Uccide due figlie a fucilate perché vendono un terreno di Fabrizio Carbone

Uccide due figlie a fucilate perché vendono un terreno Tragedia familiare alla periferia di Roma Uccide due figlie a fucilate perché vendono un terreno L'uomo, 66 anni, era stato tenuto fuori dall'affare ■ Nella sparatoria ha anche ferito un nipote giunto da 1 rino - Aveva già scontato 13 anni di carcere per l'uccisione d'un carabiniere durante la guerra (Nostro servizio particolare) Roma, 5 luglio. Raccordo anulare sud paralizzato: polizia e carabinieri stanno dando la caccia ad un uomo armato di pistola e lupara che ha tentato di sterminare la sua famiglia, uccidendo due figlie e ferendo il nipote, arrivato pochi giorni fa da Torino assieme alla madre. E' la follia omicida di Vincenzo Di Leo, 66 anni, di cui 13 trascorsi in carcere. La tragedia si inserisce in un ambiente di emigrati calabresi, in un « ghetto » senza strade e senza fogne che si chiama «La rustica», ai margini della borgata di Tor Sapienza: case in blocchetti di tufo, polvere e miseria, abusivismo tollerato. La famiglia Di Leo vive qui, a ridosso del raccordo anulare proprio all'altezza dello svincolo che porta all'autostrada per l'Aquila, in una doppia palazzina a quattro piani, con un cortile chiuso da un cancello di ferro. Sono passate da poco le 14 quando i sette figli del Di Leo, tornano a casa dopo una passeggiata nel centro della città: hanno un affare da discutere assieme ai famigliari. C'è un bell'appezzamento di terreno, di proprietà della famiglia, che può rendere milioni, basta mettersi d'accordo. In quest'affare hanno lasciato fuori il padre Vincenzo. E lui, dal carattere violento, vuole vendicarsi. Li aspetta nascosto in casa con il fucile imbracciato. Quando i figli superano il cancello Di Leo comincia a sparare a ripetizione; cartucce rosse a panettoni. Colpisce a morte la figlia maggiore, Raffaella, 38 anni, e in modo grave la più giovane, Giuseppa, 31 anni. Gli altri figli riescono a fuggire: Nicola Barbieri, il nipote, viene ferito alla schiena. Lui era arrivato da Torino insieme con Serafina Di Leo, la madre, con una 500 gialla. A Torino abitano in via Pietro Micca 14. Accorre gente e l'uomo minaccia di uccidere tutti. La figlia Giuseppina non è ancora morta. Qualcuno vorrebbe intervenire per salvarla ma il Di Leo le spara a bruciapelo il colpo di grazia. Poi l'uomo torna in casa e si barrica. Arriva la polizia in forze. Un testimone racconta di aver udito un colpo d'arma da fuoco all'interno. Si immagina che Vincenzo Di Leo si sia ucciso. All'arrivo del magistrato di turno si decide per l'irruzione. Gli agenti sparano lacrimogeni e lanciano i cani poliziotti. Ma la casa è vuota: Di Leo vi è rimasto pochi minuti, il tempo di scrivere una lettera. « Dopo 18 anni di matrimonio — è scritto — i figli costringono la madre ad ammazzarmi a colpi di ac¬ cetta per una schifezza di proprietà. Io la proprietà la dono a chi la merita. Tutti d'accordo, tutti d'accordo mi hanno fatto fare due mesi di manicomio. Non sono pazzo. La polizia può provare che non sono pazzo prendendo informazioni ». Con quel colpo di pistola l'uomo è riuscito a guadagnare tempo. Ha scavalcato una finestra fuggendo. Polizia e carabinieri evidentemente non avevano circondato del tutto la palazzina, credendo di trovarsi di fronte ad un folle. Mentre si fanno i rilievi sulle due donne morte e il magistrato tenta di ricostruire l'accaduto, si scatena la caccia all'uomo. Gli elicotteri sorvolano i prati della periferia, cani poliziotti e agenti battono ogni pista. Sembra — ma non è così — che lo abbiano localizzato in una zona di cave di tufo, le « grotte di Solone». A casa rientrano i figli. Urla disumane, svenimenti. E' la realtà che segue al dramma. « Una famglia di brava gente — dice una donna in lacrime — ma non ho il coraggio di vedere questi morti. Gente che lavorava. Uno dei figli sta con mio marito. Li conoscevo ». Altri si accalcano: donne coi bambini al collo che fissano i due cadaveri accartocciati nella polvere, le mani strette alla terra. L'uomo, al quale si sta dando la caccia, uccise in tempo di guerra un brigadiere dei carabinieri a Vibo Valentia, in Calabria. Scontò 13 anni e venne a Roma per lavorare come edile, con l'autorizzazione del magistrato. Lavorò alla costruzione del ministero degli Esteri poi tornò in Calabria. Riprese il lavoro a Roma sempre come carpentiere e cementista. I soldi che metteva da parte li investiva nella casa di via Galatea 100. L'anno scorso cominciarono i dissapori in famiglia per colpa della proprietà che aveva comperato. Una notte ci fu una lite e la moglie del Di Leo colpì il marito con un colpo d'accetta. Il Di Leo fu accusato dai figli di essere pazzo e messo in manicomio. Uscì esattamente un anno fa: il 5 luglio '73. La moglie invece fu colpita da disturbi cardiaci e si trova ancora in clinica. Da quel momento Vincenzo Di Leo fu abbandonato dai figli; rimase nella casa al primo piano, solo. La rabbia dell'uomo riesplose due giorni fa quando arrivò la figlia Serafina da Torino. Minacciò di uccidere chi cercava di nascondergli i progetti per la proprietà. Oggi, dopo la passeggiata della famiglia da cui era stato escluso, ha compiuto la strage. E' introvabile. Qualcuno dice di averlo visto alla stazione Termini, in attesa di partire. E' stato accertato che è in possesso di un passaporto ed è armato. Fabrizio Carbone