Nerone alle Folies

Nerone alle Folies Lo spettacolo di Trionfo all' Alfieri Nerone alle Folies Il testo di Miklos Hubay trasformato in una rappresentazione a due piani, fra il Teatro e la Storia - Un'apoteosi, ironica, del kitsch con la Osiris che scende le scale fra girls e boys - Protagonista Branciaroli Ora che è approdato a Torino, dopo aver girato mezza Italia sollevando entusiasmi, rinfocolando rancori, attizzando polemiche e dividendo la critica (coi tempi che corrono, che si vuole di più per dimostrare che questo Nerone è morto? era, scusate il bisticcio, vivo, vivissimo?), riparliamo dello spettacolo di Aldo Trionfo di cui già parlammo quando lo Stabile torinese lo presentò, quasi due mesi fa, in anteprima nazionale a Asti, e diciamo subito che non è affatto cambiato, se mai si è fatto più snello e più spedito. Non c'è quindi ragione di mutare il giudizio, sostanzialmente positivo, che ne demmo allora. Anzitutto: raramente, forse mai, Trionfo ha potuto giocare sui due piani, del Teatro e della Storia, con tanta naturalezza e plausibilità, offrendogliene l'occasione il testo dell'ungherese Miklos Hubay, ottimamente tradotto da Umberto Albini, che negli otto episodi scritti originariamente per la radio sull'ascesa e la caduta di Nerone già anticipava le scelte più significanti di Trionfo e già suggeriva le più spettacolose soluzioni della sua regìa. Teatro e Storia s'incontrano infatti nella figura del protagonista che oltre ad essere il Tiranno per antonomasia, modello e segnale dei tiranni di tutti i tempi, è un Nerone attore, un Nerone commediante, un Nerone istrione: un Divo, appunto, della Storia. E allora perché stupirsi se nei quattro momenti culminanti della sanguinosa carriera di Nerone, quasi sempre un delitto e un delitto nato dal gioco, cioè dal teatro (si finge che Claudio sia ancora vivo quando è già stato ucciso e che Agrippina sia già stata uccisa quando è ancora viva, e da una finzione nascono anche le morti violente di Poppea, di Seneca e di Petronio), perché stupirsi che dalla stessa scala sulla quale il protagonista va recitando la sua vita come un luccicante «musical» scenda Wanda Osiris, la Diva della Rivista, senza alcuna intenzione parodistica, ma come perfetta personificazione dell'altro Divo? Preceduta da un'incredibile sfilata — sogno o racconto che Nerone fa dei suoi misfatti e dei nerissimi epiteti che con essi ha guadagnato — di fastose e bizzarre apparizioni, degne delle Folies, che compongono un'apoteosi (ironica: sbaglia chi crede che Trionfo non sappia prendere criticamente le distanze) del kitsch più sfacciato, la Wandissima scende cantando in play-back «Ti parlerò d'amor» e altre sue famose canzoni, distribuendo baci e sorrisi, gettando rose in platea (ma, povera anima, all'Alfieri è troppa la distanza tra la ribalta e la prima fila...), tra due ali di girls e di efebici boys, nudi o in frac, tra piume e perle, mentre Ivan Cecchini, che poi farà benissimo anche Petronio, dà l'ultimo tocco, lisciato e sorridente come un Dapporto. Alla base di tutto questo c'è l'idea, anzi la convinzione che quando la borghesia, e in genere le istituzioni, sono in crisi, lo spettacolo d'evasione celebri i suoi maggiori splendori: le Ziegfield girls negli anni della depressione americana, il cabaret tedesco con l'imbianchino alle porte, la rivista italiana nei periodi in cui i dittatori, effettivi o in pectore, in orbace o in grisaglia, guardano con diffidenza e con disprezzo alla cultura. Il parallelismo è magari un po' forzato e non sempre convincente, ma serve a ricondurci al testo di Hubay e a non farci dimenticare che Nerone, come si dice alla fine, «è la Bestia che è stata, che non è più, che è»; monito quasi brechtiano a non farci infinocchiare dai commedianti come Nerone e a riconoscerli come tiranni anche nel futuro. E, naturalmente, il parallelismo offre eccellenti appigli a uno spettacolo per il quale Trionfo e il suo collaboratore Salveti hanno saccheggiato, oltre ai ripostigli della memoria, tutte le rigatterie del gran varietà aiutandoli le scene e i costumi di Giorgio Panni che mescolano le epoche, esaltano il cattivo gusto, inseguono lo sfarzo, si sfrenano nella pacchianeria, mentre la colonna sonora, preparata come al solito, dallo stesso regista, rovescia canzonette vecchie e nuove (queste sono di Oscar Prudente e Ivano Fossati) con pezzi d'opera, musica di consumo con Vivaldi e Strawinski. Al centro di questo divertimento un po' folle, e tuttavia raffinato e neppure eccessivo, c'è Franco Branciaroli-Nerone al quale tocca la fortuna, che è poi una faticaccia, di interpretare un personaggio che è anche un attore, peggio un istrione. E Branciaroli non si risparmia, recitando con una varietà di toni e di registri che sbocca in una galleria di ritratti di celebri attori pennellati alla Carmelo Bene, vociando e sgambettando come un comico e un ballerino d'avanspettacolo con l'aggressività e la spudoratezza che occorrono, sbracandosi con coraggio, ma anche con lucida ds determinazione, nella sguaiataggine e nella volgarità. Accanto a lui Andrea Bosich è un Seneca imponente, di filosofica e cortigiana doppiezza, Valeriano Gialli e Alessandro Esposito due ineffabili Pietro e Paolo che, per non rimanere a corto di martiri, scongiurano Nerone di continuare a fare l'Anticristo, Relda Ridoni è un'elegantissima Agrippina, Luisa De Santis una popolaresca Poppea, Tina Lattanzi una compita e melodiosa ruffiana, Franco Ferrarone guida il coretto (e la presentazione è davvero spassosa) degli sgherri e dei sicari imparruccati di verde o di rosso carota, Nadia Ferre¬ rò dirige l'altro coretto, delle donne di casa, che sfaccendanno in un ottocentesco tinello in un canto del palcoscenico (nell'altro sfolgorano, sinistre, le insegne imperiali). Vanno almeno citati Roberto Posse, Achille Belletti, l'Andriani, il Sacilotto, il Leduc, e ancora Gloria Ferrerò, la Bono, la Beraldo, la Carette che hanno ricevuto anch'essi, trionfando l'Osiris e Branciaroli, la loro dose di battimani, se non di fischi. I quali, ad ogni buon conto, non sono mancati, anche se erano pochi e non tutti convinti tanto che alla fine hanno lasciato che gli applausi prevalessero. Alberto Blandi

Luoghi citati: Asti, Italia, Torino