Le metamorfosi di Antonioni di Furio Colombo

Le metamorfosi di Antonioni Le metamorfosi di Antonioni « Intervista » è una strana parola. Nel mondo della stampa e delle comunicazioni di massa significa interrogare e cercare risposte confrontandosi direttamente con una persona. La parola avverte che l'atto di intervistare è reciproco. I personaggi sono alla pari o accettano di esserlo tanto che del più potente dei due si dice « ha concesso una intervista ». I ruoli sono mutevoli, se si pensa a quanto un intervistatore rivela di sé, oltre che dell'intervistato, e la registrazione è « perfetta ». L'accordo, cioè, è che qualunque cosa detta sarà ripetuta nel testo senza cambiare una virgola. Può accadere che il giornalista lamenti la reticenza di chi accetta l'intervista ma poi non vuole rispondere. O che l'intervistato denunci la « manipolazione » di quello che ha detto, che non riconosca le sue parole nel testo. In questo caso fanno fede il prestigio professionale del giornalista o la fedeltà dello strumento usato, per esempio una televisione che non conosca censure. Vuol dire che questa è la strada per raccontare senza ambiguità ciò che accade, che esiste un punto di verità che non si può più smentire? Antonioni ha finito di fare un film (« Il passeggero ») che si basa sull'intervista. Intervistare è il mestiere del protagonista, un giornalista della televisione che cerca la verità al punto da non lasciare mai la « sua » traccia. O almeno questo è il suo desiderio, annegare nel mare dell'obiettività, disporre gli strumenti, accendere registratori e cineprese e farsi indietro, in modo che venga avanti la vita. Questo sforzo lo spinge verso un confine. Se non sono un autore, se non sono un protagonista se devo restare fuori e accanto alla vita, che è il potere, la violenza, il trionfo, la disfatta, la morte, dove mi metto? E chi sono? Nasce, irresistibile e oscuro, il desiderio di essere perfetto anche in questo: scomparire. E rinascere come «nessuno», vivere come un'ombra che non lascia le impronte. Cautamente il personaggio di Antonioni si accerta, con una lunga intervista, che l'uomo di cui prenderà i dati e la vita non ha un'impronta, non ha qualità. Il gioco riesce ma il destino svela la sua sorpresa sorniona: una vita « qualunque » può essere prenotata per appuntamenti tremendi. D'ora in poi giochiamo fra la triste coscienza del destino segnato e la tensione del rischio. Le scadenze sono le carte coperte di questo gioco: dove, come, con chi mi accadranno le cose che a mano a mano vado scoprendo? Sono gli altri, adesso, che mi interrogano, mi scrutano, mi valutano, mi giudicano e alla fine decidono. Io partecipo alla parte spezzata di un dialogo di cui mi manca la chiave. Insomma vivo. E vado al mio appuntamento. Questa è una interpretazione, non la trama del film di Antonioni, è appena un filo nel meccanismo che mi è sembrato complicato e perfetto, e che appare come un grande « giallo » da non intaccare in anticipo con incaute rivelazioni. A me preme discutere questa strana, nuova ossatura del narrare che si confronta con il mestiere di riferire la verità, e si esprime, nei punti-chiave, con la tecnica della intervista. Il racconto è denso e galoppante, e forse non era mai accaduto che la trama si facesse cosi ricca, nei film di Antonioni. Ma la padronanza degli strumenti è delicata e totale. Perciò tutto si piega a questa intuizione. ★ ★ Guardando il film si ha la sensazione che una mani documentaria segua e registri la mano che sta inventando la storia e che si crei una tensione fortissima fra queste due mani, che è la vera tensione del film. Sembra cioè che un documentario sia girato accanto, in concorrenza o addirittura al di sopra del film, come una specie di tentativo di darci « più verità » di quanta ne possa contenere la '.rama. In questo modo il regista gioca il gioco inverso rispetto al suo personaggio, che vuole uscire dal documentario per entrare nella storia di uno qualunque, vuole una vita sorteggiata dal mucchio di tutte le vite. Questo film è dunque un crocevia nel quale diversi appuntamenti si compiono. Gli strumenti di descrizione della vita — dal registratore al reportage filmato — si confrontano con l'avventura di vivere. E l'avventura di vivere perde di chiarezza e cresce di intensità a mano a mano che si allontana dalla registrazione spassionata e fedele. Salvarsi senza vivere o vivere senza salvarsi. Il protagonista (Jack Nicholson) è un uomo che si sposta prima in avanti, il più avanti possibile, per cercare e documentare, quando è giornalista e servitore fedele delle informazioni. E poi all'indietro, in un gesto di arretramento nell'ignoto, dove tutto è destinato a perdere nomi, connotati e definizioni. E lo fa cercando di essere « un altro », irresponsabile e oscuro. In questo modo la tragedia che si compie ogni giorno nel mondo e che, con le sue didascalie, le sue etichette, le sue giustificazioni e le sue ideologie appare troppo crudele, si può tollerare quando ritorna primitiva e ignota, conforme a un naturale destino di morte. L'anonimato di tutto diventa la strada avventurosa e tragica di una sorta di accettazione: non so chi sono io, non so chi sono « loro », non so perché si spara; si uccide, si paga o si salva la vita. Delle due donne del film una, la moglie, rappresenta l'identità logica, infaticabile e ottusa che crede nelle «prove» e crede che ci sia una prova di tutto. L'altra (Maria Schneider) è il rifugio della non identità, dell'avventura all'interno di un destino finito, dove qualcuno gocciola i giorni e conta i movimenti, anche se il protagonista non sa quante mosse gli restino. Rappresenta una zona di tenerezza proprio perché è indefinibile e anonima, tranne la forma della bellezza, e sta accucciata accanto alla vita, non passiva ma certamente protagonista di nulla, come per una intuizione o un presentimento animale. * * La tecnica e il linguaggio della intervista dissipano ogni possibilità che il mistero sfumi in qualche sorta di misticismo. L'intervista ci mostra, come l'occhio documentario che sorveglia la scena, che non è Dio, dietro l'angolo, a contare le mosse, né per conforto né per condanna. Tutto il gioco è reciproco. L'uomo-reporter adesso è pedinato, sorvegliato, inquisito e alla fine giocato dallo stesso mondo, quasi dalle stesse facce e persone su cui, per mestiere, era addestrato a far luce. Inaspettatamente, nel punto più « romantico » e poetico della vicenda (che è anche il più bello), quando il protagonista ha capito quale sarà la conclusione del gioco, scintilla come una lama il significato politico del discorso. Potrebbe anche essere la storia dei gior nalisti di Allende che adesso girano braccati nelle periferie vendendo lacci da scarpe e imparando « da sotto » la squallida vita che volevano riscattare scrivendo. Ma questa, per quanto nobile, sarebbe una interpretazione un po' troppo precisa e un po' troppo riduttiva di un film che, invece, nella tesa costruzione di « un giallo » si porta addosso un mistero. Il mistero consiste nel lasciarsi sedurre dall'avventura di esistere pur sapendo che questa seduzione porta solo alla morte o a uno scacco. E che la fine viene un po' prima della « verità ». Come un prigioniero che accetta un'occasione di fuga benché abbia tutte le ragioni di sospettare la trappola. Mi domando se non sia stata anche la esperienza del documentario sulla Cina a spingere Antonioni verso questo nuovo percorso in cui un film e un documentario si inseguono e rappresentano un appassionato dibattito sulla possibilità di accertare la realtà. A me sembra di cogliere, nei momenti più tesi, la traccia di quei grandi silenzi cinesi in cui Antonioni scrutava e veniva scrutato, giudicava e veniva giudicato, rappresentava e veniva rappresentato nella testa di milioni di personaggi-alternativa, milioni di vite radicalmente diverse che gli passavano davanti alla macchina da presa. Anche il rovesciarsi brusco della situazione fra Antonioni e la Cina, la strana febbre che ha fatto di un «grande ospite», di « un maestro » un nemico attaccato con misteriosa brutalità, ha segnato forse l'esperienza e il punto di vista di Antonioni. Credo che testimoni di questa tensione l'impianto di due storie parallele, nel film. Da una parte il protagonista scivola via dal suo ruolo per non stare più da « questa » parte della verità, dalla parte dell'occhio che filma e che giudica. Dall'altra la moglie, ostinata identificatrice di fatti, cerca nella moviola quella parte di verità che teme le sia sfuggita. E torna continuamente a vedere ciò che è stato detto e filmato nelle interviste dell'uomo scomparso, sicura di trovare una traccia. La ragazza che si accompagna al fuggitivo è la sola creatura scampata al contagio della comunicazione di massa e delle sue macchine. E' la sola che può dire, nel momento più tragico, quando tutti hanno perso il filo, « io lo so ». Ma è una piccola santa senza speranza. Come in un laboratorio radiologico restano appesi gli scheletri delle interviste e i reperti dei documentari. Eccoli lì, che dicono tutto e non dicono niente. O mai abbastanza. Ma la morale non è il furore alla Adorno contro gli strumenti della comunicazione. Al suo eroe più complesso, sensibile e quasi autobiografico Antonioni ha dato l'intervista come strumento per conoscere il mondo, e la macchina da presa come occhio « obiettivo ». E lo lascia partire con due avvertimenti: di non fidarsi e di non rinunciare, che è il livello più alto di una morale laica. E' il messaggio, o uno dei messaggi, di un film straordinariamente bello. Furio Colombo

Luoghi citati: Cina