Sulla frontiera del petrolio di Alberto Ronchey

Sulla frontiera del petrolio ULTIME NOTIZIE DAGLI STATI UNITI Sulla frontiera del petrolio L'Alaska ne fornirà agli Usa almeno due milioni di barili al giorno - Sono i russi gli spettatori più attenti del nuovo boom americano: se nel 1867 lo zar non avesse venduto la regione, l'Urss dividerebbe con gli arabi la dittatura energetica (Dal nostro inviato speciale) Anchorage, luglio. L'ultimo boom americano è sull'ultima frontiera, dinanzi alla Siberia. Cinque fusi orari e otto ore di volo da Washington al Golfo d'Alaska, ai ghiacciai dei monti Chugach e all'atterraggio nella notte bianca di Anchorage. Qui, sull'Insenatura di Cook, alla luce tagliente dell'estate artica, nel paesaggio favoloso che appare come un'Arizona o una California fredda, le nuove linee marittime del Pacìfico e i jumbo jets d'una compagnia aerea che ha il nome paradossale di Northwest-Orient sbarcano moltitudini stordite dal sole notturno e dal vento, confuse al pensiero d'un Estremo Occidente dove in verità comincia l'Oriente. Qui è il boom del nuovo petrolio, legato a numerosi altri boom. Qui, fra il Great Alaskan OH Rush e la natura selvaggia, ritorna con forme e colori nuovi l'immagine mitico-americana della Happy Volley, la valle felice. «Se siete vecchi, suggeriva il geografo Henry Gannet al principio del secolo, andate in Alaska con ogni mezzo, ma se siete giovani aspettate d'invecchiare, lo scenario è così grande che nulla di simile esiste al mondo e ogni altro spettacolo al paragone sarà una fatale delusione ». Ma non aspettano più, l'età media degli alaskani oggi è ventitré anni. Saloons aperti fino alle cinque di mattina a Fairbanks e Anchorage, cappelli texani « da dieci galloni », coreani, giapponesi, californiani, « colli rossi » della Louisiana e dell'Oklahoma, «mercanti di quaranta acri» e speculatori, nomadi e visionari fra la folla dei costruttori della pipeline più costosa del mondo, che scende dall'Artico al porto di Valdez. Boom dei terreni, delle banche, delle assicurazioni, delle compagnie aeree, di alberghi e locande, rapine, omicidi, grandi fortune. Le azioni dell'Alaska International, che trasporta merci con aerei giganti o elicotteri, erano a tre dollari un anno fa e ora sono a undici. Si replica, a Nord del sessantesimo parallelo, un ciclo di eventi e riti americani già illustrato in ogni pagina della storia continentale, dalla Bolla del Mare del Sud al boom dei terreni della Florida. Negli uffici dei brokers che trattano le concessioni petrolifere, o leases, piccoli possidenti delusi dalle quotazioni di Wall Street, irrequieti e temerari, coltivano l'illusione tenace come la fede volgare di trovar spazio fra le soverchianti compagnie del petrolio, che hanno versato d'un colpo 900 milioni di dollari solo nell'ultima distribuzione di leases. E poi, partite di pesca al salmone e al magnifico halibut tra consiglieri d'amministrazione, telex e telefoni in linea costante con Houston, la capitale del petrolio, o Washington, Seattle, Tulsa, New York, strade d'asfalto e piste di polvere affollate da lunghe colonne di trailers, o roulottes, in corsa con tutti i simboli del nomadismo americano. In un giorno dell'anno 1977, il petrolio greggio comincerà a scorrere sui 1280 chilometri della Trans-Alaska Pipeline, fra i ghiacci e le tundre, sino al porto di Valdez sempre libero anche d'inverno e alle tankers del ponte navale con la California. Sono attesi più di due milioni di barili il giorno, destinati a colmare un terzo del deficit americano. Oggi gli Stati Uniti consumano sei miliardi di barili l'anno, ma solo quattro miliardi e cento milioni di barili vengono estratti dal territorio nazionale o dai pozzi marini off shore. / 730 milioni di barili l'anno del North Slope, con gli altri petroli dell'Alaska, il gas naturale, le scisti e la liquefazione sintetica del carbone devono assicurare l'indipendenza energetica. Il North Slope è carico anche di gas e il carbone americano basta per due secoli. Oltre la crisi Ma non è tutto, le scoperte dell'Alaska continuano. Al Captain Cook Hotel incontro il governatore William Egan dopo un affollato caucus d'affari: « Le compagnie del petrolio, mi dice, sono discrete, reticenti, coltivano il segreto più delle diplomazie. Ma i giacimenti dell'Alaska, dal North Slope alla Cook Inlet e al golfo, contengono almeno 100 miliardi di barili di petrolio e 200 trilioni di piedi cubi di gas. Abbiamo le chiavi della crisi energetica ». Negli Stati Uniti la crisi del petrolio si riassume con una sola cifra. L'aumento del prezzo impone una maggior spesa di 20 miliardi di dollari l'anno per l'importazione. L'entità dell'onere sulla bilancia dei pagamenti spiega perché è in corso la gigantesca, costosissima impresa di trasportare il petrolio dall'Artico. Ora enormi per l'Alaska sono i capitali investiti, enorme sarà l'effetto moltiplicatore. Senza contare il denaro versato ai governo locale per le concessioni, la sola costruzione della pipeline da due milioni di barili il giorno costerà 4,5 miliardi di dollari, e non meno il gasdotto. Spettano al governo locale una royalty del 15 per cento, ancora un 7 per cento per l'imposta di produzione e il gettito d'una tassa per le strade. Questo significa un'irruzione di infrastrutture civili, porti, aeroporti, strade, scuole, ospedali, ferrovie. E le infrastrutture consentono molti boom a catena, l'uno dopo l'altro, dal petrolio al gas, al rame, allo stagno, al ero- 77io, all'uranio, al nickel. Il serbatoio americano di materie prime, già intatto, avrà trent'anni di boom, sarà la Siberia del planning privato e pubblico insieme. Sorgeranno città e Università. La prospettiva impone anche un riesame della geografia economica. Dinanzi alla corsa verso il Nord e le materie prime, tramontano le ultime nozioni tradizionali sull'impossibilità di fondare società complesse lontano dai climi temperati. Ancora nel secolo scorso, Hegel asseriva nelle Lezioni sulla filosofia della storia che nessuna società organizzata poteva nascere dove l'uomo era depresso o sopraffatto dai rigori naturali (« La zona calda e quella fredda non sono teatro della storia del mondo »). Ora la tecnologia tende a sopprimere il determinismo geografico. Anzi in Alaska, come anche nell'Urss, in Canada e in Scandinavia, una letteratura celebra la corsa al Nord, ricordando che nell'antica Sumeria la temperatura media era di 76 gradi Farenheit, nella Fenicia 70, in Roma 65, a Berlino 49, a Chicago 47, a Mosca 39, e ora cinque città industriali sono sorte nell'Urss oltre il sessantesimo parallelo, mentre a Fairbanks comincia un nuovo boom capitalistico. In verità poco o nulla pare vietato alla tecnologia, nella torrida Arizona o nella gelida Alaska, a Novosibirsk o a Bukhara. La questione ardua non è il governo della natura, ma delle masse umane, al freddo o al caldo, quando aumentano al ritmo degli interessi composti soverchiando le risorse disponibili, come a Bombay, al Cairo, a Rio, o anche nella black belt di Chicago. Corsa al Nord L'Alaska non ha simili masse, ma risorse naturali, alti salari, città e foreste assolate d'estate e aria condizionata d'inverno, con un reddito medio individuale che raggiungerà quello dell'Arizona. Anche i nativi hanno un boom, finora 130 milioni di dollari per i diritti tribali o personali sui territori del petrolio, divisi tra aleuti, eschimesi e quattro gruppi di indiani, tshimshiani, tlingiti, athabascani, haida, simili alle sopravvivenze di popoli sulle rive dei grandi fiumi siberiani. In una generazione, hanno conosciuto le slitte e i jets, il gold rush e Z'oil rush Già stremati dall'esistenza fra le sconfinate solitudini, la lunga notte di molti mesi d'inverno e il lungo giorno di molti mesi d'estate, la loro malattia peculiare era una forma di follia intermittente, detta « isteria artica ». Oggi sono testimoni e partecipi d'una isteria non artica. I tyonek, esiguo sottogruppo degli athabascani, a metà degli Anni 50 furono salvati con un ponte aereo dalla morte per fame. Ora in un giorno hanno ricevuto, e devono investire, dodici milioni di dollari. A Fairbanks eschimesi e indiani pubblicano un giornale nativistico-ecologico, il Tundra Times. Citando Arnold Toynbee, discutono sulla « arrested civilization ». Ma i più attenti spettatori del boom alaskano sono i russi, già proprietari del territorio e confinanti sullo Stretto di Bering ghiacciato, dove d'inverno si cammina e le pattuglie s'incontrano. Infatti il boom del petrolio, che segna la definitiva « scoperta dell'Alaska », non è che l'ultimo capitolo d'una storia che incominciò con loro. La prima scoperta fu di Bering e dei marinai russi, la seconda fu di James Cook, la terza fu del gold rush che negli Anni 90 vi trascinò i cercatori d'oro lungo il Klondike e lo Yukon, Z'oil rush dì questi giorni è detto « quarta scoperta dell'Alaska ». Il nome discende dalla lingua degli aleuti, Alyeska, « Grande Terra », poiché sulle isole aleutine sbarcò nel 1741 il danese Vitus Bering navigante al servìzio dello zar Pietro il Grande. I soldati russi e i mercanti di pellicce lo seguirono prima nell'arcipelago e poi sui bastioni del continente americano. La vicenda è stupefacente, anche se offre solo l'ultima occasione per illustrare il diffìcile rapporto tra l'accidentale e il reale nella storia. Il grande zar « Con dio alto nel cielo e lo zar molto lontano », i russi piegarono i nativi al knut, costruirono chiese ortodosse, fondarono città che tuttora si chiar. ano Baranov, Shumagin, Wrangell, Sitka. Signore della colonia, per decreto di San Pietroburgo, divenne il mercante siberiano Aleksandr Baranov, che stabilì il governo nella gaia e avventurosa città di Sitka. Le truppe dello zar giunsero dall'Artico fino in California, a Bodega Bay, dove fu insediato un presidio che tuttora è la base americana di Fort Ross. Il dominio russo sull'Alaska durò un secolo e un quarto, fu sul punto di estendersi alle Hawaii per il controllo delle linee di na¬ vigazione con la Cina, allora massimo mercato delle pellicce. Ma la guerra di Crimea pose fine ai vasti progetti russi d'egemonia sul Pacifico, poiché mostrò la forza soverchiante della flotta inglese, con i pericoli della superestensione del potere zarista, e ridusse i finanzieri di San Pietroburgo alla ricerca di denaro. Nel 1867 l'Alaska fu venduta dai rasoi agli Stati Uniti, come gli indiani avevano venduto Manhattan e Napoleone la Louisiana: la storia della più capitalistica fra le nazioni è di compravendite più decisive delle battaglie. Per « l'America russa », Washington versò il prezzo di 7 milioni e 200 mila dollari, meno che due centesimi l'acro, suscitando negli Stati Uniti memorabili proteste contro la folle e incomparabile ambizione di possedere 10 « scatolone di ghiaccio ». Ma fu il massimo contratto immobiliare della storia. Se lo zar, dopo la guerra di Crimea, avesse risolto diversamente la crisi finanziaria, oggi l'Urss avrebbe non solo 11 petrolio siberiano, ma quello d'Alaska, ultima riserva della superpotenza occidentale; dividerebbe con i governi arabi il controllo dei mercati e la dittatura energetica. Alberto Ronchey