Guerriglia sulle Apuane

Guerriglia sulle Apuane Una "corrispondenza di guerra,, trent'anni dopo Guerriglia sulle Apuane Nella "battaglia del Sagro", trecento partigiani si battono per sfuggire all'accerchiamento di diecimila nazifascisti che bruciano quaranta paesi - Audaci colpi di mano, scontri sanguinosi e la salvezza in un canalone tra i precipiti detriti di marmo Trentanni fa, come oggi, trecento partigiani della brigata Garibadi « Ugo Muccini », della « Lunense », del gruppo Contri, combatterono per quattro giorni e quattro notti sulle Alpi Apuane, senza mangiare e senza bere, contro diecimila nazisti e lascisti che misero a ferro e fuoco quaranta paesi uccìdendo, nei modi più efferati, tremila civili. Le stragi dell'agosto '44, XXII dell'era fascista, sono note: S. Anna di Stazzema, Forno di Massa. Vinca, Bardine dì S. Terenzo, Valla di S. Terenzo, Bergiola, Colonnata. E' rimasta quasi sconosciuta, invece, la « battaglia del Sagro », che fu uno dei maggiori episodi della Resistenza. Questa corrispondenza di guerra partigiana, pubblicata trent'anni dopo, nacque lassù, nell'ultima tragica notte quando per sfuggire all'accerchiamento i 220 partigiani superstiti si buttarono giù per un « ravanetto », un canalone colmo di secolari detriti di marmo, che precipitavano come micidiali proiettili su dì loro sotto i passi e sotto la grandine di bombe a mano lanciate dall'alto, da nazisti e fascisti. Era la notte sul 27 agosto quando con Rina, comandante del distaccamento « Luciano Righi », ci scambiammo questo proposito: « Se ne usciamo vivi, un giorno racconteremo quel che è costata la libertà. Forse sarà necessario... ». Ci sembra che, adesso, lo sia. I trecento partigiani, distribuiti in dieci distaccamenti, controllavano la zona tra Fosdinovo e Pallerone (Aulla), tagliata da una strada di collegamento fra la «linea gotica» e le retrovie nazifasciste. La vita con le popolazioni rispecchiava l'immagine (allora sconosciuta di Mao Tsetung: «Come pesci nell'acqua ». Dividevamo tutto con la gente: la poca farina, il pochissimo sale, la scarsa carne che ogni tanto ci capitava. Ma dividevamo, soprattutto, la farina di castagne che, in mancanza d'altro, costituiva per tutti l'alimento fondamentale. Le razzie Da molti giorni pattuglie di tedeschi razziavano bestiame nei paesi attorno a Magliettola, dove era accampato il nostro distaccamento. Poco lontano c'erano l'« Olivi » della brigata «Lunense» e il « Righi », appartenente alla brigata «Muccini» e comandato da Bulli (Nilo Garbusij, un sarzanese di gran coraggio che sarebbe morto, pochi giorni dopo, con quattro compagni mentre andavano a recuperare in una grotta armi e munizioni, indispensabili durante la battaglia del Sagro. I nazisti li accerchiarono, li colpirono a raffiche, poi li bruciarono vivi. Gli abitanti, allarmati dalle continue razzie, chiesero ai comandi partigiani d'intervenire per farle cessare. « No, po' ci sarebbe la rappresagli., u non potremmo resistere», risposero i comandanti. Ma le insistenze dei contadini V ■•ben "inta. Il 17 agosto aUe 10 30, il distaccamento « Olivi », co.nposto da partigiani carraresi, attacca un reparto tedesco di 12 uomini che, su un autocarro, razziavano bestiame a Bardine. Dopo le prime raffiche, accorrono in loro aiuto compagni del « Gerini »: il combattimento dura due ore e si conclude con l'annientamento dei nazisti. I partigiani hanno un morto e un ferito. Quarantotto ore dopo la rappresaglia compiuta da una compagnia tedesca. Incominciano a bruciare le case di Bardine. Dal nostro distaccamento partono il comandante Rina, armato di mitragliatore « Bren », Giuse (che aveva sedici anni, ora è avvocato a Sarzana) e Ri, con un fucile « 91 » e un mitra. Attaccano i tedeschi da una posizione propizia. Sparano per un quarto d'ora: i nazisti si ritirano lasciando sul terreno otto morti. II 20 agosto centinaia di SS e di fascisti ritornano a Bardine: questa volta portano 56 ostaggi prelevati nel carcere di Lucca, rastrellano gli abitanti di S. Terenzo ai Monti. Gli ostaggi vengono fucilati e impiccati con fil dì ferro a vigneti e paletti lungo la strada. Centoventi persone, in maggioranza vecchi, donne e bambini, sono abbattuti a raffiche nella Valle di S. Terenzo: si salvò solo una bambina di tre anni. All'alba del 24 agosto le nostre sentinelle udirono rumori di motori sulla strada sottostante Magliettola. Erano decine di autocarri che scaricavano migliaia di SS e di reparti delle «Brigate nere», della «Manierosa» e dell'«Italia», due divisioni dell'esercito repubblichino. Da quel momento s'iniziò uno dei più tragici rastrellamenti della Resistenza. Tutto il triangolo CarraraAulla-Monzone pullulava di diecimila tedeschi e fascisti che convergevano verso il massiccio del Sagro. Al centro erano attanagliati i trecento partigiani, con poche armi: due mitragliatrici «Breda 37», una delle quali chiamata « gamba di legno » perché aveva un paletto al posto d'un supporto di ferro del treppiede; quattro mitragliatori, mitra, Sten e molti fucili e moschetti 91 che si dimostrarono una manna. Le nostre munizioni erano: un centinaio di colpi a testa, duemila colpi per ciascuna mitragliatrice e ciascun mitragliatore, bombe a mano e plastico. Si parte in fretta, per tentare di « sganciarci ». Andiamo verso Campiglione, in direzione del Sagro, l'unica via di scampo. Le nostre pattuglie arretrate, composte di Ire-quattro giovani, proteggono la ritirata ingaggiando combattimenti continui. Il gruppo dì Orti, dalle parti dì Marciaso, fa meraviglie: in trenta inchiodano due battaglioni nazifascisti, per due ore. Poi si ritirano. A Cecina ci si ritrova con il distaccamento « Gerini ». Bulli, il comandante, dice che una sua pattuglia armata di « Breda 37», ha tentato per proprio conto un'altra via. La mitragliatrice ci sarebbe necessaria: parte con gli altri cinque compagni. Li ritroveranno carbonizzati, eccetto Gas che si salverà buttandosi a capofitto giù per una parete di roccia. Da lui apprendemmo come morirono i nostri compagni. Abita a Sarzana. Il sole è alto e picchia forte. Si cammina carichi come muli. Le pattuglie fanno continue azioni di disturbo. C'inseguono ì colpi di mortaio, ma l'avanzata nazifascista è ritardata. Vogliamo arrivare sul Sagro prima di notte, prima di loro. Abbiamo poche patate e gallette. Ci dissetiamo per l'ultima volta a Campocecina dove s'arriva che è notte fonda. C'è consiglio di guerra. I comandanti più anziani tentennano, ma prevalgono i giovani: « Andremo sul Sagro e là ci difenderemo sino all'ultimo ». Prepariamo i fuochi ben riparati per cuocere le patate che, assieme a poche gallette, saranno la nostra « ultima cena » per quattro giorni e quattro notti. Si mangia alla svelta e si riparte. Di notte i rastrellatori non si muovono: siamo esperti, ormai, dopo una ventina di rastrellamenti. Prima dell'alba dobbiamo essere sul Sagro. Altrimenti ci arriverebbero loro, di primo mattino. Si procede per canaloni impervi, ci arrampichiamo su pareti di terzo o quarto grado, nella notte buia, illuminata ogni tanto da razzi dei rastrellatori, dalla esplosione di granate di mortaio. Sparano anche i cannoni della Punta Bianca. Ma non ci acchiappano. Tentano solo di disorientarci. E' quasi l'alba del 25 agosto quando raggiungiamo il Sagro. Siamo stanchi. Piazziamo sui costoni le due mitragliatrici e i mitragliatori. Ci appostiamo in trinceroni naturali dai quali si domina il forte pendio verso Campocecina. Se avessimo rifornimenti potremmo restare quassù per dei mesi. Invece, siamo a terra come armi, munizioni e cibo. Non abbiamo acqua. Risulteranno preziosi i cardi di montagna, con la l^ro polpa protetta dalle spine: peccato che non ce ne siano foreste, sul Sagro... Sorge il sole. Trascorriamo un'ora tesa. Poi, d'un tratto, una raffica di « Mauser » batte fra noi e le rocce vicine. Schizzano schegge. Tedeschi e fascisti ci sono addosso. S'inizia il combattimento e i vituperati « 91 » si rivelano provvidenziali: gli «Sten» e i « mitra » restano silenziosi, per ora, serviranno nei combattimenti ravvicinati. Si combatte sino a mezzogiorno: il calore è quasi insopportabile, la sete terribile. Arriva trafelato Elio che, arditamente, è andato a perlustrare sopra Campocecina. « C'è un migliaio di tedeschi a portata di mano, raccolti sull'altipiano», dice. E' un'occasione da non mancare. Volontari Partono trenta volontari, tutti con armi automatiche. Manca l'entusiasmo per la stanchezza, la fame, la sete. La scabbia e i pidocchi ci torturano con quel sole. Ma si va lo stesso. Qualcuno non regge alla fatica, rimane distanziato. Arrivano in venti sul costone sopra Campocecina. Sui prati sottostanti, cento metri sotto, una folla di nazisti. Non c'è tempo per ragionare: venti armi automatiche, tra cui due « Bren », sparano contemporaneamente. Le bombe « Sipe» e al plastico fanno il resto. I tedeschi sono terrorizzati, fuggono da ogni parte, si appiattiscono a terra. A decine ci resteranno per sempre. L'azione dura pochi minuti. Poi via, strusciando col fondo dei pantaloni sulle rocce a picco. Rientriamo sul nostro costone, accolti da applausi. Le due mitragliatrici battono i gruppi tedeschi che si stanno riformando. Alle nostre spalle, dietro la vetta del Sagro (metri 1740), stanno salendo nazisti e fascisti. Per fortuna cala la notte. Trascorre abbastanza tranquilla, soltanto ì mortai e i cannoni della Punta Bianca e dei forti intorno a Montemarcello continuano a sparare contro di noi. Ma siamo ben defilati. Mandiamo in giro pattuglie per trovare una via d'uscita e, se possibile, per attingere acqua all'unica sorgente: è a Campocecina, dove sono i nazifascisti. E' impossibile filtrare sotto le raffiche continue dei mitragliatori. Così restiamo a bocca asciutta. Rientrano le pattuglie: « Niente da fare, siamo accerchiati ». Mancano già 22 compagni all'appello. Fame e sete Arriva l'alba del 26 agosto. Sono passate trentasei ore dall'ultima cena. Lo stomaco protesta, ma il morale è alto. La sete è atroce, le munizioni sono assottigliate e purtroppo le pietre non bastano, in questi casi. All'improvviso, c'investe una grugnitola di traccianti, poco sopra le nostre teste. Qualche caldaia è sforacchiata e sotto i colpi risuona come una campana. Capiamo subito quel che accade. Due reparti nazifascisti avanzano sulle creste laterali, sopra le cave, nella nostra direzione. Si alternano: mentre avanzano da destra, quelli di sinistra sparano raffiche di mitraglia contro di noi. E viceversa. Avanzano lentamente, ma avanzano. Forse pensano di farla finita con quei trecento dilettanti (ma ormai siamo 270) che li hanno tenuti in iscacco per tre giorni. Ora tentano l'assalto. Noi non spariamo per risparmiare i colpi. Ma siamo pronti. Quando arrivano a duecento metri, facciamo entrare in azione le due mitragliatrici e i quattro mitragliatori. Ma loro non cedono. Allora spariamo anche con i mitra, gli Sten e i moschetti «91». Lanciamo bombe a mano. Li blocchiamo. Disgraziatamente una nostra mitragliatrice, azionata da maestro da Lepre, s'inceppa. Mancano, in tutto, una cinquantina di compagni dall'inizio della battaglia. Sono le undici del mattino. Solo adesso ci accorgiamo, presi come siamo dal combattimento, che duecento nemici, sulla nostra destra, stanno salendo verso la vetta del Sagro. Se riuscissero nel loro intento saremmo spacciati: da lassù farebbero il tiro a segno, con poche bombe a mano ci liquiderebbero. Subito parte una squadra partigiana con due mitragliatori. Tenta la scalata della vetta che, dalla nostra parte, è quasi a picco. Sono tutti carraresi, giovani in gran parte cavatori. Arrampicano rapidi all'inizio, poi a fatica. Da sotto noi li incoraggiamo gridando, come in una gara sportiva. Devono per forza arrivare prima dei nazifascisti sulla vetta. Difatti ci arrivano, cinque minuti prima dei nemici. Non li vediamo più, ma sentiamo il ritmo inequivocabile dei lo¬ ro mitragliatori. Anche questa ci è andata bene. Da Carrara ci sparano addosso con i semoventi, da Fantiscritti con i cannoncini e i mortai. Ma i colpi cadono lontano. Ci disturba il loro echeggiare cupo nei canaloni. Attorno, dalle valli, salgono colonne di fumo: sono i paesi che bruciano, dentro le case incendiate muoiono arrostite centinaia di persone. A Vinca fanno strage: sapremo più tardi, che ne uccisero 560. Alle donne incinte aprirono il ventre con le baionette. Ci sorvolano due aerei tedeschi. Temiamo un attacco, invece dopo qualche volteggio s'allontanano. Poco dopo, in compenso, appaiono due cacciabombardieri alleati. Ci daranno una mano con qualche bomba? Faranno un "lancio"? Macché, fanno qualche acrobazia, ci salutano con le ali e si allontanano verso Viareggio. Le linee alleate sono oltre Pietrasanta. Sotto il sole vediamo luccicare, da quella parte: forse riflessi di cannoni e di carri armati. Saranno, in linea d'aria, a quindici chilometri da noi, ma è come fossero a mille chilometri: ce la dobbiamo vedere da soli. I tedeschi ci attaccano di continuo. Ci difendiamo a colpi di moschetto: muoiono altri compagni. Siamo così stanchi da non capire più nulla. Sono ore interminabili. Alcuni crollano sotto la fatica, sono sfiniti. Aspettano il loro destino senza possibilità di reagire. Tramonta il sole in pianura, ma quassù batte ancora. I nostri tengono la vetta del Sagro, ma ormai per poco. Non hanno più colpi: sono rimasti in dieci, di trenta che erano al momento della gara con i tedeschi per conquistare la cima. Gli altri sono morti o feriti. Finalmente arriva il buio. C'è un po' di luna, ma anche qualche nuvola che, ogni tanto, la nasconde. Non possiamo più resistere. I comandanti decidono di tentare l'unica via possibile: lanciarci giù nel « ravanetto » che precipita su Colonnata. Sembra un suicidio, ma non c'è altra strada possibile. "Ravanetto,, In fila indiana, « passando la voce » di far silenzio, ci prepariamo all'impresa. Forse non arriveremo vivi laggiù. Sul posto rimane una pattuglia con la mitragliatrice: ci seguirà più tardi. Per quanto si faccia attenzione a non smuovere i detriti di marmo, la discesa diventa subito drammatica. Molti nel buio ruzzolano, grossi massi precipitano su di noi, ferendo qualcuno, ma potrebbero anche uccidere. Sentiamo il ritmo della mitraglia per un po'. Poi tace. Continua la tragica discesa. Le gambe si piegano, non resistono allo sforzo. Le suole, già rovinate, saltano via dagli scarponi. Ci troviamo in molti a piedi nudi, sui sassi di marmo con le punte aguzze. Ci fasciamo i piedi con le camicie. Come Dio vuole, arrivia-no in fondo al «ravanetto». Troviamo una pozzanghera d'acqua che emana l'odore inconfondibile dell'orina di pecora. Beviamo avidamente, prosciughiamo tutto. Siamo 220 compresi i feriti trasportabili. Si trova un sentiero, ma per arrivarci bisogna saltare un fossato tra le rocce. Sarà largo due metri: chi sbaglia si sfracella nel burro¬ ne sottostante. Uno alla volta si supera l'ostacolo. Ora si procede meglio sul sentiero. Si va verso Colonnata, che non vediamo dietro la curva della valle. E' come camminare in un gran pozzo di rocce con quella sola uscita: Colonnata. Dietro la curva, un'amara sorpresa. Colonnata è in fiamme, tra i bagliori scorgiamo i nazisti, udiamo le loro voci dure. Dal Sagro ci arrivano gli echi delle cannonate che esplodono ancora. Ci troviamo in fondo al pozzo, non ci resta che tentare la scalata d'una parete rocciosa, alla nostra destra. Siamo distrutti di fatica e di fame. Lo sforzo è immane, molti hanno il fisico stroncato. Si buttano per terra: occorre molta persuasione e, infine, la forza per farli rialzare. Arrampicniamo a stento, aggrappandoci con le mani ai ciuffi d'erba. Le armi c'impacciano; buttiamo via le coperte, gli zaini, ogni peso, tranne le armi, le cassette anche vuote di munizioni e le caldaie. Penosamente arriviamo sul crinale, discendiamo un canalone e ritroviamo la prima vegetazione. Ma, in mezzo ai castagni cedui, sbattiamo contro un accampamento tedesco. Distinguiamo nella notte tre sentinelle, udiamo le loro voci. Siamo sicuri che ci abbiano visto. Ci nascondiamo in attesa. Invece, nulla accade, non sappiamo perché. Sgattaioliamo via; ormai è quasi l'alba. Si cammina ancora due ore, forse tre. Infine troviamo un folto ceduo di castagni e felci. Prima di cadere sfiniti, udiamo il gorgoglio dell'acqua. E' una sorgente fresca. Dietro le Apuane continuano a salire colonne di fumo. Lamberto Fumo