Importanza delle opere

Importanza delle opere Importanza delle opere Tra le varie versioni anlonellesche dell'Ecce Homo, delle quali si possono ricordare quelle della Galleria Spinola di Genova, del Museo di Piacenza, della collezione Cook di Richmond, dei musei di Detroit, New York, d'una raccolta privata a Vienna, ed altre, con attribuzioni palleggiate fra i più autorevoli storici dell'arte, l'esemplare di Novara può essere considerato una scoperta di Adolfo Venturi, che lo pubblicò col titolo Cristo alla colonna nel suo libro del 1925, « Grandi artisti italiani ». L'opera era prima ritenuta una derivazione o copia del Cristo già della collezione Schic- kler, o di quello di Piacenza, che è firmato « Antonellus Messaneus me pinxit » e datato 1473. Il Venturi negò l'affinità col quadro Schickler, e sottolineò invece quella con la tavola di Piacenza, già appartenuta al cardinale Alberoni, della quale il dipinto novarese è, a suo giudizio, replica autografa, posteriore di pochi anni. Ma lo ritenne stilisticamente superiore, di una forma più matura (e quando si parla di Antonello il valore formale è predominante), « architettata sopra schemi più sintetici, sopra un criterio plastico più sviluppato : deciso ». Convalidò il suo giudizio con queste parole ch'è opportuno riferire per dare ai lettori una idea del capolavoro ora trafugato, a continuare una serie di furti cui lo Stato assiste impotente per l'annosa carenza delle strutture scientifiche ed amministrative che dovrebbero proteggere e valorizzare i beni culturali italiani (furti e carenze che ci squalificano di fronte alle altre nazioni civili): «La maggiore energia plastica del Cristo di Novara si manifesta ancora nei tendini del collo tesi, fino allo spasimo, sul cavo profondo della gola; nella corda che scavalca il parapetto per ripetere, al primo piano del quadro, il volume cilindrico prediletto da Antonello, in pieno risalto sulla parete marmorea; nel nodo superbamente architettato dal triplice anello della fune sul petto inturgidito; nella globosità possente degli omeri ». E lo storico concludeva sottolineando l'espressione « formidabile di tormento e di sdegno » della sublime immagine. Anche Stefano Bottari, ferratissimo studioso di Antonello come della pittura siciliana del Quattrocento, ritenne il quadro novarese una derivazione autografa del ripetuto soggetto, e riferendosi all'attribuzione risoluta del Venturi aggiunse: «Non è detto che non abbiu colto nel segno ». Giorgio Vigni, invece, , o à , a a n o n o a i nel 1952, includeva la lavola fra i « dipinti attribuiti », quelli cioè che possono esser discussi; e il Berenson, nei suoi famosi « Elenchi », degli Ecce Homo autografi accettava soltanto quelli di Piacenza e di Richmond. Comunque sia l'opera è di una importanza eccezionale nella storia del rivoluzionario apporto espressivo e linguistico di Antonello alla pittura del Rinascimento: la sua scomparsa dal patrimonio artistico italiano sarebbe un grave depauperamento. Tutti gli altri dipinti sottratti sono di notevole importanza, ma subito dopo l'Ecce Homo vengono i due « Angeli oranti » di Gaudenzio Ferrari. Il grande maestro valsesiano dipinse queste due squisite tavole, già della raccolta Morbio e poi pervenute al museo novarese, tra 1512 e il 1513, cioè press'a poco negli anni in cui egli attendeva agli affreschi della Vita di Gesù che sulla parete della chiesa di Santa Maria delle Grazie di Varallo sono l'anticipazione della ripresa del trionfante lavoro sul Sacro Monte. Vittorio Viale espose questi due dipinti nell'indimenticabile mostra gaudenziana del 1956 a Vercelli, da lui tenacemente voluta per restituire al Ferrari il posto eccelso che gli spetta nella pittura rinascimentale italiana; e li riprodusse poi a colori nel magnifico libro edito nel 1969 dalla Eri, Edizioni Rai. Giustamente egli osservò che si devono considerare due laterali di un tabernacolo, come ancor si vede al santuario di Cannobio; e cosi ne scrisse: « Sono Ira i più mirabili gioielli delta pittura giovanile di Gaudenzio », angeli oranti a coppia, inginocchiati, « ripiegate le grandi ali variopinte, le belle e colorite vesti flottanti ancora al vento »: uno sfolgorio di colori cilestrini, azzurri, verdi, arancione, così splendidi e seducenti che, come affermava il Lomazzo, pittore e teorico sul finir del Cinquecento, « chi non vede, difficilmente è per crederlo ». Tra i tanti furti d'arte compiuti in Italia negli ultimi tempi, questo è uno dei più gravi e inquietanti, anche per le limitate dimensioni delle opere trafugate, che possono facilmente dissimularsi per un eventuale trasferimento all'estero. Ed ha ormai relativa importanza che si tratti d'opere notissime che non possono essere immesse nel commercio antiquario impunemente. Ormai è chiaro che questi ladri specializzati agiscono secondo le direttive di organizzazioni internazionali in grado di far perdere le tracce anche dei capolavori più famosi. A meno che anche questa volta non venga proposto un riscatto: nell'umiliante avventura sarebbe il danno minore. mar. ber.