Confidenze d'un giudice di Lietta Tornabuoni

Confidenze d'un giudice Brevi incontri Confidenze d'un giudice Per adesso, lutti al mare. L'estate rende più facile ogni rinvio, se ne riparlerà in ottobre o magari novembre. Questo non stupisce il giudice Renato Squillante, non lo indigna. « lo ho fallo il mio dovere, basta ». Considerava contraria alla Costituzione la decisione della Commissione parlamentare d'inchiesta di avocare a sé il processo che vede mescolati, intorno ai « fondi neri » della Montedison, danaro pubblico e danaro privato, finanzieri finanziatori e politici beneficiari. Considerava suo dovere avanzare denuncia presso la Corte Costituzionale, chiederne l'intervento e il giudizio: « E' necessario che la Corte, con la propria autorità, chiarisca quali sono i limiti in cui può e deve muoversi il giudice politico. Supercittadini non ne devono esistere». L'uomo che ha dichiaralo la guerra tra magistratura e potere politico ha quarantanove anni, poca statura, occhi celesti. E' un napoletano laconico, flemmatico: gli mettono una radiospia in ufficio al Palazzo di giustizia di Roma e non perde i nervi, viene scoperto un furgone-spia in diretta linea d'aria con le sue finestre e resta calmo. La denuncia alla Corte Costituzionale l'ha battuta a macchina da sé: è più sicuro e veloce di molti cancellieri, la dattilografia è una delle tante capacità pratiche che può capitare d'acquisire al quinto tra undici figli d'una vasta famiglia napoletana la cui unica risorsa era un negozio di biancheria per signora in via Chiaia. E' stato anche operaio al porto, ha lavorato nell'immediato dopoguerra con gli americani: impiegato, interprete, resta uno dei pochi magistrati che parli inglese. Col lavoro si pagò gli studi, la sua tesi di laurea verteva sulla «Incoine lax» americana, sui temi economici che continua a studiare perché « come protagonisti o come vittime, abbiamo ormai capito che sono le forze economiche a condizionare la politica d'un Paese». « Fa giustizia » da ventidue anni. E' entrato in magistratura nel 1953, chiedendo di essere assegnato a piccole sedi del Sud « perché lì la vita coslava di meno»; orendeva 54.000 lire al mese. Il trasferimento come giudice istruttore presso il Tribunale di Roma, dopo un periodo a Taranto, fu un trauma: «Roma è un ambiente particolare. Gli interessi sono quelli che sono, si sta molto più vicini ai potere... ». A Roma ha istruito il processo contro la Pagliuca: le facce dei bambini martiri di Grottaferrata, come gli apparvero nella loro prigione di fame e di paura, non riesce a dimenticarle. Ha istruito il processo Minichiello, e la storia del ragazzo d'Irpinia trapiantato nell'America straniera, andato volontario in Vietnam per guadagnare di più, divenuto ladro d'aereo per protesta contro l'amministrazione militare che non gli riconosceva la proprietà di 200 dollari, gli pare sempre «straordinaria, emblematica ». Forse perché pure lui, da ragazzo, tentò di emigrare da Napoli nell'America « che allora ci sembrava la Mecca », tentò di naturalizzarsi venezolano pur di entrare negli Stati Uniti. Dopo otto mesi d'attesa in Venezuela ri¬ nunciò: « Finii per capire che se qualcosa potevo fare dovevo farla nel mio Paese ». Appartiene a un nuovo genere di magistrati che ha una personale esperienza di povertà e durezza, che conosce magari a volte revanscismi ma non regole di casta. Fare giustizia, secondo il giudice Squillante, significa applicare la legge « con umiltà, nel rispetto più assoluto dei diritti della persona»; la giustizia «deve servire l'uomo piuttosto che proleggere un sistema sociale », come diceva con qualche sentimentale ingenuo fervore suo padre socialista. E' socialista anche lui, non iscritto al partito né ad associazioni di corrente della magistratura. Si occupa di ecologia, naturalmente: dirigendo la relativa Commissione del ministero della Giustizia. E' sposalo a una bruna molto bella, Liliana, con cui era fidanzato da sempre; hanno tre figli di 21, 17, 10 anni. 1 suoi amici sono « intellettuali aperti », possiede un appartamento a Roma, guida una 124, ha in affitto una casetta a Fregene, al cinema gli son piaciuti Lucky Luciano e Amarcord. Non è vanesio, parlare di sé lo fa star male dall'imbarazzo, ma « il magistrato deve lavorare in vetrina. Tutti debbono sapere che cosa fa, come, e soprattutto, perché ». Debbono, deve, dovevo, debbo, dovrebbero, dovremmo, dovere: proposito o monito, inguinzione o memorandum, sono le parole che ripete più spesso. Lietta Tornabuoni , . e i e . n di R Sil

Persone citate: Lucky Luciano, Minichiello, Pagliuca, Renato Squillante