UNA MOSTRA DI RIVELAZIONI di Marziano Bernardi

UNA MOSTRA DI RIVELAZIONI UNA MOSTRA DI RIVELAZIONI Pittori di Verona (Dal nostro inviato speciale) Verona, agoslo. Verona, Vicenza, Padova, Venezia... Non è la lettura dell'orario Pozzo, ma la traccia di un itinerario artistico eccezionale proposto quest'anno dal Veneto, un'occasione rara per il viaggiante intelligente cui la calura abbia consigliato di rinviare una vacanza culturale a settembre. A Verona, « Cinquant'anni di pittura veronese 1580-1630»; a Vicenza, seconda edizione della straordinaria « Mostra del Palladio » già qui recensita l'anno scorso; a Padova, il favoloso cursus dell'arte padovana « Da Giotto al Mantegna »; a Venezia l'affascinante documentazione dell'influenza di Bisanzio sulla civiltà figurativa della Serenissima; e delle due ultime mostre questo giornale s'è occupato a suo tempo. Ora è la volta di Verona per ciò che si vede nel palazzo della Gran Guardia: un dono magnifico. La più incondizionata lode va data a chi ce l'ha offerto: a Licisco Magagnato, maestro di studi sull'arte veronese, che coadiuvato da uno stuolo di specialisti italiani e stranieri ha diretto la mostra curandone anche l'esemplare catalogo critico, un volume fondamentale per la conoscenza di un aspetto, localmente e temporalmente circonscritto, della nostra pittura manieristica e del primo Seicento, inclusa la corrente caravaggesca; aspetto già acutamente esplorato (basti citare il Longhi e l'Arslan), ma del quale adesso abbiamo sott'occhio il « quadro » compie to mediante ben 225 dipinti e disegni di 14 pittori veronesi attivi tra il Cinque ed il Seicento, oltre alcuni paradigmi inseriti nella « sezione introduttiva » della mostra. Li nominiamo tutti neh" ordine del catalogo: Felice Rizzo detto Brusasorzi, Bernardino India, Paolo Farinati, Sante Creara, Giovanni Battista Rovedata, Pietro Bernardi, Alessandro Turchi detto l'Orbetto, Marcantonio Bassetti, Pasquale Ottino, Claudio Ridolfi, Dionisio Guerri, Dario Pozzo, Antonio Giarola detto Cavalier Coppa, Fra Semplice da Verona. Sono nomi parecchi dei quali torneranno nuovi al lettore comune che immagina la storia dell'arte unicamente imperniata sugli « Uomini d'oro » (per usare un'espressione di Giovanni Testori), da Giotto al Caravaggio, da Michelangelo al Tiepolo, ed ignora la sterminata schiera dei valentissimi così detti « minori » artefici ■— spesso non inferiori, almeno a tratti, nella loro relativa oscurità, a quegli « Uomini d'oro » — che ne resero possibile l'ininterrotto tessuto e che l'assiduo lavoro della critica va scoprendo o riscoprendo, procurando rivelazioni sorprendenti al pubblico non specializzato in codeste ricerche. Ed è appunto il caso della mostra di Verona, e il suo gran merito; perché, se non tutti, certamente la metà dei pittori presentati salgono a un livello forse finora imprevedibile, lasciando poi al competente di individuare i tre cardini da cui stilisticamente, per vie dirette o per vie riflesse, si dirama la pittura veronese nel cinquantennio indicato: cioè il manierismo fiorentino (Brusasorzi e seguaci), il caravaggismo romano (Turchi, Bassetti, Ottino), il venezianismo di Paolo Caliari, visibile se non altro negli inizi del tradizionalista Farinati e del Ridolfi, prima che quest'ultimo piegasse verso il Barocci. ★ ★ Ma s'è parlato di rivelazioni. E allora al di là d'ogni analisi critica e precisazione filologica, sia lecito abbandonarsi adesso, in questo gigantesco palazzo secentesco della Gran Guardia, alla semplice gioia della pura ammirazione. Un quadro come La Vergine e i tre arcangeli del Brusasorzi merita da solo il viaggio. Se ne sprigiona una musicalità ineffabile, come un'onda melodica che salga dal colore effuso, limpido, lieve eppur pieno, avvolgente con modulazione dolcissima le forme androgine delle tre creature celesti, Michele che calpesta l'atterrato ribelle, Raffaele che pare accennare all'accompagnamento di un assente Tobiolo (si rammenti la stupenda immagine del Poliamolo nella Galleria Sabauda di Torino), Gabriele che al fanciullo atterrito dal domato demonio indica in alto la soave Madonna, chiusa nel coro d'angeli incendiato di luce empirea. Né v'è da stupirsi di tanto melos intriso di stremate ambiguità manieristiche: il Brusasorzi nutriva la sua cultura sofisticata nell'ambiente della cittadina Accademia Filarmonica, nonché musico egli stesso, amico dei dilettanti aristocratici di cui dipingeva le « imprese » ed ai quali di continuo forniva acclamati lavori; e d'altro lato il quadro fu dipinto, secondo il Magagnato, poco dopo il primo soggiorno del pittore a Firenze, al tempo che Giorgio Vasari attendeva al grande ciclo della sala dei Cinquecento in Palazzo Vecchio. Di qui il fiorentinismo brusasorziano, l'impronta decisiva della Maniera sul giovane veronese, riscontrabile soprattutto nella Madonna con otto sante della chiesa della Trinità a Verona. E' probabile che un effetto di questa rivelatrice rassegna sarà di portare Felice Brusasorzi (1540-1605) al livello dei più notevoli artisti del suo tempo, tanto nella valutazione critica — anche di maestro della generazione pittorica veronese dell'80, falciata in massima parte dalla peste del 1630: e perciò la mostra è compresa tra queste due date —, quanto sul piano dell'antiquariato e del collezionismo. S'intende che da quest'ultimo restano fuori le enormi pale d'altare che coi ripetuti temi sacri un poco opprimono, da autore ad autore, il panorama dell'esposizione; ma i piccoli dipinti ad olio su « paragoni », cioè su nerissime lastre d'ardesia cavata dal monte Gironda nella riviera di Salò, sono capolavori incantevoli anche quando dal Brusasorzi si passa al minore Rovedata, appetibili da qualsiasi intenditore. E tornando poi a Felice, la complessità dei suoi interessi intellettuali, spinti fino allo stile della scuola di Fontaincbleau (si osservi il deteriorato e tuttavia affascinante Ritrovamento di Mose in un fantastico paesaggio nordico ed insieme «romano»), ed alle reminiscenze dello Spranger e del Goltzius, lascia interdetti. * ★ Dunque, dalla Caduta di San Paolo del capriccioso c raffinato Bernardino India al superbamente plastico Battesimo di Cristo del Farinati mi chelangiolesco; dalla magnifica, caravaggesca Sacra Famiglia del misterioso Pietro Bernardi (un'altra rivelazione della mostra, non fosse che per la testa della S. Elisabetta, anticipatrice del crudo realismo del Pitocchetto) alla baroccesca Flagellazione che piacque al Cochin del « Viaggio in Italia » e a quanti degli antichi critici parlarono del Ridolfi; i motivi di ammirazione non mancano alla Gran Guardia. Ma il suo diapason più acuto lo si raggiunge con quello che, dopo le geniali analisi di Roberto Longhi, è da tutti chiamato il «Trio famoso»: Turchi, Ottino, Bassetti. E siamo nel secondo decennio del Seicento, non a Verona ma a Roma, dove i tre giovani son giunti per allargare le loro conoscenze artistiche, e forse il primo chiamatovi dall' amicizia di Carlo Saraceni. Il nome immediatamente ci introduce nella cerchia caravaggesca, e la lezione non più discussa a Roma in quegli anni del Merisi è evidente nel « trio », benché la Strage degli Innocenti (1619) dipinta dall'Ottino per la cappella Varaffi nella chiesa di Santo Stefano a Verona ci porti in direzione di Guido Reni, e la studiosa Annamaria Calcagni Conforti avanzi dubbi sulla « presenza nella Sala Regia » (dizione longhiana) dell'Ottino, accanto al Turchi e al Bassetri, operanti al Quirinale con la mente, se non sempre la mano, al Caravaggio. Ma se proseguissimo su questa via di rapporti, influenze e scambi di gusti e di linguaggi il discorso si farebbe complicato e difficile per il lettore, sì che preferiamo restringerlo a un giudizio che non può esser contrastato: il « trio » è composto da grandi pittori che questa mostra pone in luce sfolgorante, e di essi Marcantonio Bassetti è il massimo. A parte le pale sacre, tra cui spiccano i meravigliosi Ve scovi martiri, esempio di risoluto rifiuto, pur nell'ossequio al tema, del « magistero mistificatorio di tanta pittura di Controriforma », cinque ritratti puntualmente illustrati nelle schede del catalogo da Anna Cavina Ottani consacrano il Bassetti a una fama imperitura: Uomo col guanto, S. Antonio che legge (che è semplicemente il ritratto d'un monico con un giglio sul tavolino accanto al libro aperto), Monaca, Vecchio con libro, Vecchio con cane. Ringraziamo Magagnato d'averci fornito l'incomparabile visione d'una pittura realistica che regge ogni confronto europeo su questa linea espressiva di ogni epoca, centrando la mostra sul suo valore essenziale di umanità, e così riscattandola dalla pletora di immagini devozionali. Dovessimo suggerire un richiamo a proposito del S. Antonio, saremmo incerti tra 1 sommi spagnuoli e il grandissimo Crespi. Meglio rifarci alla profezia del Longhi: « Cre scerà, col tempo, il Bassetti»; e meglio ancora al suo infallibile giudizio sul Vecchio con cane: «Uno dei grandi ritratti del secolo. Nei tocchi scremati sul viso, nella umana penetrazione, mostra per che via (inevitabilmente caravaggesca) un italiano intorno al 1630 potesse misurarsi con un Rembrandi, un Hals, un Velasquez ». Quale lode maggiore per il troppo a lungo dimenticato pittore veronese ucciso dalla peste quell'anno, ed il cui nome il grosso pubblico ancor oggi certamente ignora? Marziano Bernardi