Tra gli ergastolani di Porto Azzurro di Remo Lugli

Tra gli ergastolani di Porto Azzurro VITA NELLE CARCERI ITALIANE Tra gli ergastolani di Porto Azzurro Porto Azzurro (Elba), aprile. Alle spalle il golfo di Mola, mare d'azzurro intenso e montagna verde di macchia mediterranea; e davanti il portale della casa di pena che si apre nei bastioni della fortezza spagnola secentesca. Il portone di ferro è al fondo dell'androne, prima dello sbarramento ci sono due locali ancora a contatto con la libertà: sulla destra il corpo di guardia, sulla sinistra la bottega. Nella bottega si vendono gli oggetti prodotti dai reclusi, scialli di lana, dipinti, vascelli creati coi fiammiferi, navi dentro le bottiglie. Il commesso è d'eccezione: si chiama Cau, sardo, 48 anni, due omicidi, 26 anni già scontati e da scontare tutti quelli che gli restano da vivere. E' ergastolano, eppure è qui, a contatto con il pubblico, a volte le guardie stanno tutte dentro la guardiola, se lui volesse si potrebbe mettere a correre, fuggire. Ma dove andrebbe? « Se lo abbiamo messo lì — dice il direttore dott. Raffaele Ciccotti — è perché siamo abbastanza tranquilli che non farà colpi di testa ». L'ergastolano Cau al di fuori della porta di ferro può essere considerato come l'emblema dei penitenziario di Porto Azzurro. Le cose sono cambiate da quando questo istituto di pena si chiamava, come il paese, Portolongone. La sua fama trista di sventura minacciava il turismo, preoccupava gli abitanti del luogo. Si è cercato di aggraziare la località con il nome nuovo. Fortunatamente dopo la rinnovata dizione anche all'interno del carcere sono mutate parecchie cose: impianti igienici al posto dei buglioli, celle singole in due dei tre reparti e, da un paio d'anni, apertura delle celle durante la giornata. Un fatto, quest'ultimo, di grande importanza per i detenuti. Dice il cappellano don Giovanni Vavassori: « Quando il direttore mi comunicò la sua decisione non seppi trattenere le lacrime e loro, i reclusi, rimasero turbati, nei primi giorni sembravano intimiditi, si limitavano a star sulla porta davanti al corridoio vuoto; poi incominciarono ad uscire, a intrattenersi a gruppi negli spazi comuni o a farsi visita nelle celle ». Direttore, cappellano, comandante degli agenti di custodia, il maresciallo Roma, sono concordi nell'affermare che l'apertura delle celle ha favorito la distensione, ridotto l'aggressività. I più colpiti I detenuti di Porto Azzurro sono 405, ospitati in due edifici che risalgono ai primi del '900; tra la fine della guerra e gli Anni Cinquanta qui se ne ammassavano fin oltre mille. Le piccole costruzioni spagnolesche del '600 sono adibite ad abitazioni dei sottufficiali, a caserma degli agenti e a laboratori. Uno dei due grossi edifici, che ospita il primo e il secondo reparto, è chiamato impropriamente « ergastolo nuovo »; non ospita solo gli ergastolani, che sono 108, ma anche gli altri reclusi, tutti comunque «definitivi », con condanna non più appellabile. Ha solo celle singole, con ballatoi e passerelle nei tre piani superiori. L'altro edificio, chiamato terzo reparto, ha una struttura diversa, senza ballatoi, cioè a piani chiusi e le celle anziché essere ad un solo posto sono a due o tre, i servizi igienici non hanno alcun riparo, i vani delle porte sono bassi, per passare bisogna chinare la testa. Due modi di « abitare » diversi, sia perché la cella singoia è preferita da tutti, sia perché nel primo edificio ognuno può muoversi nell'ambito di tutti e quattro i piani, mentre nel secondo la libertà di movimento è circoscritta a due piani. « Siamo divisi in buoni e cattivi » dicono i detenuti, e i « cattivi » se ne lamentano. Il direttore spiega: « Nell'ergastolo nuovo ci sono reclusi che noi abbiamo imparato a conoscere bene e dei quali ci si può fidare; nel terzo ci sono dei delinquenti abituali e i nuovi arrivati, molti dei quali sono inviati qui da altre carceri perché elementi turbolenti. Ogni tanto c'è una cernita, il passaggio al "terzo" avviene dopo uno o due anni di detenzione ». Fra i « buoni » c'è Fenaroli, che lavora in un ufficio di contabilità. Dimostra tutti i suoi 65 anni, due ciuffi grigi alle tempie, baffetti bianchi, la barba incolta, le guance scavate dalle cento sigarette al giorno che fuma. Del carcere è contento: « La selezione tra i detenuti è giusta — dice, — ci sono i buoni, i mediocri e i pessimi, ogni categoria dovrebbe avere i propri reparti ». Chiedo a Fenaroli il suo parere sull'alimentazione della quale qualcuno si lamenta per la qualità. « Non so come sia il cibo che passano: io lo compero a parte e me lo cucino sul fornello ». Quattro o cinque detenuti dipingono, il più attivo è Antonio Pegan, triestino, che vende i quadri a 30-40 mila lire l'uno; l'anno scorso ha guadagnato oltre due milioni. Giovanni Zeni, trentino, mi rincorre per mostrarmi due sue sculture, cavalli al galoppo in plastilina dipinta a ceramica. C'è un certo commercio anche interno: qualche detenuto acquista dai compagni i loro prodotti pagandoli subito e poi li rivende attraverso la bottega guadagnandoci qualcosa. Certe celle sono tenute come specchi, il pavimento a cera, le tende o la mantovana alla finestra che è ampia (un metro per ottanta) e senza bocche di lupo (che invece all'Ucciardone esistono ancora). Il regolamento prescriverebbe soltanto una mezz'ora di colloquio ogni mese per gli ergastolani e ogni quindici giorni per gli altri reclusi. « Ma qui siamo in un'isola, ci sono mogli e figli che vengono dalla Sicilia una volta all'anno per vedere i loro congiunti — dice il dott. Ciccotti, — come potrei essere così restrittivo? Quando i familiari vengono all'Elba restano di solito tre o quattro giorni: io gli concedo un colloquio di cinque ore al giorno ». In tipografia Su 405 detenuti soltanto una settantina non lavorano, gli altri sono occupati nei vari laboratori: sartoria, tessitura, falegnameria, tipografia, autocarrozzeria. Il torinese Rovoletto, uno dei gregari della banda Cavallero, è in tipografia dove si stampa anche il giornale del penitenziario, « La grande promessa », il più vecchio del genere, 24 anni. Vi collaborano i detenuti: diari, articoli sulla inopportunità dell'ergastolo (« la pena troppo lunga è controproducente »), poesie («Noi ergastolani / camminiamo a testa bassa / per non veder riflessa / negli occhi del compagno / la nostra fatale angoscia »). Coordinatrice dei testi è la dottoressa Raffaella Scandolara, assistente carceraria vo¬ lontaria, che si occupa anche di altri problemi inerenti la cultura dei detenuti. « Quattro maestri tengono corsi elementari, ma c'è assenteismo — dice. — La biblioteca è dotata di cinquemila volumi, ma mancano grammatiche e libri recenti di sociologia e psicologia. Siamo lontani da quello che dovrebbe essere il trattamento di risocializzazione del detenuto e questo a causa del sistema ». E' d'accordo anche il direttore: « La casa di pena è troppo grande, i reclusi troppo numerosi: dovremmo poter personalizzare i rapporti, fare molti colloqui con loro, una terapia giornaliera, che invece è impossibile. Tra l'altro io sono solo, non ho nemmeno l'aiuto di un vicedirettore. Siamo mal pagati, abbiamo una responsabilità enorme, è difficile trovare chi si sente animo da missionario ». Ognuno ha il suo problema, la sua angoscia. Un uomo di 39 anni di Sondrio, otto figli a carico della moglie che lo aspetta, mi dice: « Ho subito 30 processi, per furto e truffa e ne ho altri pendenti. Finora le pene definitive sono per un totale di 18 anni, altre sono pendenti. Perché non riuniscono i vari procedimenti dando una pena unica? Non si avrebbero cumuli così enormi ». Un altro mi vuole consegnare dei ritagli di giornali che riportano casi clamorosi di errori giudiziari: gente che, condannata a 20 e a 27 anni di reclusione (il macellaio Vincenzo Pepe e la bidella Candida Giordano di Napoli), è stata poi riconosciuta innocente, ma dopo che aveva già scontato alcuni anni di carcere. Un ergastolano sui settant'anni, siciliano, mi si para davanti e declama: « M'hanno condannato a vita per un omicidio che non ho commesso. Lo giuro sulla tomba di mia madre ». Poi, con voce dimessa, aggiunge: « Ne ho commessi altri, ma quello per il quale m'hanno condannato, no ». Remo Lugli

Luoghi citati: Napoli, Porto Azzurro, Roma, Sicilia, Sondrio