UN DIBATTITO SUL "MODO ITALIANO DI GOVERNARE,,

UN DIBATTITO SUL "MODO ITALIANO DI GOVERNARE,, UN DIBATTITO SUL "MODO ITALIANO DI GOVERNARE,, L'equilibrio delle impotenze Tutti i poteri pubblici sono deboli: dopo il Parlamento e il governo, la crisi investe anche i sindacati L'amico Galasso ha aperto sulle colonne della Stampa una discussione importante: qual è il modo italiano di governare, e molto spesso di non governare? Nella quasicrisi del quinto ministero Rumor egli ha visto una conferma del « ruolo chiaramente subalterno » del Parlamento accanto all'eclisse del governo come istanza centrale del potere politico. Vorrei intervenire sul primo e sul secondo punto. Parlamento. Non direi che l'ultima crisi sia stata più «extraparlamentare» delle precedenti che hanno caratterizzato la storia della Repubblica. La radice stessa, ostentatamente extraparlamentare, della crisi, cioè delle dimissioni del presidente Rumor dopo le difficoltà delle trattative coi sindacati e dopo il contrasto coi socialisti, ha consentito al Presidente della Repubblica di ricorrere ad una formula inedita nella storia del nostro dopoguerra: la ripulsa delle dimissioni dopo essersi riservato di decidere, nel momento stesso dell'apertura delle consultazioni. Il gesto di Leone è apparso giustamente come un gesto di critica ai partiti, di biasimo a chi non aveva offerto alla suprema magistratura indicazioni precise né sui nomi dei candidati né sulla formula: ecco perché il Paese, percorso da una ventata di critica e di insofferenza verso i partiti, ha reagito con tanto spontaneo, generale consenso. Ma non riesco a vedere in cosa la funzione del Parlamento sia stata ridotta, o svalutata, rispetto a quasi tutte le precedenti esperienze del passato: non ultima la crisi del governo Andreotti nel maggio-giugno 1973, chiaramente e clamorosamente collegata ad una scadenza congressuale di partito, con ancora maggiore mancanza di riguardo verso le prerogative parlamentari. Anomale coalizioni E' il sistema stesso delle coalizioni, su cui si fonda da sempre la vita italiana, che porta alle anomalie e ai paradossi della nostra situazione parlamentare. Non esiste da noi l'alternativa rigida fra maggioranza e opposizione di tipo bipartitico, secondo lo schema prevalente nei modelli di stampo anglosassone o germanico. Da noi la maggioranza fu sempre un po' opposizione, e l'opposizione sempre un po' maggioranza: runa comprensiva di gruppi reduci dall'opposizione, l'altra dominata da forze prementi per inserirsi nell'alveo maggioritario. Fu così col « connubio » di Cavour o col trasformismo di Depretis e di Giolitti; è stato così perfino negli anni più solidi del dopoguerra, quelli del centrismo degasperiano. Con l'esperienza del centro-sinistra, tali inconvenienti originari e costituzionali del nostro sistema politico si sono accentuati. La logica del proporzionalismo, innestata su un regime di numerosi e contrastanti gruppi politici, porta fatalmente allo sbocco di non far coincidere le decisioni dei partiti con l'iniziativa del Parlamento. In Italia la maggioranza parlamentare non è mai legata, come in Inghilterra, ad una scelta dell'elettorato, pregiudiziale e in certo modo vincolante per tutto il corso della legislatura. Il minor peso del Parlamento sulle origini e sugli svolgimenti della crisi, al di là delle maggiori accentuazioni legate alla crescente disintegrazione delle nostre strutture politiche, ha una radice più lontana, ha una radice veramente « storica ». Riflette un sistema di « trasformismo » permanente. Il punto più grave è un altro, ed è quello che acutamente Galasso individua nella seconda parte del suo scritto: l'indebolimento del potere di governo, il logoramento sempre più evidente della funzione di guida riserbata all'esecutivo anche da precise norme costituzionali. E' su questo terreno che abbiamo registrato le abdicazioni più gravi e inquietanti, quelle richiamate anche dall'amico Galante Garrone nel suo intervento: abdicazioni alle centrali sindacali, ai nuclei di potere economico pubblici e privati, ai grandi enti di Stato (su cui lo stesso controllo del Parlamento è insufficiente e insoddisfacente; ricordo che nel 1968 un fondo di dotazione per l'Eni di 256 miliardi, di allora!, fu approvato in meno di un'ora dai due rami del Parlamento, in sede di commissione deliberante). Con la crisi del quinto ministero Rumor, siamo giunti in materia ad un primato finora sconosciuto alla storia della Repubblica e anche a quella degli ultimi anni o mesi della monarchia liberale, pre-28 ottobre: la difficoltà di trovare un presidente del Consiglio, la fuga di tutti i candidati, possibili o ipotizzabili, dalla responsabilità suprema dell'esecutivo (solo nel luglio-agosto del '22, di fronte alla reincarnazione del secondo ministero Facta, l'Italia conobbe un'esperienza non troppo dissimile). E' questa la conseguenza diretta della caduta costante del potere « governo », giustamente rilevata da tutti gli studiosi e politici intervenuti nel dibattito della Stampa. Ma attenzione! Anche qui la causa è di ordine politico, coincide col logoramento e con la graduale disgregazione della formula di centro-sinistra. Punto di partenza.: le elezioni del maggio 1968, l'infausto disimpegno dei socialisti e dei socialdemocratici dalle responsabilità governative dopo la fine dell'esperimento Moro (l'unico che aveva obbedito alla logica profonda dell'alleanza fra cattolici socialisti e democrazia laica), la conseguente scissio ne del partito unificato, la crescente rinuncia dei vari gruppi al loro ruolo di indicazione e di iniziativa politica, in coincidenza con l'emergere della contestazione e l'affermarsi del potere sindacale. Rischio più grave E' da sei anni che l'agonia di una formula politica domina e paralizza la stessa scena del Parlamento. L'impossibilità di alternative è sufficiente a far rinascere un governo dopo l'altro, e uno più debole dell'altro; non è sufficiente a ricostituire una politica. Ma il rischio, che affiora all'orizzonte, è più grave. Lo stesso fenomeno di esautoramento, che abbiamo constatato dal '68 in avanti nell'istituto « governo », si sta estendendo anche alle componenti I totalmente o parzialmente so¬ stitutive del potere governativo: a cominciare dai sindacati. La crisi di giugno ha dimostrato che le debolezze paralizzanti dell'esecutivo — quelle che hanno condotto alla rianimazione di un governo rinunciante per propria vo!ontà alla sua funzione — si estendono, quasi per contagio, alle grandi forze sindacali. Chiamati a pronunciare un « sì » o un « no » sulle misure fiscali e tariffarie decise dal governo, i sindacati finiranno per trincerarsi in un « ni »: conseguenza dei dissensi interni, del timore, comprensibile, di compromettere l'unità d'azione raggiunta, dal complesso che potremmo chiamare del «salto nel buio». Il nostro sistema politico si avvia a diventare una specie di « equilibrio delle impotenze ». Nessuno è in grado di indicare un'alternativa; ma nessuno vuole sorreggerlo fino in fondo il quadro attuale, obbedendo, anche a costo dell'impopolarità, alle leggi inteme alla sua dinamica. Se le forze politiche non riprenderanno coscienza della loro funzione preminente, i rischi per la sopravvivenza del regime saranno gravissimi. E la resistenza del Parlamento, per nobile che sia, non potrà bastare a colmare le insufficienze dei partiti, di cui è lo specchio. Tanto meno dopo la legge sul finanziamento statale dei partiti stessi: legge — Galasso ha ragione — che accentua la subordinazione dell'istituto parlamentare all'iniziativa dei singoli gruppi politici. Ma esiste — ecco il dubbio — tale iniziativa? Giovanni Spadolini

Luoghi citati: Inghilterra, Italia