"Manovra,, contro Sindona per i 600 milioni a Nixon? di Vittorio Zucconi

"Manovra,, contro Sindona per i 600 milioni a Nixon? L'offerta fatta per la rielezione del presidente "Manovra,, contro Sindona per i 600 milioni a Nixon? Un'inchiesta del ministro del Tesoro americano - Un deputato democratico ha chiesto la nazionalizzazione della Franklin Bank - Il mondo economico statunitense attacca violentemente il finanziere italiano - Un'inchiesta del "New York Times" (Dal nostro corrispondente) Washington, 15 luglio. Anche il nome di Michele Sindona, il finanziere italiano con larghi interessi in America, è stato coinvolto nello scandalo Watergate, di cui ogni giorno scopriamo un nuovo tentacolo. In un lunghissimo (otto colonne di testo) e dettagliato servizio, il New York Times afferma oggi di avere appreso, da fonti governative, che Sindona offrì un milione di dollari, circa 630 milioni di lire, per la rielezione di Nixon. Da Washington ci viene confermato che il ministero del Tesoro (attraverso i suoi servizi fiscali) ha aperto un'inchiesta al riguardo. Nel novembre del '72, solo pochi giorni prima del voto, Sindona prese contatto con Maurice Stans, il tesoriere di Nixon, e fece la sua offerta per testimoniare, dicono le «fonti», la sua «fede nell'America». La realtà sarebbe assai diversa: la principesca offerta doveva servire, dice il N. Y. Times, per stornare dalla Franklin (la banca americana di Sindona) e dagl altri interessi Usa del finanziere alcune imbarazzanti inchieste governative. L'offerta fu declinata, nonostante Sindona avesse precisato di contentarsi di un anonimato totale, sia per la eccessiva vicinanza con il voto (che avrebbe resa molto sospetta un'eventuale accettazione) sia perché, da mesi ormai, era in vigore una nuova legge assai severa sui contributi elettorali. L'offerta del milione di dollari (se accettata sarebbe stata fra le più consistenti di tutta la pur ricchissima campagna nixoniana) doveva rappresentare la punta di landa di tutta un'operazione volta ad assicurare alla Franklin e alle altre attività di Sindona stretti e cordiali legami con la Casa Bianca. Di questa strategia facevano parte le assunzioni di uomini vicini a Nixon nelle sfere dirigenti della Franklin. Questa di arruolare ex membri dell'amministrazione non è tuttavia una pratica scorretta o inconsueta negli Stati Uniti: al contrario, tutte le grandi società e istituti finanziari cercano di assicurarsi uomini con forti legami a Washington o, viceversa, di piazzare personaggi a loro vicini in posti di governo o di sottogoverno. Sindona era comunque riuscito a crearsi una magnifica rete di relazioni con il governo, il che nessuno gli avrebbe rimproverato se la sua banca, la Franklin, non si trovasse ora sull'orlo del crack, con perdite ufficiali nell'ordine dei 50 miliardi di lire, il proprio titolo «sospeso» alla Borsa e numerose inchieste pendenti. Il finanziere italiano assunse il controllo (22,5 per cento delle azioni) della Franklin nel giugno del '72, dunque in piena campagna elettorale (le elezioni fra Nixon e McGovern si svolsero in novembre): immediatamente egli chiamò come presidente della Franklin Harold Gleason, uomo legato a Nixon e ai suoi collaboratori, volle con sé David Kennedy, ex ministro del Tesoro sempre sotto Nixon, e scelse come studio legale il «Mudge, Rose, Guthrie and Alexander» di New York ove lo stesso Nixon aveva lavorato (e dove continuava a lavorare il figlio di Gleason). Tutti costoro erano e sono intimi amici di James Smith, che occupa a Washington il delicatissimo incarico governativo di «controllore delle valute» (ricordiamo che all'origine della crisi della Franklin sono proprio spregiudicate e fallimentari operazioni valutarie). Sono le rivelazioni sull'offerta, sulla «eccessiva» benevolenza nelle inchieste governative sulla Franklin che possono gravemente danneggiare Sindona e accelerare i tempi di una sua eventuale espulsione dalle piazze finanziarie americane, obiettivo evidente delle manovre in corso, di cui le rivelazioni fornite al New York Times sono certamente parte. All'epoca della generosissima offerta a Nixon, fatta dunque per testimoniare la fede di Sindona negli Stati Uni ti, il Federai Reserve di Washin gton (che è in pratica la «Banca centrale» americana) stava indagando per stabilire se Sindona avesse violato le leggi anti-con centrazione. Per acquisire il controllo della Franklin (allora la ventesima banca americana, dunque fra le maggiori), Sindona si era servito della sua «holding» internazionale, la «Fasco International», con sede fissata in Liechtenstein. La «Fasco» Liechtenstein possiede tre compagnie americane, la «Oxford Electric Corporation», ora ribattezzata «Seaport Corporation», la «Argus Inc.» e lSbcuatlHtc la sussidiaria «Interphoto Co.». Se la Federai Reserve avesse stabilito che Sindona aveva creato, con la «Fasco» e la «Franklin» un cartello finanziario, egli avrebbe dovuto disfarsi delle attività commerciali, a causa della legge nota come «Federai Bank Holding Company Act» che vieta l'appropriazione di attività commerciali da parte di «gruppi» finanziari. A due anni dall'apertura di questa inchiesta («forse per il potere persuasivo di Sindona» scrive il New York Times con scoperta ironia) ancora la Federai Reserve non ha preso decisioni sul caso Sindona, perché, ci dicono fonti a Washington, «la materia è estremamente complessa, l'applicazione della legge in questione è del tutto discre¬ zionale, e ancora i membri dirigenti della Federai Reserve Board non hanno concluso il dossier». Questa cautela appare se spetta, agli occhi di molti osservatori americani, e, a torto o a ragione, la scoperta del legame fra Sindona e la campagna elettorale di Nixon nel '72 suscita ombre sulla condiscendenza del governo verso il finanziere italiano. Condiscendenza che sembra destinata a non durare ancora molto. Accuratamente svegliata dai giornali e dagli interessi finanziari contrari a Sindona, l'opinione pubblica americana sta sempre più «indignandosi» nei suoi confronti: il mezzo crack della Franklin e le scorrette operazioni valutarie che ne sono l'origine offrono naturalmente un magnifico, e indiscutibile, pretesto per attaccare un finanziere straniero che ha cercato di mettere le mani nel mercato americano. In singolare coincidenza con le rivelazioni del New York Times, proprio oggi un deputato democratico del Wisconsin, Henry Reuss, ha chiesto in una lettera alla «Federai Reserve» la nazionalizzazione della Franklin, opponendosi a nuovi soccorsi alla banca pericolante «finanziati dai contribuenti». La clamorosa richiesta di Rcuss (membro influente della «commissione finanze» della Camera) sembra confermare l'esistenza di una dura manovra per «incastrare» Sindona e rintuzzare una volta per sempre le sue ambizioni americane. Vittorio Zucconi

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