Tra i fiori malati degli ultimi Medici di Marziano Bernardi

Tra i fiori malati degli ultimi Medici L'ARTE BAROCCA DI FIRENZE Tra i fiori malati degli ultimi Medici (Dal nostro inviato speciale) Firenze, agosto. Sarà forse per suggestione storica, ma visitando questa mostra sontuosa a Palazzo Pitti temporalmente compresa tra due date che si riferiscono alle morti di due principi, pare di cogliere nella grandiosità dello spettacolo quel medesimo senso di funereo fasto con cui le gigantesche scenografie liturgiche dell'età barocca celebravano le esequie dei sovrani. Pare anche, passando di sala in sala, colme di meraviglie, d'essere accompagnati dal fantasma della donna che con suprema dignità e coscienza di quanto l'arte e la cultura per tre secoli erano state debitrici della famiglia che con lei si estingueva, dispose che la più grande collezione artistica del mondo, quella dei Medici, passasse, si, in proprietà del nuovo Granduca, ma con la clausola che nulla di essa venisse mai asportato dalla città dove s'era formata e tutto vi restasse offerto in perpetuo all'ammirazione universale. Se Firenze è ancor oggi un favoloso scrigno di tesori artistici lo deve alla volontà dell'ultima de' Medici, l'Elettrice Palatina Anna Maria Luisa, morta vedova nel 1743; e la solitaria grandezza dei suoi ultimi anni nell'immensa reggia di Pitti, quando grave e solenne, dritta come una colonna sotto un baldacchino nero — cosi l'ha rievocata Harold Acton — riceveva dignitari, ambasciatori, stranieri illustri, basta a riscattare la miseria del lutulento tramonto mediceo. Il 1743 è dunque il limite che K. Lankheit, M. Chiarini, F. J. Cummings, G. Marchini, con lo stuolo dei loro collaboratori, hanno posto alla mostra. L'inizio coincide con la fine (1670) del regno di Ferdinando II, al quale succedette Cosimo III che resse il Granducato per ben 53 anni, lasciandone il governo, fino al 1737, allo sciagurato Gian Gastone; e già uno specialista in studi sul Barocco e sul Manierismo, Giuliano Briganti, ha osservato che il crepuscolo dei Medici, di melodrammatica assonanza wagneriana, ed il «tardo Barocco a Firenze », (che è il titolo della rassegna), non costituiscono un parallelo che metta d'accordo dati cronologici e dati stilistici in quello spazio di 73 anni tra Seicento e Settecento, tra il secolo del pietismo controriformistico e il secolo dei Lumi; e si domanda anzi se la cultura artistica fiorita sotto Cosimo III e Gian Gastone sia davvero diversa da quella del tempo di Ferdinando II, in una città, oltre il resto, cui mal si adattava lo spirito barocco: « trop pa secchezza, troppi spigoli, troppo dura, fredda e taglie» le la pietra serena ». Del resto, il Barocco a Fi renze non fu preminentemente un fenomeno d'importazio ne? La chiamata di Pietro da Cortona per decorare le sale di Palazzo Pitti resta un fatto decisivo per la svolta della pit tura fiorentina dopo la morte di Giovanni da S. Giovanni. Narra il Baldinucci che quando quelle pitture, non ancora del tutto finite (le avrebbe completate Ciro Ferri) ma già trionfali vennero scoperte e il Granduca Ferdinando invitò i più vecchi e stimati pittori cittadini ad ammirarle, Matteo Rosselli rivolgendosi al collega Francesco Curradi esclamò: « O Curradi o Curradi, quanto noi altri siamo piccini! Che dite, che dite, non siamo noi ben piccinini? ». Quarantanni dopo (1682-85) spettava a Luca Giordano di sbalordire la nuova generazione pittorica fiorentina con la cupola della cappella Corsini a S. Maria del Carmine e con gli affreschi della galleria del Palazzo Riccardi, già Medici; e i dodici modelli di quelle allegorie e scene mitologiche splendono stupendi qui alla mostra — ne sono anzi con le opere del Crespi, del Magnasco, del Pellegrini, di Marco e Sebastiano Ricci i vertici pittorici — generosamente prestati dall'illustre collezionista e storico dell'arte Denin Mahon. I nomi dei maggiori maestri finora fatti non sono toscani, e non sorprende che uno dei pochi gesti illuminati del bigotto e vanesio Cosimo III, prodigo di manifestazioni esteriori fino allo sperpero quanto gretto e incapace amministratore dello Stato (il suo chiodo fisso, per orgoglio dinastico, era il « Trattamento Regio » che invidiava puerilmente a Vittorio Amedeo II di Savoia, e gioì come non mai dell'investitura papale a « canonico del Laterano »), fu la creazione a Roma di un'Accademia diretta da Ciro Ferri, seguace del Cortona, e da Ercole Ferrata, for¬ dsfi temente influenzato dall'Algardi, per l'ammaestramento, a sue spese, dei giovani artisti toscani. In essa si formarono Giovanni Battista Foggini, il più grande — e veramente grande come si vede dalle moltissime sue opere qui esposte — scultore fiorentino di quell'epoca, Massimiliano Soldani Benzi, morto nel 1740, che gli sta a paro per empito di fantasia e squisitezza di modellato, il focoso Piamontini già quasi « barocchetto », e indirettamente, perché allievo del Foggini, il magnifico scolpitore di marmi Agostino Cornacchini che del suo talento, su invito del Juvarra, lasciò prove anche a Torino, nella basilica di Superga. Tra i pittori cresciuti nell'Accademia di Cosimo ecco alla mostra Anton Domenico Gabbiani che divide con Giovanni Domenico Ferretti il primato riconosciuto dai contemporanei nella pittura fiorentina del tempo; mentre altrove va cercata l'educazione del correggesco Volterrano (Baldassarre Franceschini, 1611-1689) che Gerhard Ewald, nel perfetto catalogo ch'è un modello del genere, definisce « il più importante artista fiorentino della seconda metà del XVII secolo », e del Bonechi, del Dandini, del Gherardini, del Lapi, del Meucci, di Ranieri del Pace, del Pignoni, del Sagrestani, attivi tra Seicento e Settecento; tutti validamente rappresentati — con gli altri artisti prima ricordati e con gli « esteri » Sustermans, Mehus, Reschi, van Wittel, e col Bimbi, ammirevole pittore di nature morte, come l'emiliano Munari, con la vicentina Caffi, pittrice di fiori che anticipa Guardi, col romano Onofri — a Palazzo Pitti. Ultimo abbiam lasciato Carlo Dolci, lo zuccheroso «Christianus Pictor» prediletto dal bigottismo di Cosimo III e di sua madre Vittoria della Rovere, ch'ebbe ed ha tuttora per la sua bondieuserie negli ambienti devozionali fama strepitosa, la cui Madonna del 1675 sta in una cornice ch'è forse la più ricca del mondo (qui la si guarda stupefatti di tanto barocchismo), capolavoro kitsch disegnato dal Foggini, in bronzi dorati e pietre dure, e perciò il quadro è detto La Madonna delle pietre dure. Carlo Dolci, pompier avanti lettera per la pittura liscia, smaltata, porcellanata; ma attenzione, che non è pittore da pigliare a gabbo quello che ci diede il tremendo ritratto di Vittoria della Rovere, oppressa dalla « pinguitudo » di cui mo ri nel 1695 a Pisa, un'imma gine di vecchia donna che — scrisse l'Acton — sembra « un incrocio tra un rospo e una tartaruga », ma di una potenza degna di Goya. Dunque quel Cosimo III cosi duramente giudicato dagli storici non rimase sordo ai richiami dell'arte pur nell'affossamento politico, economico e in parte culturale (ma c'erano uomini come il Redi, il Magliabechi, il Gabburri e l'Haendel e lo Scarlatti mandavano in visibilio alla villa di Pratolino, residenza favorita dal primogenito di Cosimo, il Gran Principe Ferdinando, gli amatori di musica, e il presidente Charles de Brosses nel 1739 poteva annotare: « Trovo questa città piena di gente colta ») della Toscana degli ultimi Medici. La tradizione della loro stirpe, almeno d'un mecenatismo di corte divenuto da convinzione ostentazione, non tralignava, neppure nel decadimento umano. Al contrario, Ferdinando, ucciso precocemente dalla tabe, s'invaghiva della giovane arte veneta che fugava le ultime ombre manieristiche, chiamava da Venezia il Cassana, chiedeva lavoro a Marco e Sebastiano Ricci, teneva nel suo appartamento di Pratolino uno dei più ammirevoli quadri del bolognese Giuseppe Maria Crespi, La fiera del Poggio a Caiano. Quanto a Gian Gastone, l'ipocondriaco Granduca sommerso da turpi gozzoviglie, schiavo dell'infame cameriere Giuliano Dami che gli procurava il sollazzo dei « ruspanti », aveva una spiccata preferenza per il Magnasco, gli piacevano i soggetti del pittore genovese, zingari, stregoni, mendicanti, frati pezzenti, che s'intonavano col lereiume e col lezzo del sordido letto da cui più non si levava nemmeno per vomitare l'eccesso del cibo e del vino, e dal quale tuttavia impartiva disposizioni sagge, intelligenti comandi che dissipavano finalmente il fanatismo pietistico imposto da Cosimo III al popolo di Firenze. La mostra è lo specchio limpidissimo del groviglio di assurdi e contraddizioni che contrassegnò lo spegnersi della celebre stirpe: un'arte splendida in un paese misero, una pratica religiosa opprimente a copertura del vizio cortigiano, una sensibilità estetica delle più raffinate in contrasto coi rutti delle digestioni del principe abbrutito, la vita .-onsiderata soltanto come pi .parazione alla morte santa. Questi giganteschi stipi intarsiati posti tra le mitologie dipinte e scolpite come monumenti funerari nel cimitero delle illusioni, ne sono un emblema. L'altro potrebbe essere una specie di presepio napoletano modellato in cera colorata dal siciliano Zumbo per Cosimo III che rappresenta il Trionfo del Tempo sull'esistenza, il potere e la gloria umana, anche coi segni della putrefazione dei cadaveri. Quegli scheletri con le ossa ormai slegate dovevano affascinare il Granduca che per consolarsi delle bizze della moglie Marguerite-Louise d'Orléans visitava ogni giorno mezza dozzina di chiese e altrettanti con- venti. Marziano Bernardi