Gli "ultimi fedeli,, di Nixon

Gli "ultimi fedeli,, di Nixon Chi rimane accanto al Presidente americano in disgrazia Gli "ultimi fedeli,, di Nixon Uno è Ronald Ziegler, portavoce della Casa Bianca, strappato a Disneyland - L'altro è l'avvocato James St. Clair, il difensore del Presidente nel "Watergate": guadagna 75 milioni al mese (Dal nostro corrispondente) Washington, 4 agosto. Era la tarda sera di lunedì 29 luglio, quando Richard M. Nixon, Presidente dimezzato degli Stati Uniti, uscì furtivamente dalla Casa Bianca. La televisione aveva appena trasmesso in diretta la notizia che anche il secondo articolo di incriminazione era stato approvato a schiacciante maggioranza. La serata era umida e calda. Con la moglie e una delle due figlie, Nixon si diresse verso il fiume di Washington, il Potomac, a poche centinaia di metri dalla Casa Bianca dove, i motori già caldi, lo attendeva il «Sequoia», lo yacht presidenziale. La sorveglianza della stampa era stata elusa e lo splendido battello scivolò inosservato dal molo sulle acque del fiume. Una cena intima, familiare, aveva chiesto Nixon, una pausa fra tanta angoscia. Ma non appena il cameriere personale del Presidente cominciò a versare la «soup» (veloutée de tornatesi il cielo si aprì: mai, in tutto l'anno, Washington aveva conosciuto simile tempesta. L'ufficio meteorologico emise un «allarme da tornado», Nixon rientrò in fretta alla Casa Bianca, fradicio e senza cena. Dicevano i latini che gli dei rendono pazzi coloro che vogliono perdere. Con Richard Nixon gli dei giocano pesante. Gli uomini lo abbandonano, gli elementi lo tradiscono: anche il fiume non vuol più saperne. E' condannato a restar chiuso nella Casa Bianca, finché gli ufficiali giudiziari non gli ordineranno di andarsene per far posto al vicepresidente Gerald Ford. Inutile cercare samaritani a Washington, trovereste solo maramaldi. Dietro le mura candide della residenza presidenziale, accanto al Presidente del Watergate, restano solo pochi fedelissimi, incerti fra la paura della complicità e l'incubo di Bruto; restano la moglie, il cane, qualche segretaria votata, come le vedove indiane, a svanire nel rogo del signore estinto. Come accade puntualmente nello sfacelo dei regimi, sono gli uomini di seconda fila che emergono e si illuminano dell'ultima luce riflessa dal sovrano. Ronald Ziegler, l'addetto stampa del Presidente strappato a Disneyland per questo incarico, sta uscendo alla ribalta come l'ultimo, il più fedele amico di Nixon. Un abbraccio mortale, dicono i maligni, perché Ziegler non capisce nulla di politica, si inimica ancor di più la stampa, coltiva le illusioni nixoniane in un impossibile miracolo, come se le legioni dei sudisti fedeli stessero marciando su Washington per liberarlo. «Ziegler, dove sono le mie divisioni?». «Vicine, signor Presidente». Ma non arriveranno mai. Con Ronald Ziegler (ultimo tedesco della guardia prussiana composta dagli Ehrlichmann e dagli Haldemann, oggi in attesa di finire in carcere), Nixon si confida ancora. «Gli piace perché solletica le sue speranze», dicono a Washington. Come darli torto? Ziegler ascolta gli sfoghi del capo, le tirate contro quei « sonovabitches», quei figli di buona madre che vogliono la sua testa; sopporta le esibizioni al pianoforte, che Nixon suona con la stessa mano di ferro che adoperò nel governo, e che lo induce sovente a stonare, facendone un pianista facilmente « impeachable ' Insieme con l'addetto stampa, un altro uomo è ammesso nelle stanze di Nixon a qualunque ora. E' James St. Clair, il volpino avvocato del Presidente, uno dei migliori legali di Washington. St. Clair — dicono i suoi intimi — «non ci crede più», ma il senso etico della sua professione, e 75 milioni fissi dì parcella ùl mese, gli impongono di restare. La sua strategia consiste nel ritardare l'inevitabile, guadagnare tempo, settimane, giorni: mai gli interessi di un cliente e del suo avvocato coincisero meglio. Da tempo egli si prepara allo «show» processuale in Senato (scontata, per lui, l'incriminazione da parte della Commissione e la ratifica da parte della Camera) e nessuno potrà accusarlo di non aver fatto il possibile. Con St. Clair, l'avvocato, e Ziegler, il confidente, Nixon consuma le sue ultime settimane di soggiorno alla Casa Bianca. Gli altri ospiti abituali, ministri, consiglieri, amici personali, vanno e vengono con l'aria di circostanza di chi visita un malato. Kissinger è occupatissimo con Cipro, il vicepresidente Ford gira l'America per farsi conoscere dai suoi futuri sudditi, per far sapere che egli crede ancora in Nixon e costruirsi un alibi quando in Senato i pugnali si alzeranno contro il Cesare americano. Gli uomini del Presidente sono lontani: alcuni trattenuti nelle carceri con cortese fermezza, altri in attesa di processo, molti occupati a scrivere memorie dove raccontano di «avere soltanto obbedito agli ordini», senza accorgersi dei sinistri richiami di queste frasi. Non vi sono precedenti illustri ai quali ispirarsi; non esiste un codice di comportamento per gli ultimi cento giorni di un Presidente avviato alla destituzione. Inutile attendersi impennate dell'ultima ora: alla Casa Bianca si respira un'aria plumbea, non l'atmosfera sulfurea delle cancellerie assediate. I televisori sono spenti per rispettare l'ordine del Presidente di mostrare disinteresse per quanto accade alla Camera (ma un domestico ha confessato a una cronista di avere udito la voce di Rodino filtrare dalla camera di Nixon), le caffettiere gorgogliano in continuo allarme, lo champagne non entra più, poiché nulla resta da celebrare. C'è aria di smobilitazione, di ineluttabilità al numero 1600 di Pennsylvania Avenue, che è l'indirizzo della Casa Bianca. L'altra faccia dell'incriminazione non ha il sorriso luciferino del Nixon dei giorni fausti («Comprereste un'auto usata da un tipo così?» dicevano, maliziosi, i democratici), ma i capelli sempre più grigi, la pelle cascante, le occhiaie profonde. L'aspetto di Nixon è drammatico, in questi giorni. «Nixon gioca a fare l'a¬ gnello» dicono i più sospettosi fra i suoi avversari, «prepara un trucco», e ricordano il nomignolo che gli avevano affibbiato: «Tricky Dick», Riccardo dei trucchetti. Come è possibile che il Nixon che ha risalito la china della sconfitta contro Kennedy e della bocciatura successiva alle elezioni locali in California, ora vada a fondo senza un gemito? Ancora molti temono un colpo di coda maturato nelle notti insonni della Casa Bianca, come quando il Presidente vegliò per riascoltarsi 20 nastri registrati, prima di consegnarli al giudice. Di fronte alla sua voce riprodotta dal magnetofono deve aver rivissuto i giorni della gloria e provato il morso della rabbia ascoltandosi firmare, con la sua stessa voce, la propria condanna. Ma quale trucco potrebbe mai escogitare? Forse la sola vendetta potrebbero essere le dimissioni: uscire dalla scena volontariamente, prima che la sentenza definitiva sia pronunciata. E l'America resterebbe per sempre con il dubbio di aver cacciato un innocente. Vittorio Zucconi Washington. L'avv. Clair, il difensore Nixon Gli "ultimi fedeli,, di Nixon Chi rimane accanto al Presidente americano in disgrazia Gli "ultimi fedeli,, di Nixon Uno è Ronald Ziegler, portavoce della Casa Bianca, strappato a Disneyland - L'altro è l'avvocato James St. Clair, il difensore del Presidente nel "Watergate": guadagna 75 milioni al mese (Dal nostro corrispondente) Washington, 4 agosto. Era la tarda sera di lunedì 29 luglio, quando Richard M. Nixon, Presidente dimezzato degli Stati Uniti, uscì furtivamente dalla Casa Bianca. La televisione aveva appena trasmesso in diretta la notizia che anche il secondo articolo di incriminazione era stato approvato a schiacciante maggioranza. La serata era umida e calda. Con la moglie e una delle due figlie, Nixon si diresse verso il fiume di Washington, il Potomac, a poche centinaia di metri dalla Casa Bianca dove, i motori già caldi, lo attendeva il «Sequoia», lo yacht presidenziale. La sorveglianza della stampa era stata elusa e lo splendido battello scivolò inosservato dal molo sulle acque del fiume. Una cena intima, familiare, aveva chiesto Nixon, una pausa fra tanta angoscia. Ma non appena il cameriere personale del Presidente cominciò a versare la «soup» (veloutée de tornatesi il cielo si aprì: mai, in tutto l'anno, Washington aveva conosciuto simile tempesta. L'ufficio meteorologico emise un «allarme da tornado», Nixon rientrò in fretta alla Casa Bianca, fradicio e senza cena. Dicevano i latini che gli dei rendono pazzi coloro che vogliono perdere. Con Richard Nixon gli dei giocano pesante. Gli uomini lo abbandonano, gli elementi lo tradiscono: anche il fiume non vuol più saperne. E' condannato a restar chiuso nella Casa Bianca, finché gli ufficiali giudiziari non gli ordineranno di andarsene per far posto al vicepresidente Gerald Ford. Inutile cercare samaritani a Washington, trovereste solo maramaldi. Dietro le mura candide della residenza presidenziale, accanto al Presidente del Watergate, restano solo pochi fedelissimi, incerti fra la paura della complicità e l'incubo di Bruto; restano la moglie, il cane, qualche segretaria votata, come le vedove indiane, a svanire nel rogo del signore estinto. Come accade puntualmente nello sfacelo dei regimi, sono gli uomini di seconda fila che emergono e si illuminano dell'ultima luce riflessa dal sovrano. Ronald Ziegler, l'addetto stampa del Presidente strappato a Disneyland per questo incarico, sta uscendo alla ribalta come l'ultimo, il più fedele amico di Nixon. Un abbraccio mortale, dicono i maligni, perché Ziegler non capisce nulla di politica, si inimica ancor di più la stampa, coltiva le illusioni nixoniane in un impossibile miracolo, come se le legioni dei sudisti fedeli stessero marciando su Washington per liberarlo. «Ziegler, dove sono le mie divisioni?». «Vicine, signor Presidente». Ma non arriveranno mai. Con Ronald Ziegler (ultimo tedesco della guardia prussiana composta dagli Ehrlichmann e dagli Haldemann, oggi in attesa di finire in carcere), Nixon si confida ancora. «Gli piace perché solletica le sue speranze», dicono a Washington. Come darli torto? Ziegler ascolta gli sfoghi del capo, le tirate contro quei « sonovabitches», quei figli di buona madre che vogliono la sua testa; sopporta le esibizioni al pianoforte, che Nixon suona con la stessa mano di ferro che adoperò nel governo, e che lo induce sovente a stonare, facendone un pianista facilmente « impeachable ' Insieme con l'addetto stampa, un altro uomo è ammesso nelle stanze di Nixon a qualunque ora. E' James St. Clair, il volpino avvocato del Presidente, uno dei migliori legali di Washington. St. Clair — dicono i suoi intimi — «non ci crede più», ma il senso etico della sua professione, e 75 milioni fissi dì parcella ùl mese, gli impongono di restare. La sua strategia consiste nel ritardare l'inevitabile, guadagnare tempo, settimane, giorni: mai gli interessi di un cliente e del suo avvocato coincisero meglio. Da tempo egli si prepara allo «show» processuale in Senato (scontata, per lui, l'incriminazione da parte della Commissione e la ratifica da parte della Camera) e nessuno potrà accusarlo di non aver fatto il possibile. Con St. Clair, l'avvocato, e Ziegler, il confidente, Nixon consuma le sue ultime settimane di soggiorno alla Casa Bianca. Gli altri ospiti abituali, ministri, consiglieri, amici personali, vanno e vengono con l'aria di circostanza di chi visita un malato. Kissinger è occupatissimo con Cipro, il vicepresidente Ford gira l'America per farsi conoscere dai suoi futuri sudditi, per far sapere che egli crede ancora in Nixon e costruirsi un alibi quando in Senato i pugnali si alzeranno contro il Cesare americano. Gli uomini del Presidente sono lontani: alcuni trattenuti nelle carceri con cortese fermezza, altri in attesa di processo, molti occupati a scrivere memorie dove raccontano di «avere soltanto obbedito agli ordini», senza accorgersi dei sinistri richiami di queste frasi. Non vi sono precedenti illustri ai quali ispirarsi; non esiste un codice di comportamento per gli ultimi cento giorni di un Presidente avviato alla destituzione. Inutile attendersi impennate dell'ultima ora: alla Casa Bianca si respira un'aria plumbea, non l'atmosfera sulfurea delle cancellerie assediate. I televisori sono spenti per rispettare l'ordine del Presidente di mostrare disinteresse per quanto accade alla Camera (ma un domestico ha confessato a una cronista di avere udito la voce di Rodino filtrare dalla camera di Nixon), le caffettiere gorgogliano in continuo allarme, lo champagne non entra più, poiché nulla resta da celebrare. C'è aria di smobilitazione, di ineluttabilità al numero 1600 di Pennsylvania Avenue, che è l'indirizzo della Casa Bianca. L'altra faccia dell'incriminazione non ha il sorriso luciferino del Nixon dei giorni fausti («Comprereste un'auto usata da un tipo così?» dicevano, maliziosi, i democratici), ma i capelli sempre più grigi, la pelle cascante, le occhiaie profonde. L'aspetto di Nixon è drammatico, in questi giorni. «Nixon gioca a fare l'a¬ gnello» dicono i più sospettosi fra i suoi avversari, «prepara un trucco», e ricordano il nomignolo che gli avevano affibbiato: «Tricky Dick», Riccardo dei trucchetti. Come è possibile che il Nixon che ha risalito la china della sconfitta contro Kennedy e della bocciatura successiva alle elezioni locali in California, ora vada a fondo senza un gemito? Ancora molti temono un colpo di coda maturato nelle notti insonni della Casa Bianca, come quando il Presidente vegliò per riascoltarsi 20 nastri registrati, prima di consegnarli al giudice. Di fronte alla sua voce riprodotta dal magnetofono deve aver rivissuto i giorni della gloria e provato il morso della rabbia ascoltandosi firmare, con la sua stessa voce, la propria condanna. Ma quale trucco potrebbe mai escogitare? Forse la sola vendetta potrebbero essere le dimissioni: uscire dalla scena volontariamente, prima che la sentenza definitiva sia pronunciata. E l'America resterebbe per sempre con il dubbio di aver cacciato un innocente. Vittorio Zucconi Washington. L'avv. Clair, il difensore Nixon