Sanremo, che delusione

Sanremo, che delusione Malinconico declino del Festival canoro Sanremo, che delusione Questo spettacolo è stato visto anche all'estero - Così la vincitrice Iva Zanicchi (Dal nostro inviato speciale) Sanremo, 10 marzo. Iva Zanicchi ha dunque vinto il Festival della canzone di Benevento. Non è un errore; Sanremo non c'entra. Hanno deciso le città sedi di giuria, la mano del notaio che ha estratto le sei decisive su quattordici che avevano votato. Le canzoni non contano, è stata una questione di vassallaggio. Se tra le sei giurie ci fosse stata Maddaloni, avrebbero magari vinto i Domodossola; l'Istituto Maffei di Torino, che ha un coro che incide per la stessa casa discografica, avrebbe forse designato Emanuela Cortesi, così come il Brenta avrebbe forse acclamato l'cJrchestra-spettacolo Casadei, se il tardivo tentativo di riammetterla in gara con Franco Simone, portando da quattro a sei il numero dei « giovani » finalisti, fosse riuscito. La classifica del 24" Festival di Sanremo, severamente vietata dai sindacalisti della canzone, ma propalata da più fonti nelle ultime ore, è di una inutilità che ingiuria chi ha ascoltato note per tutta la settimana. Prima: Iva. Zanicchi, che senza i 28 voti di Benevento non avrebbe certo raggiunto quota 36 ma anonimamente veleggiato nella bassa classifica. Secondo: Modugno (27 voti) su cui ha influito solo in parte il Brenta, riducendo la sua partecipazione a soli 18 sì. Fluttuanti nelle posizioni di rincalzo i Domodossola, Anna Melato ed Emanuela Cortesi. Non credete ad Al Bano che si proclama battuto per soli 4 punti, altrimenti dovreste porvi seri interrogativi sulla « riffa » che ha premiato Iva Zanicchi e sul folgorante intuito del più popolare e serio rotocalco specializzato, che l'ha messa in copertina con una settimana d'anticipo. Rispettiamo il silenzio di Gilda Giuliani, Orietta Berti, Milva. Non sono meno immeritevoli, ma almeno buoni giocatori che sanno perdere. Ci sono poche possibilità che ci mettiamo a cantare questa « Ciao, cara come stai? », già improbabile in quella punteggiatura che vuole una pausa prima del cara. «E' una storia d'oggi, di una coppia in difficoltà che non sa parlarsi» si difende il paroliere Claudio Daiano Fontana, tardo emulo dell'Antonioni pre-rivoluzione culturale. E bisogna dire che ci ha messo garbo, perché pur scialacquatore, perdente nato, incomunicabile, l'uomo che tormenta la Zanicchi questa volta è almeno educato. Quanti, non meno cialtroni di lui, rientrando a casa si limitano a domandare: « Pronta la minestra?». Però, a nostro avviso, oltre alla potente voce della protagonista, ci vuole anche una musica, un'aria, che a questa inneffabile prova d'educazione ci si è dimenticati di mettere. Può protestare Modugno, improbabile cinquantenne che non conosce crisi nel testo, ma abile manipolatore di note con almeno una frase da scolpire nella memoria musicale dei non più giovani fans traditi da Casadei: «E ogni ruga è un bel flore, un pensiero d'amore... ah! ah! ». Può contestare Gilda Giuliani. E' vero che la sua « Senza titolo » era una specie di esasperante prologo con tre atti e finale condensati in pochi secondi, ma da un Sanremo così retrivo ci si poteva aspettare la conferma di una tradizione che vuole vincitore l'interprete che l'anno prima è stato osannato ma non premiato. Sono comunque pochi fantasmi, rispetto ad un mucchio di ombre indistinte, neppure buone per quelle oscure trasmissioni che intrattengono i bimbi al pomeriggio nella spasmodica attesa di Carosello. Detto senza offese per la pubblicità, che pure ci ha regalato giganti buoni e taca-banda assai più orecchiabili dei tanghi assassini che volevano farci ballare. La lezione comunque c'è stata e, com'è ormai consuetudine, da due olandesi, Mouth and McNeal. Attenzione, nulla di cerebrale, una lezione pitagorica tipo cinque per cinque uguale venticinque. Lei, Maggie McNeal, non bella ma simpaticissima, di buona voce squillante; lui, Willen Duyn, detto boccaccia, capace di bassi cavernosi pieni di armonia. Niente popmusic, sua madre naturale in lei, niente swing pazzo in lui, che pure è detto il « Joe Cocker dei tulipani ». Hanno semplicemente interpretato con armonia, grazia, ottima impostazione musicale, una canzonetta. Siamo in cucina, c'è la filodiffusione: scatta il loro « Ah, l'amore che ci fa... » e diventa irresistibile afferrare per la vita la nostra cuoca e fare un giro pestando i piedi. E se dal piano di sotto reclamano, si tengano le altre 17 canzoni di Sanremo. Emìo Donaggio Sanremo, che delusione Malinconico declino del Festival canoro Sanremo, che delusione Questo spettacolo è stato visto anche all'estero - Così la vincitrice Iva Zanicchi (Dal nostro inviato speciale) Sanremo, 10 marzo. Iva Zanicchi ha dunque vinto il Festival della canzone di Benevento. Non è un errore; Sanremo non c'entra. Hanno deciso le città sedi di giuria, la mano del notaio che ha estratto le sei decisive su quattordici che avevano votato. Le canzoni non contano, è stata una questione di vassallaggio. Se tra le sei giurie ci fosse stata Maddaloni, avrebbero magari vinto i Domodossola; l'Istituto Maffei di Torino, che ha un coro che incide per la stessa casa discografica, avrebbe forse designato Emanuela Cortesi, così come il Brenta avrebbe forse acclamato l'cJrchestra-spettacolo Casadei, se il tardivo tentativo di riammetterla in gara con Franco Simone, portando da quattro a sei il numero dei « giovani » finalisti, fosse riuscito. La classifica del 24" Festival di Sanremo, severamente vietata dai sindacalisti della canzone, ma propalata da più fonti nelle ultime ore, è di una inutilità che ingiuria chi ha ascoltato note per tutta la settimana. Prima: Iva. Zanicchi, che senza i 28 voti di Benevento non avrebbe certo raggiunto quota 36 ma anonimamente veleggiato nella bassa classifica. Secondo: Modugno (27 voti) su cui ha influito solo in parte il Brenta, riducendo la sua partecipazione a soli 18 sì. Fluttuanti nelle posizioni di rincalzo i Domodossola, Anna Melato ed Emanuela Cortesi. Non credete ad Al Bano che si proclama battuto per soli 4 punti, altrimenti dovreste porvi seri interrogativi sulla « riffa » che ha premiato Iva Zanicchi e sul folgorante intuito del più popolare e serio rotocalco specializzato, che l'ha messa in copertina con una settimana d'anticipo. Rispettiamo il silenzio di Gilda Giuliani, Orietta Berti, Milva. Non sono meno immeritevoli, ma almeno buoni giocatori che sanno perdere. Ci sono poche possibilità che ci mettiamo a cantare questa « Ciao, cara come stai? », già improbabile in quella punteggiatura che vuole una pausa prima del cara. «E' una storia d'oggi, di una coppia in difficoltà che non sa parlarsi» si difende il paroliere Claudio Daiano Fontana, tardo emulo dell'Antonioni pre-rivoluzione culturale. E bisogna dire che ci ha messo garbo, perché pur scialacquatore, perdente nato, incomunicabile, l'uomo che tormenta la Zanicchi questa volta è almeno educato. Quanti, non meno cialtroni di lui, rientrando a casa si limitano a domandare: « Pronta la minestra?». Però, a nostro avviso, oltre alla potente voce della protagonista, ci vuole anche una musica, un'aria, che a questa inneffabile prova d'educazione ci si è dimenticati di mettere. Può protestare Modugno, improbabile cinquantenne che non conosce crisi nel testo, ma abile manipolatore di note con almeno una frase da scolpire nella memoria musicale dei non più giovani fans traditi da Casadei: «E ogni ruga è un bel flore, un pensiero d'amore... ah! ah! ». Può contestare Gilda Giuliani. E' vero che la sua « Senza titolo » era una specie di esasperante prologo con tre atti e finale condensati in pochi secondi, ma da un Sanremo così retrivo ci si poteva aspettare la conferma di una tradizione che vuole vincitore l'interprete che l'anno prima è stato osannato ma non premiato. Sono comunque pochi fantasmi, rispetto ad un mucchio di ombre indistinte, neppure buone per quelle oscure trasmissioni che intrattengono i bimbi al pomeriggio nella spasmodica attesa di Carosello. Detto senza offese per la pubblicità, che pure ci ha regalato giganti buoni e taca-banda assai più orecchiabili dei tanghi assassini che volevano farci ballare. La lezione comunque c'è stata e, com'è ormai consuetudine, da due olandesi, Mouth and McNeal. Attenzione, nulla di cerebrale, una lezione pitagorica tipo cinque per cinque uguale venticinque. Lei, Maggie McNeal, non bella ma simpaticissima, di buona voce squillante; lui, Willen Duyn, detto boccaccia, capace di bassi cavernosi pieni di armonia. Niente popmusic, sua madre naturale in lei, niente swing pazzo in lui, che pure è detto il « Joe Cocker dei tulipani ». Hanno semplicemente interpretato con armonia, grazia, ottima impostazione musicale, una canzonetta. Siamo in cucina, c'è la filodiffusione: scatta il loro « Ah, l'amore che ci fa... » e diventa irresistibile afferrare per la vita la nostra cuoca e fare un giro pestando i piedi. E se dal piano di sotto reclamano, si tengano le altre 17 canzoni di Sanremo. Emìo Donaggio