E' stato convinto alle dimissioni da Henry Kissinger di Vittorio Zucconi

E' stato convinto alle dimissioni da Henry Kissinger E' stato convinto alle dimissioni da Henry Kissinger (Segue dalla 1a pagina) nunciato stasera è pronto: per 24 ore vi hanno lavorato gli speechwriters, gli uomini che stilano i discorsi presidenziali, e Nixon ha voluto che fosse perfetto, per lasciare all'America un buon ricordo e un grande rimpianto. Lo ha detto, con le lacrime agli occhi (eravamo presenti) Ronald Ziegler, il portavoce personale di Nixon, che i giornalisti salutano senza nostalgia. Ziegler, forse la migliore incarnazione dell'atmosfera arrogante che ha caratterizzato la gestione Nixon, h diritto come Nixon, come tutti gli « uomini del re » impegnati ora a vuotar cassetti e trasportare carte, alla compassione umana degli americani, a quella di noi tutti, in queste ultime ore. Non v'è rancore, non rabbia nei commenti della Tv, dei giornali in edizione straordinaria. Della gente intorno ai cancelli della Casa Bianca. « Non vorrei mai avervi dovuto annunciare questa notizia - ha detto Walter Cronkite, il più famoso giornalista televisivo d'America — perché non avrei mai voluto avere un presidente fuori dalla legge ». Una sorta di grande silenzio è caduto su Washington, dopo tanto chiasso, come se tutti coloro che per due anni hanno tirato la fune di Watergate cedessero spossati. Mentre scrivo, vedo dalla finestra le limousine nere dei leaders politici arrivare alla Casa Bianca per ascoltare direttamente da Nixon la notizia delle dimissioni e prepararsi al trapasso di poteri. Il paragone con un funerale viene immediato: piove, fa caldo, l'atmosfera è opprimente. L'America sa essere implacabile, non ringhiosa o becera. Ieri sera, Nixon ha cenato con la moglie Pat, le fighe Tricia e Julie e i due cognati, uno dei quali è il nipote di Eisenhower. Gli hanno chiesto di resistere, di non dare le dimissioni, ma era un gesto di cortesia. Mentre la famiglia Nixon cenava, forse per l'ultima volta, nella White House, le dattilografe già battevano il discorso d'addio. Eppure, fino all'ultimo istante Nixon ha esplorato ogni via, ogni cavillo che gli permettesse di lottare, se non di vincere. Non si può non capirlo: per arrivare alla Casa Bianca, mai nessun uomo politico dovette battersi come lui, rimontare tante sconfitte, subire tante umiliazioni. E' proprio questa stratificazione di rabbia che deve sta¬ re all'origine psicologica dei suoi abusi. Politicamente, comunque, Nixon non aveva via d'uscita. L'appoggio del partito era scomparso con l'umiliazione cui avevano dovuto sottostare i suoi sostenitori smentiti dal Presidente stesso, pochi giorni dopo averne invocato l'assoluzione, in sede di Commissione. Il favore popolare, presente fino a domenica seppur eroso, era sfumato con l'ammissione che il Presidente aveva mentito per 12 mesi ai suoi elettori e a tutti gli americani. Fra due mesi, tutta la Camera e un terzo del Senato dovranno rinnovarsi con le elezioni e Nixon era ormai un « papero morto », come si dice nel gergo parlamentare yankee, troppo ingombrante da portare. E' la stessa feroce logica politica con cui egli aveva vinto che lo ha sconfitto. (Ma non solo). Già il mondo politico americano guarda al dopo Watergate, non solo in funzione della successione, che è scontata. I democratici dovranno imparare a vivere senza Watergate, a far politica attiva, non solo a sfruttare gli errore e le colpe dei repubblicani. Il partito di Nixon spera in Ford, nel mite, onesto, conservatore routinier della po¬ litica che Watergate ha portato da 12 ottobre 1973, e senza un'elezione, prima al posto del vice-presidente Agnew e poi addirittura al vertice del potere. Il 1976, data delle prossime elezioni presidenziali, è lontano, dicono i repubblicani, e il pubblico, placata la collera contro Nixon, potrebbe rivoltarsi contro i democratici per una sorta di elementare equilibrio. Il Congresso ha avuto un gesto di magnanimità: stamane, il senatore Brooks ha presentato una proposta di legge per garantire al presidente dimissionario l'immunità dei tribunali penali e civili. Vi sono ancora forti opposizioni a questa legge (e dubbi costituzionali), ma di fatto Nixon dovrebbe essere al sicuro. Non è un caso che la notizia delle dimissioni sia venuta lo stesso giorno della presentazione di tale proposta. Nixon nega ogni « commercio » con il Parlamento, per non rendere meno dignitosa la sua uscita, ma anche questa è una bugia, che peraltro non si può non perdonare. Ieri, i suoi legali hanno fatto la spola fra la Casa Bianca, il Campidoglio (dove sta il Parlamento) e l'ufficio del magistrato inquirente su Watergate per cercare una soluzione. Finalmente, il Congresso sembra aver capito che non sarebbe servito a nulla costringere Nixon alla impossibile alternativa fra « restare alla Casa Bianca e andare in carcere », come scrisse Newsweek. Ora attendiamo il discorso televisivo. Avrà Nixon la grandezza d'animo di ammettere le sue colpe fino in fondo o tenterà ancora di far credere che l'ostilità dei politici nemici lo ha strappato dal posto che l'elettorato, con la più forte maggioranza della storia Usa, gli aveva concesso? E' inutile cercare anticipazioni: poiché mai l'America si trovò di fronte a un presidente dimissionario non esistono precedenti, modelli di comportamento cui riferirsi. E' una pagina tutta da inventare, e anche questo alimenta il senso di smarrimento che invade la capitale. Vi furono due vicepresidenti dimissionari, Calhoun (1829) e Agnew, quest'ultimo lo scorso anno per uno scandalo fiscale. Domani, dunque, i 2026 giorni della presidenza Nixon si chiuderanno ufficialmente. Con ignominia. Eletto prima nel 1968 con 31.785.480 voti contro i 31.275.166 di Humphrey, fu rieletto nel '72 con 47 milioni contro 29 di Me Govern (ma con il 90 per cento dei « voti elettorali » nei quali viene tradotto il voto popolare). Nixon ha 61 anni. Il suo nome servirà alla storia americana come esempio negativo, ma insieme come incitamento, per il prossimo presidente, a non confondere la Casa Bianca con Versailles. Vittorio Zucconi

Luoghi citati: America, Versailles, Washington