MENTRE SI DISSOLVE L'IMPERO PORTOGHESE di Sandro Viola

MENTRE SI DISSOLVE L'IMPERO PORTOGHESE MENTRE SI DISSOLVE L'IMPERO PORTOGHESE Sudafrica, tempo dipaura Di fronte all'indipendenza del Mozambico e dell'Angola il governo manifesta sicurezza e ottimismo - Ma gli stanziamenti per l'esercito sono passati da 481 a 702 miliardi di lire - Si è perfino disposti a sacrificare gli alleati della Rhodesia bianca (Dal nostro inviato speciale) Capetown, agosto. Ora il governo sudafricano non minimizza più, come aveva fatto nei primi tempi, i mutamenti che l'agonia del colonialismo portoghese ha provocato nell'assetto politico e militare di questa parte del continente. Ancora alla fine di giugno, il primo ministro Vorster sembrava deciso ad evitare qualsiasi allarmismo: gli avvenimenti che si svolgono nei territori dell'Africa portoghese, diceva pressappoco, erano stati previsti, e comunque non destano preoccupazioni. Ma oggi quel tono distaccato, l'atteggiamento di sicurezza con cui il gruppo dirigente afrikaaner cercava di placare le inquietudini che serpeggiano nel Paese e fuori (e già si manifestano con «segni» inequivocabili: : consolati europei a Johannesburg e Capetown affollati di immigrati recenti che cominciano a studiare l'eventualità d'un rientro; una stagnazione improvvisa degli investimenti occidentali), non sono più possibili. Alla Camera Quando l'altra mattina alla Camera, un deputato dell'opposizione ha accusato il governo di «star creando una psicosi di guerra» con la sua spettacolare corsa agli armamenti, il ministro della Difesa Piet Botha è balzato dal suo banco: « Solo un pazzo o un traditore », ha gridato in modo che il Financial Mail ha definito "isterico", « può chiudere gli occhi dinanzi ai pericoli che il Sudafrica si trova a fronteggiare in questo momento della sua storia ». Tali pericoli sono vicini, gravi? Se bisogna valutarli sulla base del nuovo bilancio della difesa (presentato in Parlamento alla vigilia di ferragosto), la risposta è sì. Gli stanziamenti per le forze armate di Pretoria sono aumentati quest'anno del 55 per cento, passando da 481 a 702 miliardi di lire. Un diagramma pubblicato dalla stampa economica mostra l'impressionante progressione che le spese militari hanno conosciuto negli ultimi quattro anni. 220 miliardi di lire nel 1970, 280 nel '71, 335 nel '72, 481 (con un aumento di circa il 40 per cento) nel '73. Quest'anno l'incremento è stato, come abbiamo visto, ancora più massiccio, e ormai la spesa militare costituisce il 17 per cento dell'intero bilancio. Forse solo l'Iran di Reza Pahlevi è lanciato in un'operazione di rafforzamento bellico come questa. La prima evoluzione del processo politico portoghese (a Lisbona e nelle colonie) aveva suscitato qui non poche speranze. Sino all'inizio di luglio, infatti, il generale Spinola era parso reggere con mano forte le redini del post-salazarismo. A Lisbona si delineava un progetto moderato avente per obbiettivo un governo di centro o addirittura di centrodestra, e intanto le possibilità d'una decolonizzazione effettiva in Angola e in Mozambico si facevano, col passare delle settimane, più incerte e lontane. Spinola, sulla cui linea s'erano subito cristallizzati interessi economici e strategici (Nato, Pentagono) importanti, non intendeva procedere — salvo che in Guinea — a un immediato e completo passaggio di poteri dall'amministrazione portoghese ai movimenti nazionalisti africani. Non in Angola dunque (dove tre formazioni di guerriglia divise da rivalità profonde esercitavano una pressione militare facilmente contenibile), ma neppure in Mozambico dove il Frelimo occupava sul terreno solide posizioni. I piani di Spinola erano infatti altri: condurre alla trattativa, a un compromesso, i movimenti dì liberazione, invischiarli in coalizioni di governo dove fossero presenti sia i bianchi sia gruppi africani di tendenza conservatrice, garantire a Lisbona (e all'Occidente) un qualche controllo dell'Africa australe. Ma il calcolo del generale di cavalleria era frettoloso, errato. Alla metà di luglio si verificava quello che ormai viene definito il « secondo golpe » dei capitani, e cioè il rigetto da parte degli autori del putsch di aprile della manovra moderata di Spinola. Ne seguiva un'entrata in forze di questi ufficiali nel governo e nei governatorati africanì, e il rilancio del programma di decolonizzazione « totale » che era stato alle origini della sollevazione militare. Da allora il quadro è profondamente mutato. Cer ■ to, la tensione nei ranghi dell'esercito portoghese non è del tutto spenta, e l'ipotesi d'una "reprise en main" da parte di Spinola non si può ancora escludere. Ma cosi come si presenta sulla carta, la vicenda dell'impero portoghese in Africa sembra conclusa: un governo del Frelimo in Mozambico è cosa che potrebbe essere già fatta tra pochi mesi, e se in An- gola i portoghesi possono rallentare la loro uscita dalla scena (intanto badando a salvaguardare per il futuro almeno una parte degli enormi interessi economici che hanno in questa colonia ricchissima), è quasi certo che anche l'Angola sarà tra non molto tempo, mettiamo due o tre anni, un Paese indipendente. I guerriglieri Quali conseguenze polìtiche e militari avrà allora per il Sudafrica l'esistenza sui suoi confini di due Paesi appena ìisciti da un decennio di lotta anticolonialista, da una guerra di guerriglia che in Mozambico (ma anche in Angola, almeno per quel che riguarda l'Mpla) ha avuto connotati ideologici tra marxisti e marxisti-leninisti? Due Paesi che andranno a collocarsi alla sinistra dello schieramento dell'Oua (l'organizzazione dell'unità africana), tra quegli Stati che da più tempo e con più passione si battono per la fine dei « regimi bianchi » nel continente? In linea con l'atteggiamento del suo governo (per il quale i problemi strategici dell'Africa australe non sono solo sudafricani, ma tali da coinvolgere il sistema difensivo occidentale), il capo di stato maggiore ammiraglio Bierman tenta una risposta "globale". « Se in Angola e in Mozambico », ci dice nel suo ufficio di Capetown, «verranno fuori dei governi comunisti, le difficoltà non saranno esclusivamente nostre. Purtroppo i governi occidentali sono così occupati nelle crisi periferiche, locali, da perdere la visione d'insieme: da non rendersi conto di come sia vitale il controllo dell'Oceano Indiano, della rotta del petrolio, che passa da qui, sulle nostre coste, ormai da sette anni, e vi passerà ancora appena un'altra crisi del Medio Oriente porterà di nuovo alla chiusura del Canale di Suez. Ma io confido che i militari, nei vari stati maggiori dell'Occidente, si rendano conto della situazione ». « Quanto ai problemi più direttamente sudafricani », prosegue l'ammiraglio Bierman, « quello che posso dire è che noi vorremmo avere buoni rapporti con i nostri vicini. Tuttavia, siamo pronti a tutto: se il Mozambico o l'Angola diverranno i "santuari" d'una guerriglia contro di noi, la risposta sarà severa. Il nostro armamento, le lezioni tattiche e organizzative che abbiamo ricavato da questi dieci anni di guerriglia contro i portoghesi, la nostra forza economica e industriale sono tali da consentirci d'essere tranquilli. Né ci spaventa l'idea che una pressione armata sulle frontiere possa innescare un'ondata di terrorismo interno: la nostra polizia, la dislocazione delle unità dell'esercito, la struttura delle formazioni di commandos volontari servono a far fronte anche a questa eventualità ». V ottimismo « d'ufficio » del capo di stato maggiore è comprensibile: sebbene in una recente conversazione alla radio Bierman abbia ammesso che « mai, nella nostra storia nazionale, tanti avvenimenti diversi hanno creato un tale impatto potenziale sulla sicurezza del Paese », sarebbe assurdo che il capo delle forze armate si mostrasse allarmista. Così, per avere una idea più precisa delle inquietudini con cui il Sudafrica guarda all'avvenire, bisogna cercare altri interlocutori magari più « tecnici »: per esempio il generale Robbertze, direttore dell'Istituto di studi strategici di Pretoria. « E' difficile stabilire », ci spiega Robbertze facendo scorrere l'indice su una grande carta geografica, « se sia il Mozambico, o l'Angola, a rappresentare il maggior pericolo potenziale. Le distanze dall'Angola sono enormi perché tra le sue frontiere e quelle vere e proprie del Sudafrica c'è di mezzo il territorio del South West Africa. Ma la presenza nel Southwest, già oggi, d'un piccolo movimento terrorista, il Swapo, potrebbe fare da trampolino a un'eventuale guerriglia: tanto più che la parte meridionale dell'Angola e il nord del South West Africa sono abitati dalla stessa etnia, i Quanhama, e si sa — lo abbiamo visto da oltre parti in Africa — come queste consanguineità possano favorire un movimento politico armato ». « Il Mozambico », contigua il generale, « ha invece i porti dove potrebbero sbarcare gli aiuti alla guerriglit, buone comunicazioni, e le distanze dai nostri confini sono minime: queste caratteristiche, nel loro insieme, sono molto preoccupanti. Ma l'interesse d'un eventuale governo Frelimo non è quello di rompere i rappor- ti economici col Sudafrica, salvo che esso e i suoi protettori non vogliano fare del Mozambico una specie di Cuba, un paese legato, per la sua sopravvivenza, agli aiuti comunisti. E' quindi possibile, almeno teoricamente, che il Mozambico riI nunci a fornire le basi d'una guerriglia contro di noi. Diverso è invece il caso della Rhodesia: un governo del Frelimo rappresenta per Salisbury la certezza d'una intensificazione della guerriglia sul proprio territorio ». Un peso morto La Rhodesia, sino a ieri alleato « naturale » del Sudafrica, è divenuta nella nuova prospettiva politica e strategica di Pretoria una fonte di disagio, un peso morto. Nella bella sala da pranzo del Parlamento di Capetown, tra una portata e l'altra di questi lunch robusti di ex agricoltori che sono una delle poche abitudini comuni fra il Transvaal e il Capo, tra gruppo afrikaaner e gruppo inglese (divisione niente affatto trascurabile nel quadro della nevrosi razziale dei sudafricani), l'onorevole Nicholas Olivier, deputato dell'United Party — il maggiore dei due partiti d'opposizione che fronteggiano in Parlamento il partito nazionalista dì tradizione e maggioranza afrikaaner — non nasconde il suo pessimismo. « E' noto », dice, « che il nostro governo sta facendo pressioni sui dirigenti rhodesiani perché giungano a un compromesso con la maggioranza africana, ciò che potrebbe togliere alla guerriglia nazionalista una parte della sua pericolosità. Ma se Smith dovesse irrigidirsi, se non troverà un accordo con i rappresentanti africani, noi dovremo assolutamente tenerci fuori dalla guerriglia in Rhodesia, evitare il rischio d'una escalation della nostra presenza militare, d'un Vietnam ». « Per conto mio », dice il professor Warral, deputato del partito di governo, « non solo bisognerà evitare il rischio d'un impegno militare in Rhodesia, ma anche stare attenti a non impaniarci in un programma di appoggio economico ». « Il fatto », conclude Olivier, « è che per la Rhodesia è ormai troppo tardi per invertire il corso degli eventi ». Preoccupato del suo proprio futuro, uno dei due «bastioni bianchi » in Africa tende quindi a mollare il più debole, o almeno a non lasciarsi coinvolgere in quella die viene vista come una caduta probabile del regime di Salisbury. E' un altro segno di come la nuova cornice politico-militare determinata dalla fine delle colonie portoghesi venga giudicata fragile, minacciosa. Naturalmente il problema del Sudafrica segregazionista non è, almeno per adesso, militare. Il suo deterrente bellico incute assai più timore di quell'esercito portoghese che nei primi Anni Sessanta affrontò la rivolta nazionalista nelle colonie. Il problema è psicologico, della fiducia, della fermezza della minoranza bianca di fronte a un eventuale deterioramento della situazione. Certo, il gruppo boero, con la sua «cultura del laager » (il laager era il cerchio formato dai carri entro il quale i pionieri si difendevano nelle guerre contro gli zulù), sembra pronto all'emergenza: a rendersene conto bastano poche battute nell'incontro più casuale. Ma l'emigrazione bianca degli ultimi vént'anni, e soprattutto quella più recente, non affronteranno certo con lo stesso spirito i pericoli che potrebbero comparire in futuro. Né, sicuramente, una guerriglia sulle frontiere lascerebbe immobile una situazione interna già molto tesa, vicina a un punto di frizione, dal continuo peggioramento dei rapporti tra minoranza bianca e maggioranza nera, tra gruppo dominante e masse sfruttate. Sandro Viola Johannesburg. Domenica mattina al campo sportivo di Crown Mines: anche qua vige rigorosa l'apartheid (Tel.)