L'edilizia è paralizzata da un'estenuante attesa di Mario Salvatorelli

L'edilizia è paralizzata da un'estenuante attesa L'economia italiana tra inflazione e boom L'edilizia è paralizzata da un'estenuante attesa (Dal nostro inviato speciale) Roma, 22 aprile. Tra le conseguenze della paralisi del Parlamento per il «referendum» c'è anche lo slittamento di una settimana nel varo della nuova «legge sulla casa», dovuto a sottigliezze legislativo-procedurali (decreto-legge anziché disegno di legge, e cose del genere) che qui sarebbe troppo lungo spiegare, ed anche inutile, dato che già sono state esaurientemente esposte in questi giorni. Neppure lo slittamento di una settimana può provocare un trauma in chi sa che da almeno quattro anni (208 settimane) l'edilizia italiana è in crisi. Preoccupa, invece, che la sua crisi venga aggravata, anziché curata, proprio quando dovrebbe essere una delle attività di punta per sostenere la ripresa economica in atto, senza pesare sulla bilancia dei pagamenti. L'edilizia, infatti, è tra le industrie meno «schiave» delle importazioni di petrolio e tra le più capaci di stimolare attività indotte. Nelle tavole input-output, cioè di interdipendenza settoriale, di fabbisogno da una parte, di rifornimento dall'altra, l'industria delle costruzioni agisce positivamente in ben 26 dei 65 settori produttivi identificati dalla contabilità nazionale. C'è da chiedersi quale potrebbe essere il boom in atto nella produzione italiana se «girasse» — a parte il Mezzogiorno, che in rapporto alla popolazione è come un cilindro di un motore a quattro cilindri — anche l'edilizia. Giovedì scorso parlavamo del forte incremento della siderurgia nei primi tre mesi di quest'anno: ebbene, la produzione di acciaio, in condizioni normali, viene assorbita per il 30 per cento, quasi un terzo, dall'industria delle costruzioni (opere pubbliche comprese). Invece l'edilizia è uno dei tre settori portanti dell'economia italiana — gli altri due sono l'automobile e il turismo — che in questo momento sono in crisi. Se non lo fossero, tanti problemi, compreso quello dell'occupazione, si risolverebbero da soli. Secondo numerose statistiche — delle Nazioni Unite, del Comitato interministeriale per la programmazione economica, dello stesso Istat — in Italia si dovrebbero costruire ogni anno, e per un ventennio consecutivo, 470 mila abitazioni, per far fronte alle nuove esigenze e colmare il vecchio disavanzo tra domanda e offerta di case. Nel 1973, invece, sono stati ultimati 190 mila nuovi appartamenti, il numero più basso degli ultimi 18 anni, il 21 per cento in meno del 1972 e addirittura il 58 per cento meno dell'anno migliore dalla guerra in poi, che fu il 1963, con 460 mila nuove abitazioni. Senza contare il fatto che da allora la popolazione italiana è cresciuta di 5 milioni di abitanti. In base ai «lavori in corso», si calcola che quest'anno le abitazioni ultimate saranno 220 mila. Qualcosa in più, quindi, rispetto al 1973, ma sempre molto meno di quelle necessarie. Si aggiunga, a dimostrazione del fatto che non solo le nuove case «offerte» in Italia sono poche, ma sono anche mal distribuite, che buona parte di queste vengono costruite nei Comuni con meno di 20 mila abitanti, in altre parole in località residenziali e turistiche, come «seconda casa» per chi ne possiede già una nella sua abituale residenza. Queste «seconde case» si fanno ascendere, come ci dicono all'Ance — l'Associazione nazionale costruttori edili — a circa 50 mila. Ne risulta che quest'anno il gap, il divario tra domanda e offerta di case, non sarà di 250 mila, che sarebbe già altissimo, ma di 300 mila. Esistono i capitali, le aziende, la manodopera e la volontà imprenditoriale per costruire le 300 mila case in più che sarebbero necessarie. Mancano, invece, i piani urbanistici .generali e particolareggiati, cioè i meccanismi che «producono» le aree fabbricabili; mancano i fondi e gli strumenti operativi per i comuni che dovrebbero costruire sulle aree a loro riservate dalla legge 167; manca l'appoggio dell'edilizia pubblica, alla quale si deve appena il 3 per cento delle abitazioni ultimate l'anno scorso. Manca, infine, il «detonatore» che faccia finalmente esplodere l'edilizia convenzionata, che in tutti i Paesi moderni costituisce una grossa quota delle costruzioni residenziali, mentre in Italia, a causa di tutti i requisiti richiesti dalla «865» (la cosiddetta riforma della casa) è in realtà un'edilizia «condizionata», che non riesce a decollare, a produrre quelle case economiche e popolari di cui c'è maggior bisogno. L'edilizia non è solo residenziale: c'è quella che costruisce i locali destinati ad attività economiche, che l'anno scorso ha avuto un incremento modesto, meno del 5 per cento. Ci sono le opere pubbliche, che nel 1973 sono diminuite, in termini reali, del 7,6 per cento, secondo la relazione ufficiale sulla situazione economica del Paese, ma «in realtà» sono scese almeno del 15 per cento, se i calcoli si fanno non sull'aumento medio dei prezzi del 10,5 per cento nell'anno ma sui costi nell'edilizia, saliti almeno del 20 per cento. L'anno scorso, almeno fino agli ultimi mesi, non si teme¬ va certo un surriscaldamento della congiuntura. S'incominciava a parlare, invece, di nuovo modello di sviluppo, basato sui «consumi pubblici». Invece, alla flessione dell'edilizia residenziale («consumi privati»), si è aggiunta quella dei lavori pubblici («impieghi sociali»). E' il solito problema della «lentocrazia», che impedisce allo Stato di spendere le somme stanziate e lascia che si accumulino i famosi, sterili e controproducenti «residui passivi». La politica delle riforme, a incominciare da quella della casa, non potrà mai esssere attuata se non riuscirà a forzare — con le «agenzie» o con altri accorgimenti — il collo di bottiglia della burocrazia e della sua riforma. Mario Salvatorelli

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