Ritorno alla "triste scienza,,?

Ritorno alla "triste scienza,,? ULTIME NOTIZIE DAGLI STATI UNITI Ritorno alla "triste scienza,,? La simultaneità d'inflazione e ristagno mette in dubbio molte orgogliose certezze - La Borsa scende malgrado l'afflusso dei "petrodollari" arabi, i risparmiatori corrono verso Poro - Si dimostra impossibile conciliare sviluppo, pieno impiego, stabilità dei prezzi - Gli economisti non fanno miracoli (Dal nostro inviato speciale) New York, luglio. Le vie congestionate di Wall Street, dove ogni uomo urta un altro uomo, rappresentano fisicamente l'idea dell'inflazione. Sono profonde e sottili fenditure, gole affollate tra i grattacieli degli Anni 60, le vertiginose formazioni vetrometalliche lasciate come vestigia dal boom più lungo. Oggi ancora gualche trionfale e trasparente costruzione va su, decolla come per errore o riflesso condizionato, come un missile non guidato. Ma lo stato d'animo è giù, lo Stock Exchange è giù, gli indici Dow Jones, Nyse, Amex, Nasdaq sono giù al livello di dieci anni fa. Wall Street è malata d'un intimo pessimismo. L'inflazione dovrebbe favorire l'investimento del denaro, ma non è sola, convive con la stagnazione, si chiama stagflation. E tutti avvertono che ormai l'entità dei fenomeni abnormi è senza esempio nel passato. Lo stato d'animo è non solo ansioso e timoroso, ma penitente. Eppure qui sono gran parte dei « petrodollari », le rendite petrolifere di quelle nazioni arabe, dette « casseforti nel deserto », che possono assorbire nello sviluppo interno solo una frazione minima del nuovo capitale: Arabia Saudita (21 miliardi di dollari nel '74), Kuwait (8), Abu Dhabi (4,8), Qatar (1,5). Ora gli arabi sono proprietari non solo di un'isola nella South Carolina e di vasti immobili sulla Fifth Avenue di New York, sulla Strip di Las Vegas, in Georgia, nel Kentucky, in California, ma d'un vario portafoglio di azioni e obbligazioni, affidato alla Chase Manhattan e alla First National City, che comprende General Motors e General Electric, National Cash Register e Ibm, Eastman Kodak e Avon Products. Poiché i «petrodollari» sono a Wall Street, ma l'indice delle quotazioni è giù, non si sa dove sia il nuovo denaro dei venticinque milioni di azionisti americani. Charles Stahl, editore dei Green's Market Commodity Comments, sostiene che l'oro comprato illegalmente all'estero dai cittadini americani raggiungeva un valore di 6 miliardi di dollari nel '72, di 13 o 15 nel '73, e ora avrebbe raggiunto 20 o 24 miliardi. Se tali stime sono fondate, è forse spiegabile perché Washington ha deciso non senza rischio che i privati cittadini americani potranno possedere legalmente oro dalla fine del '74, dopo una proibizione di quarant'anni. Il calcolo è che almeno verrà comprato oro in casa, anziché all'estero, con vantaggio per la bilancia dei pagamenti: già due miniere d'oro sono state riaperte in Alaska. E' possibile persino che abolito il proibizionismo dell'oro, come già dell'alcol, la domanda legale sarà inferiore a quella illegale. Ma che accadrà veramente, quando il segretario al Tesoro aprirà il forziere sigillato dai tempi di Roosevelt, è questione controversa. Adesso l'oro è a 145 dollari l'oncia. James Dines, editore della Dines Letter, pre¬ vede che il prezzo giungerà a 400 dollari l'oncia all'inizio del '75. Altri esperti prevedono 200. Altri ancora stimano che le cessioni d'oro dei governi per colmare i disavanzi delle loro bilance valutarie avranno un'influenza opposta all'aumento del prezzo. Anche la stretta monetaria, limitando la liquidità, può indurre i possessori d'oro a disfarsene. Gli «orodollari» Dunque la « moneta intelligente» dovrebbe vendere oro e non comprare. Ma quanta è la moneta intelligente? « L'oro ha un fascino mitico, su questo Freud e Keynes concordano », ha osservato Paul Samuelson sul fe¬ l'ottica del ritorno al «senso del limite », se non proprio alla « dismal science », alla triste scienza del passato. Ne offre un esempio non meno eloquente Henry Wallich dell'Università di Yale, che ha vasta udienza anche fra gli «uomini pratici» della finanza, dell'industria e dei sindacati. Wallich adotta come chiave interpretativa del meccanismo inflazionistico la celebre « curva Phillips », così detta perché l'economista inglese Alban Phillips descrisse nel 1958 con tale mezzo la teoria d'un rapporto funzionale tra il tasso d'occupazione e il tasso d'inflazione. Phillips aveva scoperto che nella storia inglese la pressione salariale era stata sempre elevata quando la disoccupazione era esigua e viceversa. Dunque, secondo numerosi interpreti della « curva » e delle sue traduzioni su scala americana, la disoccupazione poteva esser limitata consentendo all'economia un maggiore tasso d'inflazione. Bene, osserva Henry Wallich, simili concetti presupponevano che l'inflazione fosse arrestabile a un certo livello e « senza costo » o quasi. Ma non è vero. Il meccanismo funziona così. A un livello esiguo della disoccupazione, che consente una discreta pressione salariale, il sindacato rivendica e ottiene un aumento contrattuale del 5 per cento. Ma l'aumento della produttività, il prodotto orario prò capite, è intorno al 3 per cento. Dunque i costi aumentano del 2 per cento. Se i prezzi sono fondati sui costi, per mantenere costanti i margini di profitto e dunque gli investimenti, devono aumentare del 2 per cento. Questo riduce dal 5 al 3 per cento l'aumento del salario reale, il potere d'acquisto costante del salario. Ma il sindacato, deluso per aver ottenuto un aumento reale del 3 per cento, avendo negoziato il 5, nel successivo contratto negozia e ottiene il 7 per cento. Ancora i costi e i prezzi aumentano, dunque nasce una spirale in cui l'aumento del salario reale non supera tuttavia il 3 per cento. E' un esempio schematico, in pratica le cose procedono diversamente. Sotto un modesto tasso d'inflazione, si tende a ignorare il corso dei prezzi. Ma al di sopra, la « money illusion » svanisce e la spirale è continua e violenta. Solo allora il potere pubblico impara che per contenere il tasso della disoccupazione al livello fissa¬ to deve tollerare tassi d'inflazione sempre maggiori. Ma non è tutto, in seguito i prezzi aumentano anche con un tasso più elevato delta disoccupazione. Dunque la curva Phillips non è stabile, nasconde molte cose. Ora negli Stati Uniti sono in ascesa la disoccupazione e l'inflazione insieme, l'aumento dei prezzi al consumo raggiunge V11.5 per cento e la disoccupazione è al 5,2 per cento della « labor force ». Accade che alcuni mercati del lavoro, essenziali per l'economia, sono « tesi » mentre la disoccupazione è già diffusa in altri settori. Inoltre, poiché viene censito come « disoccupato » chiunque si definisce tale, il fenomeno generale della disoccupazione è sempre più complesso e sfuggente in un'economia moderna di fondo prospero, dunque il rapporto con i modelli dedotti dalla curva Phillips è alterato. Donne e giovani Alla fine del '72, per esempio, il tasso globale della disoccupazione era al 5,5 per cento, comprendeva solo un 3,4 per cento di « heads of households », o capi di famiglia, un 5,5 di donne, un 15 di giovani sotto i vent'anni, spesso alla ricerca non d'occupazione ma d'una particolare occupazione, o inclini all'occupazione solo a periodi alterni. Dall'analisi, benché dubbia o provvisoria come quasi tutto nell'economia, affiora una tesi evidente. Non è più possibile ridurre la disoccupazione tollerando l'inflazione. Troppi modelli econometrici hanno promesso fatti e cifre irreali. Dagli ultimi Anni 60 al '73, la pressione inflazionistica ha superato tutti i calcoli, per non dire del '74. Ora. la disoccupazione del 5,2 per cento non è lontana dal « pieno impiego », che su scala americana è per convenzione il 4 per cento, l'equivalente del 2 per cento inglese. Ma l'll,5 per cento d'inflazione è molto in rapporto a quel 5,2 e alle risorse della nazione occidentale più ricca di tecnologia e di materie prime. Forse alle folle deluse e confuse non si dovrà tornare a esporre davvero la « triste scienza » del passato, ma dire qualcosa comunque di non allegro, con il dubbio crescente che le nozioni liete o non liete di questa materia possano chiamarsi scienza. Alberto Ronchey New York. Passeggiando per le vie affollate di Wall Street, tra i grattacieli degli Anni Sessanta (foto Ghislaine Morel) nomeno degli « orodollari ». La sfiducia nella moneta di carta suscita correnti emotive non controllabili e gradite solo al Sud Africa o all'Urss, i due massimi produttori d'oro. Non pochi temono che una corsa all'oro non produttivo spogli l'economia dei capitali necessari alla produzione, suscitando ancora inflazione. Il Wall Street Journal confuta l'argomento con un esempio: « Se Jones prende 145 dollari dai suoi risparmi per comprare un'oncia d'oro da Smith, le risorse che Jones sottrae al mercato dei capitali sono esattamente pari al deposito di Smith ». Eppure, se Jones e Smith avessero investito in azioni produttive, anziché in oro al- l'estero, l'economia non dovrebbe fronteggiare problemi di quarant'anni fa. Nello spleen di Wall Street, è evidente anche il senso d'un inquieto ritorno al passato. Anzi, allorché dal denaro la discussione torna alle idee economiche, piacciono i sermoni sulla natura illusoria di quelle teorie, che negli ultimi decenni proclamavano il superamento dell'economia tradizionale. Al club dei brokers di Wall Street discutono con favore sulla tesi di Irving Kristol, della New York University, che annuncia la necessità d'un ritorno all'economia come « triste scienza ». L'inflazione contemporanea, secondo l'analisi dì Kristol, è fuor di misura e non è un incidente, non è più dovuta a circostanze come una guerra, il Vietnam, o a una vicenda eccezionale, il petrolio. E' un dato generale e durevole, anzi permanente. Il fenomeno è « politico », nel senso che ora normalmente ogni potere pubblico spende e permette di spendere molto più del prodotto nazionale a prezzi stabili. Ma tale definizione indica più che le semplici responsabilità di governo. Così come «i ricchi sono diversi da noi solo perché hanno più soldi », allo stesso modo « gli uomini di governo sono diversi da ' nói solo perché hanno più potere ». Ora l'uso del potere, come del denaro, non è determinato dal semplice arbitrio, ma dalla « comune cultura », dalle « idee sul modo in cui sono le cose», da quella che si chiama « opinione pubblica ». E allora nessuno è innocente, infatti la causa prima dell'inflazione viene attribuita all'esplosione delle aspettative di massa. Contro l'utopia Chi ha favorito la « explosion of expectations »? Per trent'anni, ricorda Kristol, gli economisti si sono dedicati come nessun altro a celebrare la « rivoluzione delle aspettative crescenti ». Certo lo stesso capitalismo nacque dall'insoddisfazione verso la società stazionaria, dunque è naturalmente alleato con le « rising expectations » o con « qualcosa di simile ». Ma fino alla seconda guerra mondiale, la rivoluzione capitalistica fu misurata, per soddisfare aspettative misurate. Lo stesso Keynes non fu mai utopico, si limitò a dire che le grandi depressioni erano evitabili, che l'intervento dello Stato poteva restaurare l'equilibrio economico, ma che raggiunta la stabilità il sistema sarebbe tornato ai normali e misurati tassi di sviluppo. Invece fu dopo la seconda guerra mondiale, dinanzi alla sfida dell'Urss, al « miracolo » tedesco, al mondo sottosviluppato in cerca di modelli, che gli economisti cominciarono a promettere tassi di sviluppo reali del 5 e persino dell'8 per cento. «Gli Anni 70 disilludono simili fantasie ». La misura dell'inflazione dice davvero questo? La sentenza è severa, persino catastrofica, ma esprime un dubbio diffuso. Altre analisi assumono