Imprenditore planetario di Mario Ciriello

Imprenditore planetario IL GIAPPONE TERZO "GRANDE,, DELL'ECONOMIA Imprenditore planetario Pochi mesi fa il gigante asiatico temeva la paralisi per mancanza di petrolio; ma ora la recessione è finita, si assiste a un altro decollo: anziché esportare prodotti, si esportano capitali e tecnologie dove ci sono le risorse, in tutte le parti del mondo (Dal nostro inviato speciale) Tokyo, agosto. Con il mese di luglio, sono finiti due perìodi. Lo tsuyu, la stagione delle piogge, stagione che, se gradita come balsamo contro l'afa viscida e soffocante, ha però moltiplicato quest'anno i pericoli dell'inquinamento nelle immense concentrazioni urbane e industriali. Intrisa di anidride solforica ed altri veleni, l'acqua è scesa sulle strade come « pioggia acida ». Migliaia di abitanti di Tokyo e ventimila bambini in un'altra città hanno sofferto gravi infiammazioni agli occhi e, come ha detto un medico, « hanno pianto lacrime ardenti ». Insieme con questo tsuyu troppo lungo e crudele, è finita la recessione. Fine d'un incubo E un annuncio che suscita incredulità, ed è naturale. In Occidente, lo spettro di una recessione turba ancora i sonni dei governi, degli imprenditori, dei sindacati; si naviga ancora su acque tempestose, in un'oscurità che soltanto qua e là comincia ad essere attenuata da pallide luci. In Giappone, l'incubo è stato più drammatico, ma più breve. Non sono passati che pochi mesi da qua?ido, in un agghiacciante momento di panico, il gigante asiatico temette la paralisi per mancanza di petrolio. All'inizio di quest'anno, la più irruente macchina produttiva del mondo annaspava nella gora di « crescita zero ». Oggi, sì assiste a un nuovo decollo. Non saranno mesi facili, quelli a venire. L'inflazione non è certo sconfitta, assedia il Giappone, voracissimo importatore, potrebbe azzannare nuovamente: ma il peggio sembra superato. L'ascesa dei prezzi è frenata per ora attorno al 21 per cento annuo ed è già un successo dopo le impennate verso e oltre il 25. Le esportazioni nipponiche dilagano verso i quattro punti cardinali, in particolare nelle aree meno sviluppate, con un aumento del 60 per cento rispetto all'estate '73. Il rallentamento non ha causato le crisi previste da mille cassandre, è fallita un'unica grande ditta, la Nihon Netsugaku, ma più per l'irresponsabilità della direzione che per le circostanze esterne, e la disoccupazione è all'incredibile livello del 2 per cento. La produzione industriale ha ripreso la marcia. L'anno finanziario che si chiuderà nell'aprile '75 dovrebbe mostrare un'espansione tra il 2,5 e il 3,5 per cento, tasso più che soddisfacente, in condizioni normali, per vari Paesi, come l'Inghilterra, ma miserabile per i giapponesi avvezzi al quadruplo. Fra l'aprile '75 e l'aprile '76 10 sviluppo non dovrebbe essere inferiore al 7-8 per cento. Anche la bilancia dei pagamenti comincia a mostrare un volto più sano e 11 governo pensa che il disavanzo di 5 o 6 miliardi di dollari previsto per l'anno '74-75 potrà essere sostenuto e assorbito « senza grandi difficoltà ». I muscoli della superpotenza economica asiatica, la terza dopo America e Russia, tornano a tendersi, irrequieti. Nuova sfida Era tempo. Gli occidentali cesseranno così di puntare gli sguardi suUe traversie odierne dell'arcipelago e penseranno invece a come affrontare la « sfida giapponese » di questa fine secolo. Un po' per scarsa conoscenza del Paese, un po' per le seduzioni del sensazionalismo, si soiio scritte cose assurde nell'ultimo anno. Si è presentato il Giappone sull'orlo del collasso, si sono vaticinate esplosive tensioni sociali e politiche. Certo, il partito al potere da quasi trentanni, il liberal-democratico, attraversa un perìodo burrascoso, nella nazione tutta sì notano nuove aspirazioni e pressioni: ma, nei limiti del prevedibile, è un'evoluzione naturale, forse benefica, non un regresso verso tempi oscuri. Avremo, dunque, una nuova « sfida giapponese », diversa però da quella degli Anni Sessanta. Una sfida già definita « formidabile » da vari esperti occidentali, ma dì cui pochi, in Europa, hanno una chiara visione. Sì cominci da alcuni fatti fondamentali. Anzitutto: la supercrescita del Giappone è finita, d'ora in poi Tokyo dovrà «accontentarsi» di un altro primato, il più rapido ritmo di sviluppo tra le economie avanzate. Un gioco di parole? No. Sia per non innalzare in soli sette-otto anni dal 12 per cento dì oggi al 30 per cento la fetta di risorse internazionali ingoiate dal Giappone, sia perché le quattro isole non possono più accogliere altre proliferazioni industriali e urbane, sia perché vi sono limiti alla creazione di nuove tecnologie, l'espansione sarà portata al 7, al 6, e forse al 5 per cento. Ma niente illusioni. A questo ridimensionamento non corrisponderà una minor penetrazione commerciale nipponica all'estero. Tutt'altro. L'invasione sarà su scala assai più vasta, planetaria: e per il semplice motivo che mille e mille di quei futuri prodotti e servizi saranno foggiati con capitali e tecnoI logie giapponesi ma in vai rie parti del globo. Non è fenomeno nuovo, già compriamo in Italia beni francesi, inglesi o d'altre terre, costruiti però con finanziamenti americani, tedeschi o svedesi. La novità consìste nella grandiosità delle operazioni giapponesi, nella fantasiosa audacia delle loro iniziative, nella geografia stessa di questo capitalismo intercontinentale e interoceanico. Cina e Russia Dal Sud-Est asiatico, dove sono già dominanti, gli investimenti nipponici si spingeranno in ogni direzione, rafforzando nella politica estera di Tokyo la tendenza ad evitare intonazioni ideologiche ed evangeliche. (Cina e Russia sono due capitoli a sé: perché Tokyo intensificherà i suoi rapporti con entrambe, sempre badando però a non inimicarsi né l'una né l'altra, e soprattutto a non inimicarsi Washington. « Siamo circondati da tre superpotenze militari. Non abbiamo armi nucleari, né vogliamo averne. Dobbiamo convivere con tutti », ripetono diplomatici e businessmen). Alcune mete dello yen sono già visibili. Australia, Brasile e America Latina in generale, Nigeria, Iran, quasi tutti i Paesi arabi. Nell'ultimo anno — di crisi — gli investimenti privati all'estero si sono raddoppiati, da 6 a 12 miliardi e mezzo dì dollari. C'è chi pensa che verso il 1983 gli investimenti eguaglieranno quelli americani: è possibile, e inutilmente molti banchieri giapponesi, ansiosi di non intimorire gli stranieri, sostengono che lo yen non può viaggiare come il dollaro perché non è moneta internazionale. Anzitutto, può divenirla; in secondo luogo, per chi ha ricchezza non vi sono ostacoli al suo impiego, la valuta può essere convertita, sarebbe come dire che i sauditi non possono comprare perché pochi all'estero tengono la loro divisa, il rial. In due o tre anni, il Giappone renderà possibile, con i suoi miliardi e il suo know-how, l'avvento di un'industria brasiliana dell'acciaio e della carta, l'espansione dell'elettronica a Taiwan e in Corea, la produzione dì alluminio in America Latina e Indonesia, il potenziamento della petrolchimica in Iran e in vari Stati arabi. Ed è solo l'inizio. La nuova strategia, che porta il capitale dove sono le risorse, dovrebbe ridurre le importazioni nipponiche di materie prime, anche perché, sempre nel quadro di questa imponente ristrutturazione, si cercherà di diminuire la produzione « pesante », di acciaio, navi, auto, ad esempio, e di spostare l'accento su beni con un più alto valore aggiunto e minor consumo di materiali. Fatto positivo, dunque: come dovrebbe essere positivo il fatto che molte delle future iniziative nipponiche avranno per scena Paesi in via di sviluppo economico e sociale. A risentire gli effetti della « sfida » saranno gli americani e ancor più gli europei. L'offensiva non darà respiro. I giapponesi, dopo aver fatto tanto per popola¬ re la Terra di questi prodotti a sangue misto, si assumeranno anche il compito di venderli. Sarà il compito delle «Sogo Shosha», le «Trading Houses» o case commerciali. Dopo la guerra, gli americani smantellarono i colossi industriali, gli «Zaibatsu», ma queste conglomerate rinacquero sotto altre vesti e sono i pilastri della potenza economica di Tokyo. Le più dinamiche sono tredici, ma sei superano tutte le altre. In ordine di grandezza, Mitsubishi, Mitsui, Marubeni, C. Itoh, Sumitomo Shoji, Nissho Iwai. Da soli, i « sei grandi » forniscono il 40 per cento delle esportazioni nipponiche e assorbono il 50 per cento delle importazioni Almeno dieci di quei dodici miliardi di investimenti esteri provengono dai loro forzieri, sono imperi finanziari con 7-amificazioni in tutta l'industria. Non ci sono frontiere per le Sogo Sho- sha, che sovente agiscono coalizzate, come quando comprarono tutta la lana australiana. Nei mesi scorsi, la Sumitomo ha venduto turbine tedesche al Bangladesh e macchine canadesi all'Indonesia. Espansione all'estero, ridimensionamento in patria, con rilancio dell'agricoltura e un più generoso bilancio per i servìzi sociali. Dovrebbe essere un Giappone più sano, più equilibrato, con un capitalismo non meno combattivo e versatile ma più responsabile. Benissimo. Resta l'ombra delle esportazioni. Diminuirà forse la valanga delle merci nipponiche — benché non vi sia molto da sperare — ma arriverà l'altra, quella senza l'etichetta « made in Japan ». Sarà un nuovo maestoso flusso commerciale che s'unirà a quelli che, prima o poi, scorreranno per il mondo, finanziati dal petrolio dell'Opec. Mario Ciriello Tokyo. Vecchio e nuovo: nel centro della capitale, la gerla di un remoto mondo contadino (Foto Grazia Neri)

Persone citate: Grazia Neri, Itoh, Shoji