno invece giapponesi e francesi». Billotta, invece, è più ottimista. «Si è fatto ancora poco rispetto alle potenzialità di questo Paese — dice — a mano a mano che l'economia sovietica si sviluppa, come si sta sviluppando, nuovi settori merceologici si aprono verso l'estero. Ma, soprattutto, non dimentichiamo che negli ultimi anni c'è stata una svolta fondamentale nella politica economica sovietica. Non si determinano più, almeno entro certi limiti, i livelli degli interscambi con differenti Paesi in base a ragioni politiche, bensì in base a calcoli puramente economici di prezzi, di redditività delle forniture, di qualità delle medesime». C'è spazio per tutti, dunque, a condizione di avere intraprendenza, conoscenza del mercato, organizzazione, tutte qualità che le ditte italiane, per colpa propria o altrui, negli ultimi tempi non hanno dimostrato di avere. Paolo Garimberti I buoni affari con l'Urss UOMINI CHE HANNO ROTTO IL GELO DELL'ISOLAMENTO ECONOMICO I buoni affari con l'Urss In Russia, oggi, c'è spazio per tutti, a condizione di avere intraprendenza e conoscenza del mercato; ma l'esordio dei "pionieri", vent'anni fa, fu diffìcile - L'esperienza di Savoretti - Una camera al "Natsional" come ufficio di rappresentanza per i manager stranieri - Il miracolo della fabbrica di Togliattigrad che ha favorito un nuovo tipo di rapporti con le imprese straniere: oggi sono undici le ditte italiane rappresentate a Mosca (Dal nostro corrispondente) Mosca, agosto. «Quando vi arrivai la prima volta, nell'aprile del 1954 — dice Piero Savoretti — Mosca mi mise addosso una terribile tristezza. La gente era vestita alla meglio, si riparava dal freddo di un inverno interminabile con corti cappotti trapuntati, grigioverdi, residui del tempo di guerra. Le vetrine erano rare e, quelle poche, vuote. Ricordo che nella via Gorkij i negozi di alimentari esponevano polli di cartone. Ma, dopo i primi contatti, ebbi la sensazione di un paese teso, fervente di programmi di sviluppo. Ero stato mandato a Mosca da una società inglese, la Lambton. Quando tornai in Italia, andai a trovare i dirigenti di varie ditte, dicendo a tutti: la c'è un mercato di immense possibilità». Vent'anni fa, non esisteva m linea aerea diretta MilanoMosca. Si arrivava nella capitale sovietica, a bordo dei vecchi «Iljushin 14», facendo tappa a Zurigo, Praga, Vilnjus, in Lituania, e Minsk, in Bielorussia. Un viaggio che oggi si può fare comodamente in automobile. Mosca aveva allora un solo aeroporto (oggi ne ha quattro), a Vnukovo, e l'aero stazione era una baracca di legno con la vernice scrostata dai geli invernali, riscaldata da gualche stufa. Dall'aeroporto alla città c'erano venti chilometri di strada in aperta campagna: Mosca cominciava un paio di chilometri prima del giardino dell'Accademia delle Scienze, quello che oggi — nella megalopoli di quasi otto milioni d'abitanti, dove si costruisce al ritmo frenetico di duecento appartamenti al giorno — viene considerato pieno centro. Un estraneo Piero Savoretti —- oggi cinquantaduenne, «manager» della Novasider — fu uno dei primi, non soltanto in Italia, ma nel mondo, a credere che il «pianeta Russia» — come s'usava chiamarlo allora — devastato dalla guerra e macerato dagli stenti di un tremendo dopoguerra, sarebbe potuto diventare il nuovo eldorado degli uomini d'affari occidentali. Nel 1956, quando s'installò stabilmente a Mosca per «fare affari», l'Unione Sovietica cominciava ad uscire dall'isolamento internazionale, sia politico che economico, e stava sbarazzandosi all'interno di quella cappa di sospetti e di paure, che viene comunemente definita «il terrore staliniano». A Savoretti assegnarono una stanza ai- I Mosca. Una scena consueta durante l'estate: venditrici di bibite e gelati con i loro banchetti nelle vie della capitale russa l'Albergo Natsional, ufficio e residenza al tempo stesso («ricordo ancora il numero, il 301», dice) e lo trattarono con estrema diffidenza: «Quando tentavo di telefonare a qualcuno — racconta — non riuscivo mai a sapere se quel tale c'era o non c'era, talvolta non capivo neppure se certi fantomatici interlocutori esistevano davvero o erano soltanto una finzione. Lo straniero, allora, era considerato un estraneo, a volte anche peggio, e m'impedivano in tutti i modi di avvicinare i russi». Il cerchio di gelo s'allentò molto lentamente, solo all'inizio degli Anni Sessanta. Savoretti si sposò a Mosca, con una bionda impiegata dell'Inturist, Nina Ivanovna, i contatti con i russi non vennero più ostacolati, arrivarono i primi grossi affari, fino al più importante, storico addirittura, tra la Fiat e il governo sovietico per la costruzione della fabbrica automobilistica di Togliatti, che egli propiziò e seguì fino alla conclusione. Oggi, su Piero Savoretti esiste una mitologia, nella quale, come in tutte le mitologie, è difficile distinguere la favola dalla realtà. E' sta¬ to scritto di lui che entra nell'ufficio di Breznev senza bussare ed è certamente un'esagerazione, che però dà la misura del livello dei suoi contatti con il mondo politico ed economico sovietico, dimostrato anche dal fatto che egli è stato il primo uomo d'affari occidentale al quale il ministero del Commercio Estero ha consentito di aprire una sede fuori da un albergo, in una villetta a due piani nel Triochprudny Pereolok, a due passi dagli Stani Patrarshie, dove Buigakov ambientò l'inizio di «Il maestro e Margherita». Vecchio ricordo Nella casa di Savoretti, con i camerieri discreti e perfetti, o nei nuovi uffici della Novasider, la stanza numero 301 della Natsional diventa un ricordo romantico, e così le traumatiche esperienze dei primi contatti con la classe dirigente sovietica, attanagliata da paure e complessi nei confronti dello straniero. «Ho visto nascere — dice Savoretti — l'attuale classe dirigente tecno - economica. E' .gente che ha sempre avuto un forte contenuto ideale, completa- mente votata al suo lavoro, quasi fosse una missione. Questo spirito è rimasto intatto oggi. La selezione dei quadri venuti su in questi anni è stata molto severa. Ogni giorno, ci troviamo di fronte a dirigenti sempre più giovani, sempre più preparati e sempre più manageriali, all'occidentale, intendo, nei modi. L'età media del dirigente di "Eantora", d'ufficio, continua ad abbassarsi e la preparazione professionale e culturale ad alzarsi». La vicenda di Savoretti, al di là del fascino pionieristico che può contenere è un paradigma applicabile alle esperienze di tutti gli uomini d'affari italiani a Mosca (le ditte italiane con rappresentanza sono oggi undici), quale ne sia la provenienza professionale o anche politico ideologica: dagli ex studenti dell'università di Mosca, venuti qui attratti da un credo che alcuni hanno rigettato e altri no — come Lelli della Sirce, Pepitoni della Restital, e tutti quei ragazzi che furono la spina dorsale della Novasider di Savoretti — ai funzionari arrivati a Mosca già «adulti» professionalmente a scoprire un mondo che talvolta li obbliga a rivedere gli schemi manageriali acquisiti in Italia, come Billotta dell'Eni, Cottone della Fiat, Cagliani della Banca Commerciale, ultimo arrivato, cui è stato assegnato un ufficio con vista sul teatro Bolshoj per una singolare, non certo voluta, analogia (a Milano, gli uffici della «Commerciale» s'affacciano sulla Scala). La stanza in albergo, per anni, con un fornello nel gabinetto per cuocere un piatto di spaghetti quasi di nascosto dalla direzione, le comunicazioni difficili ed esasperanti con l'Italia, prima di ottenere i telex, i primi, duri contatti con gli «apparateiki» sovietici, conquistati poi con cortesie e attenzioni, le interminabili sedute di lavoro, scandite da brindisi con vodka a cinquanta gradi o cognac armeno, nelle quali non si sa se conta più l'abilità professionale o la resistenza del fegato: la trafila è stata uguale per tutti. Stanza buia Con Mario Billotta, dell'Eni, c'incontrammo la prima volta quattro anni fa, in una stanza dell'albergo Ukraina, arredata con mobili di betulla massicci e sfiancati, così buia da apparire sinistra. Billotta tirò fuori da un armadio, che fungeva da schedario, un pacco di caffè italiano e ne preparò due tazze su un fornelletto. Il sapore del caffè che mi offre oggi è lo stesso d'allora. Ma lo gustiamo in un ufficio luminoso, seduti in poltrone firmate da «designers» italiani, al piano terra d'un palazzo della Sadovo-Samotechnaja, davanti al teatro delle marionette di Obrazov. L'Eni ha ora una sede di rappresen¬ tanza di sei stanze, arredate da architetti italiani, più una sala per le conferenze dove vengono proiettati film-documentari sull'attività della società per gli ospiti sovietici. «La nostra condizione — osserva Billotta — è mutata nella stessa misura in cui sono cambiati i nostri interlocutori sovietici. Essi cercano d'imitare, in tutto e per tutto, il "manager" occidentale. Le nuove organizzazioni di import-export, che continuano a sorgere, sono strutturate secondo modelli occidentali. I posti di responsabilità vengono affidati quasi esclusivamente a gente che è stata all'estero, ha assimilato perfettamente il nostro approccio ai problemi e agli uomini. Hanno cominciato all'inizio degli Anni Sessanta a mandare gente all'estero e ora la prima generazione di questi nuovi "managers" sovietici è tornata in patria e ha preso le leve del potere, anche se la decisione finale su un affare non è mai individuale, ma sempre collegiale e questa resta la maggiore differenza tra noi e loro. Ma una volta era impossibile telefonare ad un'organizzazione qualsiasi e dire: voglio parlare con il tal dei tali. Rispondevano invariabilmente: richiameremo noi. Oggi, questa fobia del contatto improvvisato con lo straniero è passata». Dalle esperienze degli uomini d'affari italiani a Mosca, dalle loro considerazioni si delinea il quadro di una Russia che cambia, almeno nei rapporti con l'estero, anche se resta immutabile sul piano interno, delle libertà politiche e intellettuali cioè. E' lo stesso quadro che si potrebbe comporre con un paziente «collage» della cronaca politica sovietica di questi ultimi anni, analizzando le personalità emergenti e le tendenze di quella che è stata definita la «Westpolitik» di Breznev. Anche in politica si affermano i tecnocrati, gli esperti settoriali, un tipo d'approccio verso gli interlocutori e uno stile di conduzione che sembrano mutuati, con qualche inevitabile correttivo, dall'Occidente. Lo stesso Breznev sì è circondato progressivamente di un «gabinetto personale», un gruppo di teste d'uovo — come Zagladin, Aleksandrov Agentov, Blatov, Rusakov —, perfettamente poliglotte, abituate al contatto con gli stranieri, di solida cultura generale e politica, che nulla hanno in comune con il tradizionale «apparateik» russo. La garanzia D'altra parte, è normale che l'evoluzione di modi e di uomini vada di pari passo in politica ed in economia, visto che la seconda condiziona la prima o ne è comunque la forza trainante. Non è forse di Breznev la formula che la creazione di un sistema d'interdipendenza economica tra Est e Ovest costituirà, negli anni a venire, la garanzia dell'irreversibilità dei mutamenti avvenuti nei rapporti politici tra capitalismo e socialismo? Resta da vedere in che misura l'Italia può ancora be¬ neficiare della «Westpolitik» economica sovietica o se, piuttosto, l'interdipendenza di cui parla Breznev non va intesa, come sembra dimostrare il recente passato, soprattutto in funzione delle grandi potenze politiche ed economiche, quali gli Stati Uniti, la Germania occidentale o il Giappone. Pessimismo Savoretti è, in proposito, pessimista fino allo sconforto e all'irritazione a causa di quella che egli considera una politica economica, nel settore dell'esportazione, poco lungimirante da parte dei nostri governi. «Noi che siamo stati i pionieri su questo mercato — dice — oggi siamo in crisi, mentre gli americani stanno arrivando ora con tutta la loro potenza, la loro organizzazione, l'appoggio del loro governo e, per colmo d'ironia, trovano dall'altra parte interlocutori affinati da più di vent'anni di negoziati con noi». Pepitoni, della Restital (che si dice appartenga al pei), afferma che tutte le nostre difficoltà sul mercato sovietico «dipendono dalla mancanza di crediti e dall'assenza di una politica comune da parte delle ditte operanti qui, come fanno invece giapponesi e francesi». Billotta, invece, è più ottimista. «Si è fatto ancora poco rispetto alle potenzialità di questo Paese — dice — a mano a mano che l'economia sovietica si sviluppa, come si sta sviluppando, nuovi settori merceologici si aprono verso l'estero. Ma, soprattutto, non dimentichiamo che negli ultimi anni c'è stata una svolta fondamentale nella politica economica sovietica. Non si determinano più, almeno entro certi limiti, i livelli degli interscambi con differenti Paesi in base a ragioni politiche, bensì in base a calcoli puramente economici di prezzi, di redditività delle forniture, di qualità delle medesime». C'è spazio per tutti, dunque, a condizione di avere intraprendenza, conoscenza del mercato, organizzazione, tutte qualità che le ditte italiane, per colpa propria o altrui, negli ultimi tempi non hanno dimostrato di avere. Paolo Garimberti