In nome della legge

In nome della legge NIXON E L'EQUILIBRIO DEI POTERI In nome della legge L'affare Watergate ha confermato la validità della più antica Costituzione del mondo; la supremazia della legge sulla ragion di Stato; l'autonomia della giustizia Istintivamente, mi son messo a rileggere Montesquieu. Nelle pagine immortali dcllu Spirilo delle leggi, vecchie di più di due secoli, mi è parso di trovar prefigurato il dramma che si è svolto in questi giorni dinanzi ai nostri occhi sulla scena americana. Là, il paradigma della separazione dei poteri; qui, la sua prova d'appello. A Montesquieu si erano ispirati i Padri Fondatori della Costituzione americana: tre poteri nello Stato, rigidamente divisi, reciprocamente indipendenti, ma, per loro inevitabile connessione, «costretti ad andare d'accordo». Questa volta non sono andati d'accordo affatto. Il conflitto non poteva essere più clamoroso. Qualcuno doveva risolverlo: chi? Nixon si arroccava dietro al privilegio dell'Esecutivo: un nome moderno per una cosa antica, la ragion di Slato invocata da tutte le tirannie. Smantellare quel privilegio sarebbe spettato ai rappresentanti del popolo, al potere legislativo: ma come incriminare un uomo per un reato senza averne in mano, palesi, le prove? Dunque, il momento cruciale del dramma fu la sentenza del¬ la Corte Suprema. Eppure, la Corte Suprema non ha giudicato il Presidente. Si è limitata anch'essa a riaffermare un principio che sta al centro di tutta la tradizione giuridica e politica dei Paesi anglosassoni e che ne illumina l'intero sviluppo storico:_il principio dell'assoluta supremazia del diritto, della Legge, su tutti i componenti del corpo politico, dal re (o dal presidente) al più umile cittadino. Nessun privilegio dunque, nessuna immunità, neppure per il titolare della più alta carica dello Stato. E' in conseguenza di quella sentenza che Nixon non ha più potuto celare ulteriormente la prova della sua colpevolezza. Rex non debet esse sub homine, sed sub Deo et sub Lege: quia Lex facit Regem. «Il re non deve essere soggetto agli uomini, ma a Dio e alla Legge: perché è la Legge che crea il Re». Queste parole del celebre giurista inglese Bracton non erano forse, al tempo in cui le scriveva, in disaccordo con la comune dottrina giuridica dell'età di mezzo. Ma in Inghilterra, e successivamente in America, il principio che esse sancivano ebbe una parte emi¬ nente nel foggiare le istituzioni e la prassi dei regimi costituzionali che vi prevalsero, e che furono poi variamente adottati nelle nazioni moderne. In nome di esso venne combattuta una guerra civile, venne decapitato un sovrano, deposto un altro, e proclamata l'indipendenza di un vasto dominio coloniale. In nome di esso ancora venne impedito il diffondersi, al di là della Manica, della dottrina opposta, quella del sovrano legibus solutus, superiore alle leggi, fondamento dei regimi assolutisti e dittatoriali. Sono questi gli echi lontani del dramma di questi giorni. Rievocarli non vuol essere sfoggio d'inutile erudizione. Le istituzioni che ci reggono sono materiate di storia e soltanto in una prospettiva storica si possono intendere appieno. Queste e molte altre, le riflessioni che s'affollano alla mente di fronte a questo singolare Ei fu, in un momento in cui ancora una volta la storia sembra volerci prender per la gola. Riflessioni anzitutto sul destino tanto diverso delle istituzioni democratiche del vecchio e del nuovo continente. Questo presidente che appe- na due anni fa era stato eletto da una maggioranza popolare senza precedenti nella storia americana, e che ora è minacciato della più ignominiosa degradazione per opera degli stessi rappresentanti del popolo; quel Parlamento, quelle Camere in cui le divisioni di partito si attenuano fino a cancellarsi nell'impresa comune di difesa della Costituzione; infine, quel tribunale supremo, di nomina presidenziale, i cui giudici all'unanimità pronunciano una sentenza che inevitabilmente prelude alla rovina del presidente stesso: quante cose strane e inconsuete agli occhi di noi continentali, che pur dovremmo saperne trarre qualche utile lezione! Ma tra queste impressioni ce n'è una che predomina su tutte le altre: ed è lo sbigottimento che incute la rivelazione della precarietà del potere: quello sbigottimento che trovava espressione un tempo in certe parole insieme accorate e gioiose: Deposuit potentes de sede, et exaltavil humiles. Giustamente è stato osservato che il presidente americano, non appena eletto, impersona un'autorità carimastica quale forse non esiste più oggi in nessun'altra società politica, in nessuna nazione. Forse è proprio per questo che il crollo di quella autorità ci appare più portentoso. E forse è anche questa la ragione per cui, per mandarlo ad effetto, è occorsa, come in lontani tempi passati, una vera e propria desecrazione. Come non ricordare, a tal proposito, il dramma di un altro Riccardo, che ispirò la penna impareggiabile di Shakespeare? Chissà che in questa ora, per lui tremenda, Riccardo Nixon non ricordi proprio quel dramma, e ripeta col re Riccardo II: «Togliermi potete lo scettro e la gloria, ma non la mia pena: di questa sono il re». A. Passerin d'Entrèves

Persone citate: Nixon, Passerin, Riccardo Nixon, Shakespeare

Luoghi citati: America, Inghilterra