Frontiera aperta a Trieste di Giorgio Fattori

Frontiera aperta a Trieste Problemi uguali per i gruppi italiani e sloveni Frontiera aperta a Trieste Le comunità dell'una e dell'altra parte del confine hanno le stesse speranze e recriminazioni - Le ha affrontate con chiarezza polemica il convegno sulle "piccole patrie", dove le due minoranze si sono riconosciute nei comuni obiettivi di difesa dell'identità etnica - Durante il dibattito una profonda e utile verifica delle posizioni sulla Zona B (Dal nostro inviato speciale) Trieste, luglio. Che cosa è cambiato, e cosa resta ancora da fare, per gli sloveni della Venezia Giulia e per gli italiani dell'Istria? La conferenza internazionale sulle minoranze tenuta a Trieste è servita soprattutto a ricapitolare i problemi, per molti versi simmetrici, delle due comunità di confine (100-125 mila sloveni e 25-35 mila italiani secondo le varie stime, tutte contestate). Un tema tradizionalmente difficile per la politica italiana e tra i più acutamente sentiti dalla Repubblica popolare jugoslava è stato affrontato con una chiarezza polemica, impensabile alcuni anni fa fuori dalle conventicole delle rispettive unioni culturali. Per la questione sempre in sospeso della Zona B è un contributo interessante alla verifica delle posizioni dei gruppi etnici. Nel dialogo indiretto con il potere di maggioranza, gli sloveni cittadini italiani e gli italiani cittadini sloveni e croati hanno manifestato le stesse speranze e recriminazioni. Con tono diverso, anche per le differenti situazioni politiche, le due minoranze si sono riconosciute nei comuni obbiettivi di difesa dell'identità etnica. Il loro destino è parso strettamente legato non soltanto per un sottinteso criterio di reciprocità di trattamento, ma perché sloveni di Trieste e italiani dell'Istria sono frammenti di uno stesso mosaico. Tutte e due le comunità affermano di costituire un problema interno delle rispettive nazioni, e non l'ostaggio o la merce di scambio di una trattativa diplomatica. Ma ambedue sono consapevoli che una più netta affermazione dei loro diritti dipende dalla qualità di rapporti tra Italia e Jugoslavia e dalla frontiera aperta di Trieste. Poiché una certa dose di vittimismo è logica arma di difesa delle minoranze che debbono gridare molto per ottenere poco, sloveni giuliani e, più cautamente, italiani dell'Istria e di Fiume, si mostrano allarmati per il futuro ed esigono precise garanzie costituzionali. Il timore è anche quello di una « assimilazione strisciante », che si verifichi a poco a poco sotto il mantello di una tutela formale dei diritti etnici. Non sono tutte preoccupazioni infondate. Ma dopo aver ascoltato nel lungo torneo di dibattiti della conferenza le voci disperate e furenti di altre minoranze europee costrette alla semiclandestinità e alla guerriglia per sopravvivere, i problemi delle comunità slovene e istriane sembrano di gran lunga più semplici, e comunque meno drammatici. Per gli sloveni di Trieste la svolta decisiva si ebbe con la giunta di centro-sinistra che rovesciò una situazione psicologica e politica di antagonismo etnico, avvelenata dal ricordo delle violenze del fascismo e della guerra. Nel 1965 un assessore sloveno entrò per la prima volta nel comune di Trieste. Oggi gli sloveni hanno un rappresentante in tutti i principali organismi amministrativi della Venezia Giulia. Nei piccoli comuni del retroterra triestino sette sindaci sono sloveni. Ma quello che più conta è il definitivo tramonto di un oltranzismo anti-slavo, alimentato dalle nostalgie e dalle frustrazioni dei profughi istriani. La frontiera aperta, con l'eccezionale volume di scambi commerciali, oltre a rilanciare l'economia triestina, ha smussato le rivalità nazionali. In questo quadro che gli sloveni della Venezia Giulia definiscono concordemente assai migliorato, resta in sospeso un « pacchetto » di rivendicazioni (ma l'idea del «pacchetto » è scartata dalla controparte che punta a soluzioni graduali). Abbiamo parlato con i leaders della sinistra: Bors Race, presidente dell'Unione economica slovena, e Karel Siskovic, direttore dell'Istituto di ricerca sloveno. Abbiamo ascoltato il consigliere regionale Drago Stoka, eletto con 11 mila voti nella lista unione slovena (il Volkspartei giuliano a prevalenza cattolico-moderata). I punti più contestati sono due: residue emarginazioni dalla vita economica della regione e problema degli sloveni misconosciuti delle valli del Natisone. Gli sloveni Gli sloveni di Trieste e Gorizia chiedono accesso più facile all'impiego pubblico, il bilinguismo alla televisione e nei tribunali (secondo una clausola del memorandum di Londra che non è stato ratificato dal Parlamento italiano). Polemizzano contro gli espropri del retroterra triestino e goriziano che sradicano dalle campagne i contadini sloveni, rischiando di disperderli nelle immigrazioni urbane. « Fra 50 anni, dice Stoka, saremo una minoranza senza terra, come gli ebrei ». Alcuni problemi non sembrano difficilissimi, come il bilinguismo che potrebbe trovare nuovi canali nella liberalizzazione della tv-cavo. Altri si scontrano con i mutamenti irreversibili della realtà socio-economica. E' possibile, per salvare i fondi agricoli, rinunciare a industrie, autoporti, superstrade che servono allo sviluppo di tutte le comunità giuliane? Con gli espropri si assottigliano i clan rurali, ma si consolida un ceto medio sloveno con più moderne esigenze: scuole a indirizzo scientifico, pieno inserimento urbano, nuovo ventaglio di possibilità di lavoro. Più che in difesa degl'inssdiamenti tradizionali, la sinistra slovena si batte per la conquista di nuove posizioni sociali nelle città. Molti tuttavia non si nascondono i rischi di una lenta « assimilazione spontanea » provocata dalla intensificata mescolanza con la comunità italiana. I più frequenti matrimoni misti, la vita di fabbrica, la standardizzazione culturale a livello di classe media, indeboliscono l'unità etnica della minoranza. Nella misura in cui gli sloveni abbandonano i villaggi del Carso e del Goriziano per una scalata sociale, perdono la compattezza dell'isolamento e si espongono ad essere involontariamente fagocitati. Questa segreta preoccupazione riaffiora nello schieramento politico degli sloveni. Il 60-70 per cento vota per i partiti di sinistra e avanza le sue rivendicazioni attraverso i partiti tradizionali (un terzo degli iscritti al pei di Trieste sono sloveni). Ma l'unione slovena, partito a base etnica che raggruppa soprattutto i cattolici, sostiene che inquadrarsi nei partiti a maggioranza italiana significa indebolire l'identità nazionale. Gli sloveni marxisti respingono questo ragionamento che, al di là della polemica, è un altro segno dei dilemmi di una minoranza sul modo d'inserirsi nella vita della nazione. Per gli italiani dell'Istria e di Fiume la via politica per portare avanti le rivendicazioni non offre ovviamente alternative. Essa pare al momento non troppo facile per gli strascichi indiretti delle « purghe » del nazionalismo croato. Gli italiani di Jugo- i slavia costituiscono il caso anomalo di una minoranza che optò di esserlo, rinunciando a trasferirsi in Italia. «Restando in Jugoslavia non decidemmo a favore di una nazione, ma di un sistema politico » dice il presidente dell'unione degli italiani, professor Antonio Borme. Gli italiani di Jugoslavia chiedono ora alla Costituzione croata Je stesse garanzie che offre quella slovena e condividono con gli sloveni triestini i malesseri delle minoranze non in contrasto nazionalistico con la società dominante, esposti all'assimilazione spontanea. 10 laureati Gli italiani dell'Istria, e di Fiume erano 300 mila prima dell'espatrio in massa che ancora solleva a distanza di anni interrogativi di natura, politica e umana. La piccola e media borghesia emigrò in blocco e al di là della frontiera rimasero soltanto dieci laureati italiani, con i pescatori e i contadini. L'impoverimento culturale non ha tuttavia schiacciato la minoranza, che a poco a poco, come gli sloveni della Venezia Giulia, ha migliorato le sue posizioni sociali. La compattezza etnica degli italiani appare sempre molto forte: ma anche qui la minoranza deve lottare contro le meccaniche pressioni dell'ambiente sociale per consolidare la sua identità. Compito degli Stati è di offrire tutti gli strumenti giuridici e sociali per la difesa delle minoranze, lasciando che siano esse a decidere se pagare il prezzo di una lenta snazionalizzazione uscendo dal ghetto etnico dei villaggi e della società chiusa. Sloveni di Trieste e Gorizia, e italiani d'Istria e di Fiume, hanno problemi di vecchio tipo ancora da risolvere e in prospettiva situazioni tanto più difficili, forse, quanto più riusciranno a porsi sullo stesso piano economico delle popolazioni maggioritarie. Per quello che riguarda l'Italia, la questione degli sloveni non riconosciuti delle valli del Natisone, rappresenta il modello tradizionale di lotta delle minoranze, e anche per questo richiama tante polemiche. Risolverla non dovrebbe essere difficile, secondo l'idea, avanzata più volte alla Conferenza di Trieste, di una legge-quadro dello Stato che permetta alle Regioni di risolvere con interventi locali i problemi dei gruppi minoritari. La tensione dei dibattiti ha confermato che alcune cose restano ancora da fare, con un'ovvia conclusione di fondo: al di là delle ipotesi dei sociologi sui futuro delle minoranze, i complessi problemi vanno affrontati con spirito di libertà e reciproca collaborazione. Così finiscono di essere problemi politici, e anzi divengono elemento determinante per la pacifica convivenza fra gli Stati. Giorgio Fattori

Persone citate: Antonio Borme, Bors Race, Karel Siskovic