Il vero Nixon di Aldo Rizzo

Il vero Nixon Il vero Nixon Negli Anni Cinquanta, prima che divenisse il vicepresidente di Eisenhower, lo chiamavano «Tricky Dick»: «Dick dei trucchi » o « Dick bidone ». Al di là dei suoi demeriti, era già per moki americani l'immagine stessa della « non credibilità ». Nel 1968, durante la campagna presidenziale contro Humphrey, i suoi avversari diffusero un manifesto col suo volto scuro, mal rasato, e la domanda: « Comprereste da quest'uomo una macchina usata? ». Aveva già perso, otto anni prima, le elezioni presidenziali contro Kennedy: per poco più di centomila voti, su 68 milioni di elettori, ma non aveva mai dato l'impressione di poterle vincere. Theodore White, il giornalista che inaugurò quell'anno la sua celebre serie d'inchieste sulle elezioni presidenziali americane, annotò che, nel corso della campagna, « pareva proprio uno che avesse perduto la sua battaglia nella vita». E quando il risultato fu noto, un suo consigliere, deluso, disse che « probabilmente Dick non è mai stato tagliato per fare il primo attore ». Due anni dopo, era stato battuto persino da Pat Brown, un democratico di provincia, nella corsa al governatorato della California. E aveva dato sfogo a un altro lato del suo carattere, l'autocommiserazione. Annunciando ai giornalisti il suo ritiro dalla vita politica, disse: « Non avrete piti un Richard Nixon da prendere a calci ». Però, nel 1968, vinse nettamente la gara con Humphrey, diventando il trentasettesimo Presidente degli Stati Uniti, e James Reston, sul Neiv York Times, scrisse che si era dato il più clamoroso caso di resurrezione dopo quello di Lazzaro. Walter Lippmann parlò di « un nuovo Nixon, più maturo e comprensivo ». E cominciarono, quando nessuno più se li aspettava, gli anni d'oro L'America di Nixon in un mondo nuovo, il mondo di Nixon. Nixon a Pechino, il più grande spettacolo dell'ultimo quarto di secolo, pari soltanto alla discesa di Armstrong sulla Luna (un'altra data storica nel calendario di Nixon). La fine della guerra del Vietnam, l'America finalmente fuori dal « tunnel ». E anche Nixon a Mosca, ospite di Breznev, mentre cadevano le ultime o penultime bombe americane su Hanoi. E la polemica interna degli States sopita, se non cessata, dopo i lunghi, drammatici clamori dell'età di Johnson. La svolta Da « Dick dei trucchi » a « Dick dei miracoli ». Un Presidente che cambiava il corso della storia. La rielezione trionfale, l'uomo dal quale « non si sarebbe comprata una macchina usata » confermato alla Casa Bianca da una «landslide », da una valanga elettorale senza precedenti. E poi, improvvisamente come erano venuti, gli anni d'oro, i giorni d'oro finirono. La lenta, inesorabile « escalation » del caso Watergate, e l'opinione pubblica americana che ridiventava progressivamente un mostro ostile, implacabile. Stewart Alsop, che era un suo sostenitore di vecchia data, si chiese quale fosse l'animalesimbolo che potesse riassumere l'imprevedibile declino del Presidente più votato della storia americana, e trovò che fosse l'asino. E' « asinina », scrisse su Newsweek, la strategia che lo ha portato a dilapidare un patrimonio politico immenso. Altri giudizi, i più numerosi, investivano la stessa personalità morale del Presidente. Nixon ridiventava, come vent'anni prima, l'immagine della «non credibilità». Di nuovo, « Tricky Dick». Dei molti volti che Nixon ha mostrato nel corso di una carriera straordinaria e sconcertante, qual è quello vero? Chi è veramente Richard Milhous Nixon? La sua biografia, nel bene e nel male, è quella ufficiale, la sua immagine privata o umana è prò blematica, per molti aspetti indistinta. Si sa che è un solitario, che ha pochissimi amici e forse nessuno in senso stretto. Quand'era senatore, lavorava tutto solo in una stanza del Campidoglio, la sua segretaria era in un altro ufficio, due piani più giù, e il suo « staff » era addirittura in un altro edificio. I suoi colla¬ boratori di allora lo ricordano come un introverso. Secondo uno di essi, Nixon « semplicemente non riusciva a chiedere a chicchessia di dargli una mano », non chiedeva consigli e aiuti che non fossero tecnici. Era anche di umore instabile e nascondeva un'insicurezza di fondo con atteggiamenti duri, a volte arroganti. Un timido Theodore White, seguendolo nella campagna presidenziale del 1960, scrisse che il suo principale problema era quello di comunicare col prossimo. Ci riusciva solo quando si sentiva in un ambiente favorevole. Se doveva confrontarsi con un uditorio critico o anche con un singolo contraddittore, la sua sicurezza finiva di colpo ed egli arrivava a dare di sé un'immagine persino patetica. Famoso è il disastro in cui si risolse, per lui, il confronto televisivo con John Kennedy. Mentre questi « era, almeno apparentemente, calmo, tanto da sembrare privo di nervi », Nixon appariva « teso, quasi spaventato, di tanto in tanto rianimandosi in maniera febbrile, in altri momenti sembrando come roso da una malattia ». Ci fu un istante in cui « sembrò sul punto di crollare, il volto rigato di sudore, lo strato di Lazy Shave sulle guance, le occhiaie piene di ombre, e guance e mandibole e il volto intero cascanti di fatica ». E tuttavia dietro questo temperamento labile, c'era una volontà di ferro e un fortissimo desiderio di potere, del quale amici interessati potevano approfittare e al quale egli stesso poteva cedere. Il desiderio di potere, allora, era spiegato con gli otto anni di vicepresidenza, all'ombra carismatica di « Ike » Eisenhower. La vicepresidenza è solo una parvenza di potere, un lungo supplizio di Tantalo: c'è chi si accontenta della parvenza e chi ne soffre. Ma c'era forse un'altra spiegazione, ed era nell'infanzia povera di Richard Nixon, nel suo lungo e faticoso tentativo di emergerne, nel senso di rivincita sociale che lo aveva sempre accompagnato e che lo aveva portato, per esempio, a prediligere, sul piano personale, l'amicizia di uomini ricchi e « arrivati ». Nixon è nato, sessantun anni fa, in una famiglia californiana relativamente prospera, ma l'azienda paterna fallì: egli alternò i primi studi col lavoro a una pompa di benzina, secondo di cinque figli. Le prime tappe della sua ascesa sociale, che s'identificava con la carriera politica, furono segnate da un desiderio di sentirsi in sintonia con gli umori correnti, dal timore di ricadere nell'isolamento e nell'« estraneità » dal mondo che conta. E' possibile che queste, insieme ad altre, siano le radici lontane del suo famoso realismo o pragmatismo. Sta di fatto che, giovane deputato, fu con Joseph McCarthy nella famigerata « commissione per le attività anti-americane », quando la psicosi del comunismo era diffusa nella moltitudine degli americani medi (nel comunismo Nixon mostrava di avversare, più ancora che un'ideologia totalitaria, un sistema che mortificava la corsa sociale, le faticose ma eccitanti scalate individuali al successo). Ma se ne allontanò, convertendosi a visioni più equilibrate e « liberali », quando queste prevalsero nel partito repubblicano. Chiamato da Eisenhower alla vicepresidenza, tuonava ancora, nel 1954, contro la prospettiva di una vittoria del partito democratico nelle elezioni legislative, sostenendo che essa avrebbe « avviato l'America lungo la sinistra strada che porta al socialismo »; ma cinque anni dopo era a Mosca, ospite di Kruscev, col quale ebbe, in uno « stand » di una mostra americana, un battibecco memorabile, che fu, tutto sommato, uno dei primi episodi della distensione. Era opportunismo, ma di alto livello, o almeno tendeva sempre più a essere tale. Se ne ebbe una prova clamorosa dopo la « traversata del deserto », il lungo esilio dalla politica attiva seguito alla sconfitta nazionale del 1960 e al disastro californiano del 1962. Già portare a termine la traversata fu un'impresa di tutto rispetto. Lo aiutò, certo, il fallimentare tentativo dei re¬ pubblicani di contendere, con Barry Goldwater, della destra estrema, la presidenza a Lyndon Johnson. Ma Nixon aveva appoggiato Goldwater, poteva dunque essere considerato coinvolto nel suo « fiasco ». Invece, a poco a poco, Nixon riuscì ad apparire ai repubblicani come il solo uomo capace di far superare al partito il trauma della disfatta del 1964, ricomponendone l'unità e rinverdendone le « chances » di successo. Quando, P8 agosto 1968, la Convenzione repubblicana di Miami Beach lo designò candidato, un'altra volta, alla presidenza degli Stati Uniti, la traversata era conclusa, e Nixon era pronto a interpretare, ora non più in senso deteriore, il « mood » generale del Paese. Lo fece da conservatore, qual è sempre stato, ma con spirito creativo, con l'atteggiamento di chi vuole trarre la lezione dei fatti. I fatti erano che l'America viveva da almeno due anni una grave crisi, a causa del Vietnam, e ne era sempre più stanca. Mai, dal tempo della guerra di Secessione, una lacerazione così profonda aveva diviso la società americana, il Vietnam aveva funzionato da detonatore di squilibri e tensioni che prima erano latenti, aspettando il momento di esplodere. La lezione che Nixon ne trasse fu che era necessaria, anzitutto, una pausa nella polemica, che bisognava « abbassare la voce », e poi che occorreva prendere atto del mondo che cambiava, dei rapporti internazionali che si facevano più complessi e articolati, fuori dei vecchi schemi del confronto tra il « mondo libero » e un mondo comunista compatto e aggressivo. Così l'uomo della guerra fredda, il campione dell'anticomunismo isterico, annunciò agli americani il passaggio dall'età della « confrontation » all'età del negoziato. L'alleato Aveva anche l'uomo giusto per tutto questo, un uomo nuovo, almeno per il grande pubblico: il professor Henry Kissinger, di Harvard. Come avesse fatto a scovarlo e a capirne l'importanza e il valore, lui che non aveva mai frequentato gli intellettuali, è una domanda che tutti si posero. Eppure è un fatto che Kissinger era stato cooptato nel clan di Kennedy, il protettore delle « teste d'uovo », senza che qualcuno sospettasse del suo straordinario talen¬ to diplomatico. Ancora più sorprendente è che Nixon e Kissinger, essendosi incontrati, riuscissero a convivere, e con reciproco profitto. A questo punto, ancor più dopo la trionfale rielezione del 1972, il problema per Richard Nixon era se sentirsi pago e sereno, finalmente, o se i motivi di diffidenza verso il mondo esterno e d'insicurezza e d'instabilità dentro se stesso fossero ancora presenti. Il patrimonio politico accumulato era enorme, l'uomo che era stato l'immagine della « non credibilità » era diventato uno dei capi americani più seguiti e ammirati, pur se non amati. Ma l'esperienza doveva dimostrare che era impossibile, per il « nuovo » Nixon, dimenticare il « vecchio ». L'eredità di una psicologia e di un costume politico acquisiti negli anni duri della « scalata » doveva farsi sentire in maniera netta: il che appariva tanto più sconcertante in quanto era ormai gratuito, non più necessario, neppure nei termini di una spregiudicata « Realpolitik ». Così, la persistente diffidenza verso lo stesso mondo politico americano lo indusse a circondarsi di una schiera di pretoriani, di tecnici del sottopotere, neppure sempre fedeli, come succede con i pretoriani. Il senso della segretezza si trasformò via via in un'ossessione, oltre i limiti consentiti da un sistema «aperto» e democratico, come doveva ammettere un uomo onesto, che era o era stato suo amico, il segretario di Stato William Rogers. Il « privilegio » dell'esecutivo fu interpretato in misura sempre più ampia, fino ad assumere l'aspetto di una sfida esplicita agli altri poteri costituzionali. E il tutto senza neppure il sostegno di una strategia ben definita, quale che fosse, ma come il frutto, piuttosto, di una insicurezza di fondo, di una tattica improvvisata, che cumulava la volubilità con la tenacia, l'autocommiserazione con l'arroganza. E l'insicurezza cresceva, via via che lo scandalo montava, superando largamente i limiti del caso Watergate, per investire la stessa persona del Presidente, le sue amicizie, la sua moralità di cittadino. Il secondo mandato presidenziale diventava una corsa disperata per impedire il fallimento, mentre la solitudine, che egli aveva insieme amato e temuto, era una drammatica, definitiva realtà. Aldo Rizzo