Noi ingrati e Puccini

Noi ingrati e Puccini TACCUINO DELLA MEMORIA Noi ingrati e Puccini Siamo stati ingiusti con lui. E nei cinquant'anni dal giorno della sua morte a Bruxelles, dove i medici italiani l'avevano indirizzato quasi per sottrarsi alla responsabilità e alla pena della propria impotenza a salvarlo dal cancro alla gola, si è chiarito e acuito in noi (certo, almeno in me che scrivo) il rimorso dell'ingiustizia, d'un così grave errore di umanità e di critica, della crudeltà che tutti mostrammo a lui moribondo e a lui morto. Rammento ancora, poco di poi, lo stupore del nostro insegnante, e le nostre proteste, quando un compagno propose di contribuire, con una quota della nostra modestissima e pressoché lillipuziana « cassa scolastica », al monumento funebre che la Scala aveva deciso di erigergli, e che in effetti ne adorna, da allora, il ridotto. L'insegnante replicò asciutto asciutto che la « cassa scolastica > aveva carattere caritativoassistenziale, né i fondi della medesima potevano essere perciò devoluti a fini o istituzioni non pertinenti. Noi ragazzi protestammo, invece, per questo fanatismo pucciniano; quasi che, dunque, gli scolaretti dovessero contribuire con i proprii, piccoli e pochi, risparmi alla sua immagine e alla sua gloria: cui ci pareva bastassero, ed ebbimo forse l'audacia o la sfrontatezza di dirlo, i grammofoni e gli organetti. A giustificazione della nostra inintelligenza e crudeltà, vorrei, peraltro, aggiungere che non migliore, né più giusto ed umano, fu il giudizio dei nostri maggiori. I quali non provvidero punto, anzi non pensarono nemmeno, a correggere l'eresia del nostro infantile anti-puccinianesimo. Incolori le onoranze o commemorazioni ufficiali, né solo per la sostanziale, indifferente, non conformistica, «a-politicità» di Puccini. Punto convincente il tentativo di costruire un'aureola di faticosa pensosità, quasi di metafisico travaglio creativo (la psicanalisi ancora non si applicava né alla storia della musica né alla critica letteraria), intorno alla (cosiddetta) « arte facile » di Giacomo Puccini. E la prima di Turando/ (incompiuta) non ebbe che un succès d'estime, anzi un mezzo succès d'estime. Umana commozione, si, molta e sincera, in ispecie quando Toscanini, poco dopo il climax della morte di Liù, posò la bacchetta, e, con gesto ed atto assolutamente inconsueti per lui, si volse al pub blico, avvertì che la rappresentazione finiva lì, sull'ultima nota scritta dal maestro morto. Solo alla recita successiva si sarebbe eseguita l'opera nel la sua interezza, cioè col fi naie rielaborato od appiccicato da Alfano. Ma il gran pubbli co scaligero-internazionale di quella sera, non che entusiasmarsi per Turandot, nemme no si può dire che la compre se, ne misurò il luogo e il va lore in se medesimi, e nella storia vuoi di Puccini vuoi dell'opera novecentesca. Nessuno, credo, neanche fra i critici più avveduti, osò prevedere, o s'avventurò a profetare, che l'opera sarebbe durata: accanto al Cavalier della Rosa (ed astraendo dai solitarii capolavori pinnacolari del Pel léas e del WozzelO, l'unica opera non perenta né peritura del nostro secolo. «L'altra Turandot»: ricordo l'acerbo scritto provocatorio e rivendicativo che Vittorio Gui, il quale al Teatro di Torino resuscitava frattanto Cenerentola e Così Jan tutte dedicò alla polemica celebra zione della tuttavia ignorata Turandot di Busoni: quasi che la Turandot pucciniana fosse nata morta, ed eventualmente vivesse all'ombra, sfruttando la popolarità e la fama dell'autor di Bohème, laddove l'arte, la vita e l'avvenire inerivano (ex hypothesi) allo spartito di Busoni, che non mi sembra superi né la testimonianza d'una crisi né la dotta valentìa d'un espertissimo letterato. Toscanini medesimo, d'altronde, pur nella restaurazione scaligera della Butterfly, ritornata dopo la morte del maestro a cancellare il nejas dell'infelicissima e catastrofica première, metteva il suo impegno più vero nell'Orfeo, nel Flauto ma¬ gico, in un'edizione favolosa (e, a ripensarci oggi, addirittura incredibile) dei Maestri cantori: mentre schiudeva le porte dell'avvenire, lui, il presunto « verdiano » e ottocentistico Toscanini, al poeta di Petrouschlfa. Toscanini stesso dava insomma l'impressione di avallare, di autorizzare o confermar col suo esempio il dilagante antipuccinianesimo allora di moda. Un anno avanti, nel '23, parve già voler tenere a battesimo, con la Dèbora di Pizzetti, il nuovo « operista ». E poco di poi lanciò e protesse, dai Pini di Roma in giù, l'ipertrofico sinfonistno di Respighi: quello che allora si diceva originale, avveniristico e vero, dall'usignolo imprigionato nel disco allo squillar delle bùccine e al cadenzato martellar delle càlighe, quasi preannunzio inconscio e innocente d'un'èra, d'un costume, o d'un malcostume, del quale Toscanini doveva essere tra gli oppositori più fermi (e tra le vittime più illustri). Anche Toscanini, dunque, condivideva il diffuso pregiudizio contraddittorio che Puccini era, sempre e soltanto, l'autore della Bohème, e che la Bohème doveva, quindi, costituire la stregua di giudizio, la misura dell'arte pucciniana: tanto migliore o peggiore, quanto più si avvicinasse alle melodie e agli stilemi di Rodolfo, di Musetta e di Mimi? Certo così ragionavano, o sragionavano, i puccisiani, e gli antipucciniani di mezzo secolo fa. I quali nella stessa Turandot inseguivano i fantasmi (e invano ricercavano la neve del terz'atto) di Bohème, pareggiavano la musica dei tre mandarini alle grassocce ironie di Monsieur Benoìt e ai giocattoli di Parpagnol, né riuscivano, pertanto, a commisurare l'avanzamento in arte (non pur nell'individua poesia pucciniana) del funebre chiaro di luna sulla decapitazione del principe di Persia (anche questo chiaro di luna un derivato, o un reliquato, di Cercar che giova?) e del triplice gong nel finale del prim'atto: un trentennio di travagliosa e creativa autocritica, contro cui spesso tacitamente, ma non sempre tacitamente, protestava il conformismo d'un gusto e d'un pubblico, fermo al puccinismo fin de siede e risoluto a volere che vi restasse, o vi fosse rimasto, fermo il maestro. Ora, poiché non si poteva, non si sapeva ancora, essere così « pucciniani », cioè storicamente pucciniani, per questo appunto noi, ragazzi di cinquant'anni fa, eravamo fieramente anti-pucciniani: e alla ricerca di chi lo sostituisse. Schònberg e Berg non esistevano ancora, per noi (o, forse, addirittura in assoluto, perché impegnati a districarsi dalla pesante ed echeggiante eredità wagneriana). Sentivamo, però, istintivamente che gli operisti nostrali, i « veristi » al tramonto come Giordano, i nuovi, o meno nuovi, succubi del wagnerismo, decadenti ormeggiatori del poeta di « Fedra indimenticabile » (e così presto dimenticata), consci o inconsci saccheggiatori del Tristano, sinfonianti o tardo-verdiani e tardo-veristi (gli Alfano e gli Zandonai, i Respighi e i Montemezzi, lo stesso austero e « litteratissimo » Pizzetti, che fu la nostra grande illusione e la nostra gran delusione degli anni magri fra le due guerre), avevano poco o punto da dire: non parlavano, soprattutto sulle scene teatrali, o nelle sale da concerti, con voce propria. Propria e ben sua era, invece, quasi nostro malgrado, e nonostante certa frequente rugiadosità e soverchia o dolciastra dolcezza, la voce con cui parlava, con cui ci parlava, Puccini. Piero Treves Noi ingrati e Puccini TACCUINO DELLA MEMORIA Noi ingrati e Puccini Siamo stati ingiusti con lui. E nei cinquant'anni dal giorno della sua morte a Bruxelles, dove i medici italiani l'avevano indirizzato quasi per sottrarsi alla responsabilità e alla pena della propria impotenza a salvarlo dal cancro alla gola, si è chiarito e acuito in noi (certo, almeno in me che scrivo) il rimorso dell'ingiustizia, d'un così grave errore di umanità e di critica, della crudeltà che tutti mostrammo a lui moribondo e a lui morto. Rammento ancora, poco di poi, lo stupore del nostro insegnante, e le nostre proteste, quando un compagno propose di contribuire, con una quota della nostra modestissima e pressoché lillipuziana « cassa scolastica », al monumento funebre che la Scala aveva deciso di erigergli, e che in effetti ne adorna, da allora, il ridotto. L'insegnante replicò asciutto asciutto che la « cassa scolastica > aveva carattere caritativoassistenziale, né i fondi della medesima potevano essere perciò devoluti a fini o istituzioni non pertinenti. Noi ragazzi protestammo, invece, per questo fanatismo pucciniano; quasi che, dunque, gli scolaretti dovessero contribuire con i proprii, piccoli e pochi, risparmi alla sua immagine e alla sua gloria: cui ci pareva bastassero, ed ebbimo forse l'audacia o la sfrontatezza di dirlo, i grammofoni e gli organetti. A giustificazione della nostra inintelligenza e crudeltà, vorrei, peraltro, aggiungere che non migliore, né più giusto ed umano, fu il giudizio dei nostri maggiori. I quali non provvidero punto, anzi non pensarono nemmeno, a correggere l'eresia del nostro infantile anti-puccinianesimo. Incolori le onoranze o commemorazioni ufficiali, né solo per la sostanziale, indifferente, non conformistica, «a-politicità» di Puccini. Punto convincente il tentativo di costruire un'aureola di faticosa pensosità, quasi di metafisico travaglio creativo (la psicanalisi ancora non si applicava né alla storia della musica né alla critica letteraria), intorno alla (cosiddetta) « arte facile » di Giacomo Puccini. E la prima di Turando/ (incompiuta) non ebbe che un succès d'estime, anzi un mezzo succès d'estime. Umana commozione, si, molta e sincera, in ispecie quando Toscanini, poco dopo il climax della morte di Liù, posò la bacchetta, e, con gesto ed atto assolutamente inconsueti per lui, si volse al pub blico, avvertì che la rappresentazione finiva lì, sull'ultima nota scritta dal maestro morto. Solo alla recita successiva si sarebbe eseguita l'opera nel la sua interezza, cioè col fi naie rielaborato od appiccicato da Alfano. Ma il gran pubbli co scaligero-internazionale di quella sera, non che entusiasmarsi per Turandot, nemme no si può dire che la compre se, ne misurò il luogo e il va lore in se medesimi, e nella storia vuoi di Puccini vuoi dell'opera novecentesca. Nessuno, credo, neanche fra i critici più avveduti, osò prevedere, o s'avventurò a profetare, che l'opera sarebbe durata: accanto al Cavalier della Rosa (ed astraendo dai solitarii capolavori pinnacolari del Pel léas e del WozzelO, l'unica opera non perenta né peritura del nostro secolo. «L'altra Turandot»: ricordo l'acerbo scritto provocatorio e rivendicativo che Vittorio Gui, il quale al Teatro di Torino resuscitava frattanto Cenerentola e Così Jan tutte dedicò alla polemica celebra zione della tuttavia ignorata Turandot di Busoni: quasi che la Turandot pucciniana fosse nata morta, ed eventualmente vivesse all'ombra, sfruttando la popolarità e la fama dell'autor di Bohème, laddove l'arte, la vita e l'avvenire inerivano (ex hypothesi) allo spartito di Busoni, che non mi sembra superi né la testimonianza d'una crisi né la dotta valentìa d'un espertissimo letterato. Toscanini medesimo, d'altronde, pur nella restaurazione scaligera della Butterfly, ritornata dopo la morte del maestro a cancellare il nejas dell'infelicissima e catastrofica première, metteva il suo impegno più vero nell'Orfeo, nel Flauto ma¬ gico, in un'edizione favolosa (e, a ripensarci oggi, addirittura incredibile) dei Maestri cantori: mentre schiudeva le porte dell'avvenire, lui, il presunto « verdiano » e ottocentistico Toscanini, al poeta di Petrouschlfa. Toscanini stesso dava insomma l'impressione di avallare, di autorizzare o confermar col suo esempio il dilagante antipuccinianesimo allora di moda. Un anno avanti, nel '23, parve già voler tenere a battesimo, con la Dèbora di Pizzetti, il nuovo « operista ». E poco di poi lanciò e protesse, dai Pini di Roma in giù, l'ipertrofico sinfonistno di Respighi: quello che allora si diceva originale, avveniristico e vero, dall'usignolo imprigionato nel disco allo squillar delle bùccine e al cadenzato martellar delle càlighe, quasi preannunzio inconscio e innocente d'un'èra, d'un costume, o d'un malcostume, del quale Toscanini doveva essere tra gli oppositori più fermi (e tra le vittime più illustri). Anche Toscanini, dunque, condivideva il diffuso pregiudizio contraddittorio che Puccini era, sempre e soltanto, l'autore della Bohème, e che la Bohème doveva, quindi, costituire la stregua di giudizio, la misura dell'arte pucciniana: tanto migliore o peggiore, quanto più si avvicinasse alle melodie e agli stilemi di Rodolfo, di Musetta e di Mimi? Certo così ragionavano, o sragionavano, i puccisiani, e gli antipucciniani di mezzo secolo fa. I quali nella stessa Turandot inseguivano i fantasmi (e invano ricercavano la neve del terz'atto) di Bohème, pareggiavano la musica dei tre mandarini alle grassocce ironie di Monsieur Benoìt e ai giocattoli di Parpagnol, né riuscivano, pertanto, a commisurare l'avanzamento in arte (non pur nell'individua poesia pucciniana) del funebre chiaro di luna sulla decapitazione del principe di Persia (anche questo chiaro di luna un derivato, o un reliquato, di Cercar che giova?) e del triplice gong nel finale del prim'atto: un trentennio di travagliosa e creativa autocritica, contro cui spesso tacitamente, ma non sempre tacitamente, protestava il conformismo d'un gusto e d'un pubblico, fermo al puccinismo fin de siede e risoluto a volere che vi restasse, o vi fosse rimasto, fermo il maestro. Ora, poiché non si poteva, non si sapeva ancora, essere così « pucciniani », cioè storicamente pucciniani, per questo appunto noi, ragazzi di cinquant'anni fa, eravamo fieramente anti-pucciniani: e alla ricerca di chi lo sostituisse. Schònberg e Berg non esistevano ancora, per noi (o, forse, addirittura in assoluto, perché impegnati a districarsi dalla pesante ed echeggiante eredità wagneriana). Sentivamo, però, istintivamente che gli operisti nostrali, i « veristi » al tramonto come Giordano, i nuovi, o meno nuovi, succubi del wagnerismo, decadenti ormeggiatori del poeta di « Fedra indimenticabile » (e così presto dimenticata), consci o inconsci saccheggiatori del Tristano, sinfonianti o tardo-verdiani e tardo-veristi (gli Alfano e gli Zandonai, i Respighi e i Montemezzi, lo stesso austero e « litteratissimo » Pizzetti, che fu la nostra grande illusione e la nostra gran delusione degli anni magri fra le due guerre), avevano poco o punto da dire: non parlavano, soprattutto sulle scene teatrali, o nelle sale da concerti, con voce propria. Propria e ben sua era, invece, quasi nostro malgrado, e nonostante certa frequente rugiadosità e soverchia o dolciastra dolcezza, la voce con cui parlava, con cui ci parlava, Puccini. Piero Treves

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