Per i cento anni di Schoenberg

Per i cento anni di Schoenberg I concerti eseguiti all'Auditorium e alla Pro cultura Per i cento anni di Schoenberg La Sei Giorni schoenberghiana iniziata lunedì scorso al Piccolo Regio col Pierrot lunaire è continuata venerdì col concerto sinfonico dell'Auditorium e si è conclusa ieri con un concerto commemorativo nella saletta della Pro Cultura Femminile. «La musica di Schoenberg», scrisse una volta Adorno, «fa onore all'ascoltatore, in quanto non gli fa concessioni». Questo onore preoccupante è stato elargito con prudenza nelle celebrazioni torinesi. Il concerto sinfonico cominciava pacificamente con una wagnerizzante trascrizione per orchestra del Preludio e Fuga in mi bemolle maggiore di Bach. Anche altre composizioni organistiche (per esempio il Preludio e Fuga in fa maggiore) Schoenberg portò in orchestra, dì quel grande dal quale diceva di avere imparato «il pensiero contrappuntistico», cioè «l'arte d'inventare ligure musicali, che si possono accompagnare con se stesse». Quasi sconosciuto il Kol Nidré per recitante, coro e orchestra, scritto su ordinazione d'un rabbino americano. Nella sua monumentalìtà, e nell'abile combinazione della voce recitante (in inglese) e del coro, sembra quasi una prova generale del futuro Sopravvissuto di Varsavia, ma la dodecafonia ne è assente, essendo fondato sopra un'antica melodia liturgica, sebbene invece ci sia uno sforzo costante di inserire questo materiale dentro una tecnica seriale. Dopo un preludio strumentale misterioso e pianissimo, la composizione si sviluppa con drammaticità e sprigiona un notevole potere catartico: il Kol Nidré era la preghiera del Giorno dell'Espiazione, grazie a cui veniva nuovamente consentito ai rinnegati o marrani (cioè gli Ebrei che avessero simulato la conversione al Cristianesimo per sfuggire a persecuzio¬ ni e violenze) di rientrare nella comunità giudaica. Era un tema assai sentito da Schoenberg (che scelse personalmente l'argomento della cantata): dopo un lungo periodo di agnosticismo, nel 1933, per ovvie ragioni di solidarietà con la sua gente, si era riaccostato alla fede dei padri. Lo Schoenberg definitivo, aggiornato e dodecafonico, si ebbe col Concerto per violino, una composizione che spesso è citata proprio come modello di scrittura col metodo dei dodici suoni. Ma si cita anche un aneddoto, a prova della spregiudicatezza ed elasticità mentale del compositore. Un musicista ch'era stato incaricato di trarre dalla partitura orchestrale la riduzione per pianoforte, s'avvide subito d'un errore, o irregolarità, nella condotta dodecafonica, e lo scrisse al compositore. Nessuna risposta. Poiché l'errore si ripeteva, scrisse ancora. Niente. Soltanto quando il lavoro fu finito. Schoenberg prese una cartolina, ci scrisse su: Na, und wenn schon? («Ebbene, e quand'anche fosse?») e la spedì all'importuno. Il Concerto è sicuramente una grande opera, più arioso e poetico che quello per pianoforte. Nel primo tempo, iniziato dal solista, senza il consueto Tutti orchestrale, è possibile ravvisare con chiarezza i due temi soliti dell'impianto sonatistico, separati da un intermezzo orchestrale. Poi, quando ci si aspetterebbe lo svolgimento, ecco invece una sorpresa: inserzione d'una specie di scherzo in 3/4, che col suo tempo di Laendler sembra una segreta rievocazione della patria austriaca, e porta il Concerto abbastanza vicino al clima di quello di Berg, certo con meno strazio e con maggior dottrina. Il secondo tempo ha qualcosa dell'intimità schumanniana, e il terzo è una Marcia per la cui esecuzione Schoenberg diceva scherzando essere necessario un violinista di sei dita. Quello dell'altra sera, Zvi Zeitlin, non avrà sei dita, ma certo se la cava brillantemente in quel terribile intrico di tratti d'agilità, enormi balzi, armonici semplici e doppi. Anche assai bravo è parso il direttore Zoltan Pesko, un giovane ungherese approdato in Italia sulla scia dell'Ulisse di Dallapiccola, e diventato ben presto prezioso là dove ci siano partiture difficili da decifrare. Bene anche il coro, istruito dal maestro Angius, e l'autorevolissimo recitante Hans Christian. ★ * Alla Pro Cultura il concerto è stato preceduto da un'elevata presentazione, o piuttosto commemorazione di Enzo Restagno: anche se centrata principalmente su una delle composizioni in programma, mirava soprattutto a dare un'idea della situazione storica del compositore, e ci riusciva con eleganza e cultura. Nel 1911, sotto il titolo Matinée schoenberghiana, Busoni scriveva in un giornale di Berlino: «Che il sentimentalismo stia rinascendo? Dopo aver ascoltato i pezzi per pianoforte e i Lieder di Arnold Schoenberg si sarebbe quasi indotti a crederlo. Lagrime represse, sospiri, folate di vento attraverso fronde doloranti, stormire di foglie autunnali, pallido sole invernale, subito scomparso. In mezzo, alcuni sarcasmi. Voci solitarie serpeggiano, quasi recitativi, disposte in intervalli imprevedibili, di cui sentiamo appena la connessione... Ingenuità in proporzioni quasi barbariche. Eppure tanta scioltezza, tanta chiarezza di visione e rettitudine». La citazione si addice assai bene alla prima parte del concerto, che presentò i Quindici canti dal libro dei «Giardini pensili» di Stefan George, interpretati con rara finezza dal soprano Enza Monetti Catapano (accompagnatore sem¬ plicemente superbo il solito Cognazzo) e i Sei piccoli pozzi op. 19 e i Tre pezzi op. 11, eseguiti con tecnica pungente e agguerrita dalla pianista Franca Lessona. In verità, se Il Libro dei giardini pensili è ancora proprio uno squisito ciclo romantico di Lieder, qualche cosa di nuovo bolle già nella pentola dei pezzi pianistici, forse ancor più in quella dei precedenti Tre pezzi che nei brevissimi Piccoli pezzi. La compressione d'una concezione in sostanza sonatistica entro forme brevi è feroce e dà luogo a un tematismo rigoroso, dal quale sono escluse tutte le divagazioni. Dell' omogeneità spessissima di queste composizioni scrisse Schoenberg nel «Blaue Reiter»: «Quando si fa un buco in qualunque parte del corpo umano, è sempre lo stesso sangue che viene fuori. Quando si sente un verso d'una poesia, una battuta d'un pezzo di musica, bisogna che sia possibile comprendere il tutto». Altra concezione compositiva, invece, nella Fantasia pei violino con accompagnamento di pianoforte, ultima opera strumentale del maestro. Qui è escluso il tematismo e viene negato il trascorrere del discorso musicale, a favore d'una specie di voluto ristagne che vuole approfondire l'«in sé» delle singole sezioni. Ciò nonostante l'opera è assai go dibile, di gradevole ascolto, specialmente a partire dal «Grazioso», che è il secondo dei quattro episodi, del resto strettamente imbricati fra loro. Buona l'esecuzione del violinista Raimondo Matacena e, anche qui, un accompagnatore d'eccezione nella persona di Ruggero Maghini, pianista tanto fine « sapiente quanto musicista accorto e capace di cogliere il bandolo di questa difficile composizione. Applausi vivissimi a tutti i valenti esecutori. m. m.

Luoghi citati: Berlino, Italia, Varsavia