L'identità di Israele di Igor Man

L'identità di Israele ESAME DI COSCIENZA DOPO LA GUERRA L'identità di Israele Pur lasciando immutato l'aspetto del Paese, il conflitto ha modificato il tenere di vita e provocato una profonda crisi psicologica - Cadute le certezze del passato, si cercano una pace durevole e nuove strade ( Dal nostro inviato speciale ) Gerusalemme, luglio. All'apparenza nulla è mutato, il volto estivo di Israele è quello di sempre. Le spiagge sono invase da migliaia di famiglie gaie e rumorose. Tel Aviv è più che mai una piccola Manhattan con le sue alte torri nuove a ridosso di quieti angoli mitteleuropei, il traffico intasa le strade alberate della città nevrotica ma cordiale. Quando fa buio la brezza che giunge da Cipro allenta lo scirocco e i vecchi seggono in canottiera e sandali sui balconi delle case col giornale della sera sulle stanche ginocchia, davanti al lucore azzurrino della televisione. I giovani bivaccano al caffè Rowal, nella via Dizengoff, l'equivalente di «Rosati» in piazza del Popolo a Roma. Artisti e soldati, soldatesse in uniforme e capelloni s'odono in lieta promiscuità tracannando birra e succhi di frutta direttamente dalla bottiglia, divorando incessantemente patatine fritte. Quand'è sera, Tel Aviv viene invasa da giovani, dai «sabre»: la città gli appartiene. Gerusalemme, nel primo a a l à n o o o a - l a o - e i e a I mattino, allorché la bruma nasconde l'orizzonte offeso ! dalla impetuosa proliferazioI ne del cemento armato (Bruno Zevi ha definito il boom edilizio della capitale « un esempio di harakiri urbanistico ») è veramente tutta « bianca e d'oro, bella e preziosa cerne la materializzazione felice di una antica incisione ». Contagiati dal frenetico attivismo degli israeliani, i mercanti della città vecchia sostengono animosamente l'assalto dei turisti e non c'è spettacolo più divertente d'una cortese disputa fra arabi ed ebrei sul prezzo di questo o quel souvenir. E non è senza emozione che si assiste al rito della preghiera al Muro del pianto. Quale avvenire Quel sommesso lamentarsi, addossati alle pietre antiche, di ebrei della diaspora, uomini e donne, lascia il visitatore straniero e laico soprattutto turbato. Ma c'è qualcosa di nuovo al Muro del pianto: non sono soltanto gli anziani a pregare con inimmaginabile, composto fervore, si vedono anche molti giovani come in passato non mi era mai accaduto di notare. E la maggior parte di questi giovani non sono «turisti» bensì «sabre». (Durante l'ultima guerra, mi dicono, i giovani soldati al fronte non chiedevano alle famiglie i soliti pacchi ma che gli inviassero una copia della Bibbia. E sul lunotto posteriore di molte automobili si leggono ancora oggi scritte che dicono: «Io confido in Dio»;. La facciata esterna è quella di prima della guerra del Kippur, ma leggendo i giornali, ascolta- _j la radio, parlando con la gente (dal professore universitario al cameriere d'albergo reduce dal fronte) ci si accorge come Israele sia cambiato. La guerra del Kippur ha modificato il tenore di vita dei suoi abitanti, l'economia del Paese, la vita politica, ha stravolto i connotati psicologici degli israeliani. I fogli paga sono stati decurtati ancora dal 15 al 20 per cento, al prestito di guerra obbligatorio se n'è aggiunto un altro, «volontario», prelevato praticamente dai salari. Non c'è forse Paese al mondo dove il tenore di vita sia oggi così modesto rispetto a un reddito medio tanto i cospicuo: 2000 dollari l'anno per abitante. Chi guadagna 1500 lire israeliane al mese ne riceve, al netto delle tasse, 950. Non esistono prospettive di miglioramento, almeno immediato, di fronte alle enormi spese di guerra: 4 miliardi di dollari, cioè o o a i a l'80 per cento del bilancio annuale dello Stato, il 50 per cento del prodotto nazionale lordo. E tuttavia gli israeliani, solitamente più polemici degli italiani nei riguardi del fisco, non si lamentano. Ben altro li preoccupa e li appassiona. Non più ossessionati dai mobili fantasmi della società affluente hanno smesso di adorare il «vitello d'oro», per dedicarsi a quello che potremmo chiamare un prò cesso collettivo di introspezione. La linea Bar Lev, costruita sul Canale di Suez dopo la folgorante vittoria del giugno 1967, da simbolo di eroismo, di fermezza, era dive¬ j i nuta alla lunga simbolo di immobilismo. « All'indomani della guerra dei sei giorni — scrive lo storico Jacob Talmon — gli arabi si sono imprigionati nella gabbia dei tre "no" di Khartum. Ci si può chiedere se anche Israele, i nostri capi, la nostra opinione pubblica non si siano rinchiusi in risoluzioni differenti ma del tipo di Khartum, pretendendo solo negoziati diretti, solo una pace debitamente firmata, escludendo ogni intervento delle grandi potenze, rifiutando qualsiasi entità palestinese ». L'inopinato, rapido crollo della linea Bar Lev ha provocato in Israele un « terremoto psicologico ». Con la linea Bar Lev è caduto il mito della superiorità militare israeliana, è andata in pezzi la politica del temporeggiamento, della difesa ad oltranza dello « status quo ». « Ci avevano fatto credere che potevamo permetterci tutto ciò che volevamo, che eravamo gli arbitri del nostro destino — dice Israel C, tenente pilota —; la guer- j ra del Kippur ci ha aperto | gli ocelli. Dipendiamo dagli ] americani, dobbiamo fare i 1 conti con gli arabi. Occorre dunque cambiare politica, j anzi inventarne una nuova ». Questa presa di coscienza della realtà da parte dei giovani ha provocato la caduta dei « vecchi dinosauri ». « Tuttavia anche noi giovani siamo responsabili di quanto è accaduto. Per anni ci siamo disinteressati di politica lasciando fare agli "apparatchiks" del partito laborista di maggioranza. E' amaro constatare come ci sia voluta una guerra, il trauma provocato dalla morte di 2500 soldati, la rivolta del capitano Motti Ashkenazi, eroe della Bar Lev, perché ci rendessimo conto a qual punto eravamo mal governati, perché ci ponessimo il problema del nostro avvenire. Ma ora siamo usciti dal tunnel della indifferenza, per non dire della incoscienza, abbiamo perduto il più nefasto dei complessi, quello di superiorità, siamo diventati "autentici" ». Ritrovarsi ebrei Che significa «autentici»? Per il professor Dan Avni, dell'Università di Haifa, qualcosa di molto drammatico e positivo insieme. In forza della rivoluzione sionista che era riuscita a creare in Palestina uno Stato «normale», come «tutti gli altri», gli israeliani avevano coscientemente voltato le spalle alla «dimensione ebraica». «La guerra del Kippur, distruggendo il senso di fiducia degli israeliani in se stessi, nella loro superiorità sugli arabi, li ha fatti ripiombare in quella condizione di insicurezza permanente propria dell'ebreo. In quel destino ebraico da cui credej vano d'essere evasi con la creazione di uno Stato nazionale "normale"». Ritrovarsi ebrei da un punto di vista esistenziale, senza possedere peraltro quella cultuta tradizionale ebraica che per tanti secoli aveva permesso agli ebrei di sopravvivere, è stato uno «shoch». «Da questo "shoch" non tanto dalle perdite sul campo di battaglia, né dalle difficoltà politiche conseguenti alla guerra, è nato quel "ter¬ remoto psicologico" che continua a turbare la società israeliana ». Alberto Nirenstain ha scritto un saggio esemplare su questo «terremoto psicologico», traendone motivi di conforto in considerazione delle «spinte» che lo hanno determinato e che lo portano avanti, trasformandolo in un benefico esame collettivo di coscienza. «La gente ebrea, che il suo più grande profeta di duemila anni fa apostrofava spesso con non poca disperazione come lo "am sorer umorer"», cioè un popolo litigioso, ribelle, è rimasta fortunatamente tale, anche nei tempi dei massmedia livellatori e della tecnocrazia burocratica esasperante. E' un conforto constatare come la società israeliana ad un certo punto risorge per togliere l'aureola del carisma ai suoi «santi», ai suoi re unti dal Signore, ai suoi grandi capi e condottieri, quando non se la meritano più. Sull'onda della protesta avviata da Motti Ashkenazi e dai suoi commilitoni contro le mechdalim (negligenze) di Golda Meir e di Dayan, sono nati vari altri gruppi di contestazione che si riconoscono nello «slogan» ha- shinui, il cambiamento. Nella primavera del 1974 Israele ha conosciuto una vera e propria rivoluzione, « una rivoluzione strana, che ha però i connotati di una rivoluzione classica: un doppio potere, un doppio e parallelo governo, dell'autorità costituita da una parte, e della "piazza" dall'altra. Basta pensare come la "piazza" ha spazzato via il governo di Golda appena sorto dopo due mesi di estenuanti trattative ». Rischi calcolati Ma cosa vuole la « piazza» quando reclama un cambiamento? « Noi vogliamo l'austerity, il ritorno ai valori primigeni dell'ebraismo, noi vogliamo degli uomini politici coraggiosi, che sappiano correre rischi calcolati. Noi vogliamo la pace », rispondono i giovani contestatori, «e la pace comporta dei rischi». Dayan diceva: «Fra la pace senza i territori e i territori senza la pace, io preferisco la seconda opzione». Oggi la formula è completamente ribaltata. La guerra del Kippur ha dimostrato come non esistano in pratica « confini sicuri », Israele può quindi accettare il principio della evacuazione. Entro determinati limiti beninteso e in cambio di una valida contropartita. La pace, appunto. Tre mesi dopo la guerra, sette giornalisti israeliani hanno dato alle stampe un libro, Kippur, ch'è diventato un bestseller. Vi si legge: « La gioventù israeliana desidera "veramente" e "onestamente" essere accettata dagli arabi, avvicinarsi a loro». Ma, dice il maggiore R., 34 anni, volontario paracadutista, « fin quando i dirigenti arabi, e in primo luogo i palestinesi, continueranno a minacciare la distruzione dello Stato di Israele, gli israeliani, tutti noi, continueremo a batterci. Per la nostra e la loro disgrazia, in ultima analisi ». Torna in voga una canzone che quattro anni fa era in testa alla classifica della Hit Parade, «Shaalom», pace. «Quando verrà la pace / la squadra egiziana ci batterà a Tel Aviv / quando verrà la pace andremo in treno a Damasco, andremo a sciare in Libano / lasciate sorgere il sole, illuminare il mattino / ad altissima voce intonate canti di pace ». Ma questo profondo desiderio di pace, ammoniscono gli israeliani, non tragga in inganno gli arabi: esso non tradisce alcuna debolezza, alcun cedimento morale. Israele rimane un Paese consapevole della propria forza. « Abbiamo perduto la guerra politicamente, non sul campo di battaglia. Questo ci fa sentire più forti che mai soprattutto di fronte a noi stessi ». Igor Man Gerusalemme. Folla in una via del centro: la città è quella di prima, la guerra però ne ha mutato Io spirito (Team)