Chi è Ford, il successore

Chi è Ford, il successore Il nuovo, trentottesimo titolare della Casa Bianca Chi è Ford, il successore "Il buon vecchio Jerry" raccoglie un'eredità difficile, ma con prospettive di successo - Sessantenne, tre figli, molto religioso, tutti gli riconoscono le virtù del galantuomo - E' un conservatore moderato, un mediatore (Dal nostro corrispondente) Washington, 8 agosto. Due elefantini di terracotta in giardino (il simbolo del partito repubblicano), la bandiera alla finestra del primo piano, un passato di solida middle class, giocatore di football, boy scout, timorato di Dio: il 38° Presidente degli Stati Uniti, il primo a succedere a un Presidente dimissionario, non sarà un genio della polìtica, ma porta alla Casa Bianca una dote di cui si sente gran bisogno, l'onestà. Gerald Ford, 60 anni, tre figli, incarna le quiete virtù dell'America rurale, senza i bagliori luciferini della Cali¬ fornia nìxoniana, senza la raffinata intelligenza della «New England» kennediana. La sua storia politica è una storia dì apparato, pur nella blanda accezione americana, di una vita condotta all'ombra dei politicanti in fiore, in quelle seconde linee che, da sempre, fanno la forza di ogni organizzazione. Nato a Omaha, Nebraska, non esattamente l'Atene del Nuovo Mondo, Ford conobbe buone scuole, buoni ambienti, un dignitoso benessere. Giocò a football in una delle squadre più forti d'America, all'università del Michigan, e nella squadra reggeva, singolare premonizio- ne, il posto più duro e oscuro, il «centro». Centrista dunque fin dal campo di football, Ford fu repubblicano per scelta naturale, non è uomo da travagli ideologici. Alla Camera entrò a 35 anni, per il distretto del Michigan, e da allora sedette ininterrottamente nelle file del Grand Old Party, i repubblicani. Si definisce «un conservatore costruttivo», ma le cronache dei voti parlamentari mostrano molti segni del suo essere conservatore, assai pochi dell'atteggiamento costruttivo. Nei grandi appuntamenti legislativi (assistenza pubblica, leggi razziali, scelte di politica estera) Ford si è sempre schierato con i frenatori e per questo la sua figura alla Casa Bianca conforta oggi l'America «non nera, non giovane, non povera» che votò Nixon e si sente, non a torto, defraudata due volte. Presidente del gruppo parlamentare repubblicano, posto dove si deve saper sedare, sopire gli umori, il nuovo capo dello Stato americano raccolse l'unanime affetto di amici e avversari. Fedele come amico, non troppo pericoloso come avversario, Ford è il genere d'uomo di cui tutti parlano bene, ma con un sorrisetto di sufficienza: «Oh, the old good Jerry», il vecchio buon Jerry. E intanto è Presidente. Cercare una linea ideologica, un indizio di travolgente pensiero politico in lui è impresa disperata, ma questo hanno voluto i segreti disegni della storia: un uomo «medio» dopo troppi, fatali uomini «del destino». Ieri, mentre le voci delle dimissioni sconvolgevano Washington, Ford si è chiuso in una stanzetta del Congresso con il suo successore in Parlamento, Rhodes, per una «seduta di preghiera». Lo fa da 25 anni, tutte le settimane, ma ieri con particolare intensità. Per chi ha pregato? «Per il Presidente e la nazione». Crede in Dio, nell'ordine, nella legge, nelle tradizioni. Porta un amore incondizionato per tutto quanto sa di americano, il golf, il cattivo gusto nell'arredamento, il cottage cheese, una specie di ricotta che lui mangia cosparsa di salsa ketchup. E' anche sanissimo, dunque, nonostante una famosa e feroce battuta di Lyndon Johnson, che diceva sogghignando: « Ford? Ha giocato molto football, ma senza portare il casco». Altri al suo posto, distanti dalla presidenza solo «un battito del cuore » (di Nixon), avrebbero forse brigato per accelerare i tempi di una successione che da mesi appariva ovvia. Non Ford. Dal giorno in cui Nixon lo chiamò al posto di Spiro Agnew (il vicepresidente dimissionario), egli ha tenacemente sbagliato i suoi interventi pubblici, mostrandosi fedele al boss quando avrebbe dovuto punzecchiarlo, criticandolo quando era il momento di serrare le file. E questo lo ha reso popolare, perché umano, perché vittima di quelle fluttuazioni d'umore che distinguono noi, uomini della strada, dai colossi della politica. Soltanto una settimana fa, pur dopo il voto della Commissione giustizia, Ford insisteva ancora sulla innocenza di Nixon. Il Washington Star News, giornale super-repubblicano, titolò allora un editoriale «Shut up, Jerry», stai zitto Jerry, non partire con il piede sbagliato. Lo aspetta un compito tremendo. Da Nixon eredita un Paese stravolto da due anni di guerra civile politica; una economia trascurata, dove la gramigna dell'inflazione e della disoccupazione è cresciuta rigogliosa per l'assenteismo forzato di Nixon; una politica estera piena di potenziali trionfi ma ancora e sempre sull'orlo della catastrofe. Nessuno sa che cosa Ford mediti di fare: primo Presidente «non eletto » neppure come compagno di corsa (come fu, fra gli altri, Johnson per Kennedy), egli deve ora somministrare molte amare medicine all'America senza avere alcun mandato popolare. Per lui la sola alternativa è fra il crollo e il trionfo: la storia lo potrà giudicare come un grigio personaggio sbalzato dal destino troppo in alto, o come un nuovo curato di campagna assurto al trono di Pietro e dimostratosi un nuovo papa Giovanni. Uomo di ordinaria amministrazione per tutta la vita, gli si chiede ora una straordinaria impresa: portare l'America fuori dalla sua più grave crisi dopo la guerra civile e il crack degli Anni 30. Dalla sua ha, però, alcuni atouts. La stanchezza del Paese, dei mondo politico, spossato dopo la titanica lotta contro Nixon e pago di polemiche. La compattezza dei repubblicani, già in odore di regicidio ed ora ansiosi di dimostrare la loro fedeltà al nuovo leader. La simpatia di Mosca, che da tempo manifestava una discreta preferenza per Ford, visto come un inevitabile continuatore della politica nìxoniana, senza le asprezze e il tatticismo di Nixon. La benevola neutralità del big business, del grande capitale che, dopo aver giocato forte e perduto sulla ruota di Nixon, ora vuole dal vice presidente un'ordinata amministrazione dell'economia, lasciando che il mercato detti legge. Ford è l'ultimo uomo politico che sembra in grado, in America, di compiere la disperata impresa cui è chiamato: liquidare l'eredità di Nixon e rimettere in moto il gigante americano intorpidito. Per questo ha molte possibilità di riuscire, perché la storia ama i paradossi, perché, semplicemente, non può sbagliare. Mancano due anni e 4 mesi alle nuove elezioni presidenziali, che lo vedranno certo come candidato repubblicano, e il periodo è troppo lungo per fare soltanto dell'ordinaria amministrazione, troppo breve per ricostruire completamente. Ford ha poco più di mille giorni prima della verifica elettorale, lo stesso tempo che il destino riserbò a Kennedy: il confronto può essere gravoso ma insieme esaltante. Certo, a quest'uomo « senza qualità» arrivato alla presidenza approfittando di due dimissioni successive (Agnew prima, Nixon oggi) si chiede molto: se riuscirà nei suoi intenti, la storia saprà ricompensarlo molto. Vittorio Zucconi Washington. Gerald Ford, designato vicepresidente dopo le dimissioni di Agnew (Ap)