Borghesi dell'800

Borghesi dell'800 Borghesi dell'800 (Gli scritti dei fratelli Garrone) «Le lettere e diari di guerra. 1914-1918» di Giuseppe ed Eugenio Garrone, raccolte con familiare affetto da un nipote che è anche storico di valore, Sandro Galante Garrone, paiono trovare il loro naturale posto nella letteratura della prima guerra mondiale. Eppure se avessi scritto una « Storia della borghesia italiana dell'Ottocento », un Ottocento che si chiude con la prima guerra mondiale, le avrei inserite in appendice a quella. E mi sarei giustificato col dire, a rischio di scandalizzare molti, che quella fu guerra combattuta dal popolo, ma non fu guerra di popolo; che forse questo termine spetta solo alle guerre civili, come apparve nella Resistenza, ove ci fu vero popolo tra i partigiani e nelle brigate nere. Di recente Alessandro Passerin rievocava un articolo di Einaudi che ben ricordavo, un episodio della prima guerra tra i Savoia e la Francia repubblicana, gli ultimi del Settecento; al sopravvenire dell'inverno il colonnello scioglie il reggimento di « provinciali » dando appuntamento per un dato giorno della prossima primavera su un certo prato; e quella mattina tutti i soldati, contadini, montanari, si ripresentano. Non penso che la situazione fosse sostanzialmente mutata un buon secolo più tardi; ufficiali effettivi del 1912-15, sulla cui capacità è lecito nutrire forti dubbi, ma con un forte senso del dovere, capaci di morire piuttosto che volgere le spalle al nemico; un popolo in cui ancora poteva molto il senso della disciplina. Forse la più gran parte dei soldati, specie delle campagne, specie di certe regioni, ignoravano persino l'esistenza di Trieste e Trento; ma sostennero virilmente le durissime prove della guerra. Di recente alle Lettere di caduti dell'Omodeo vennero opposte, da parte di scrittori comunisti, lettere di combattenti contadini od operai, ostilissimi a quanto vedevano, desiderosi di una pace qualsiasi (ma i più compirono egualmente il loro dovere); ed è esatto che l'interventismo fu eminentemente borghese, quasi senza partecipazione di popolo. Proprio sotto questo aspetto la guerra del 1915-18 chiude un periodo della storia della borghesia italiana, rappresenta qualcosa oggi irripetibile. Altro ancora noto: come ia guerra muti i sentimenti. I due protagonisti hanno alle origini qualche dubbio sulla necessità che l'Italia entri in guerra; non sono dei fanatici dell'intervento, ma nel '16-'17 parlano il linguaggio del generale Capello, secondo cui per fare bene la guerra occorre il soldato odii il nemico; e risuona nelle loro lettere la parola « vendetta ». Sentimento che sarebbe difficile Lre accettare all'uomo della terra, che sa di avere di fronte un altro contadino, ignaro di politica, che imbraccia quel fucile perche è nato cento o duecento chilometri oltre quella frontiera, e ricorda che s'egli fosse nato là, dove si coltiva l'orzo invece del grano, anch'egli vestirebbe quella divisa. (Analoga riflessione sull'effetto del protrarsi della guerra feci leggendo il diario di Cesare de Lollis, che aveva vestito la divisa del fante per fierezza, per mostrare coraggio, ma partendo da convincimenti neutralisti). Storia della borghesia. Sarebbe però falsificazione pensare che Giuseppe ed Eugenio Garrone la rappresentino; so no gli apici, tra gli uomini più eletti, più puri, ch'essa abbia; sempre chiaroveggenti, soldati non solo eroici, ma disciplinatissimi, che conoscono però il rispetto e non l'ossequio, che vedono gli errori dei superiori e degli alti comandi, serbano un fierissimo senso di dignità, per cui mai si piegano ad un'ingiustizia (e meno che mai la commetterebbero; Pinotto ha grosse grane per non avere fatto fuori sommariamente un soldato indisciplinato), che dicono schietto il fatto loro a colonnelli e generali. Conobbi appena Pinotto; fui amico di Eugenio, dispensiere, cioè curatore, come me, di « dispense » universitarie, nei grandi anni in cui insegnavano a Torino Einaudi, Mosca, Ruffini, e poi ancora come me giovane segretario di ministero: lui all'Istruzione pubblica, dove subito aveva avuto il delicato ufficio di segretario del Consiglio Superiore della Istruzione (e talora ci riportava i bons mots di Vittorio Scialoja). Anche nell'aspetto appariva piuttosto il giovane romantico che il futuro soldato; sensi¬ bilissimo ad ogni manifestazione del bello, nella musica, nelle arti rappresentative, nella poesia e nel romanzo, non alieno da un po' di vita mondana, con un estremo pudore dei sentimenti (la grossa delusione sentimentale cui accenna nell'introduzione il nipote, posticipandola però di circa un anno, la conoscemmo, ma mai ce ne tenne parola). Pinotto era il magistrato ideale, che aveva incantato fin gli arabi ostili con la sua giustizia; l'antitesi perfetta del magistrato che desidera stare vicino ai primi presidenti o meglio ancora avere un tavolo ad un ministero. Entrambi (ed altri con loro che trovo menzionati, così Umberto Balestreri) avevano la passione per la montagna, quando non esistevano funicolari né sciovie, occorreva partire dal basso carichi come muli; ma gli alpinisti di elezione erano migliaia, non il piccolo nucleo di rocciatori che oggi esiste. Mi piace ricordare come i due fratelli fossero figli di un preside e cognati di un professore poi preside di scuola secondaria; mi piace ricordarlo, perché in quella storia dell'Ottocento darei proprio un gran posto, forse il primo, a quelli che furono i professori di scuole secondarie: alla rinfusa, ricordo che appartennero a questa categoria Luigi Einaudi, Piero Martinetti, Augusto Monti, Dino Provenzal, tutta una fitta schiera di allievi di Carducci, come Manara Valgimigli; quanta dignità, quanto culto del rispetto che l'uomo deve a se stesso, della dignità di ogni essere umano, era in tutti loro. Del Diario di guerra, del coraggio mostrato dai due fratelli, dei mirabili organizzatori di plotoni e compagnie che essi furono, del loro spirito di sacrificio — morti entrambi, medaglie d'oro entrambi — altri potrà più degnamente parlare. Qui considero solo l'aspetto sociale. E mi piace ricordare che Pinotto reduce da un infelice episodio della guerra di Tripoli, in cui più che da magistrato si è comportato da soldato e da condottiero, è subito ricevuto dal ministro delle Colonie Martini; ed il ministro della Giustizia Orlando lo nomina cavaliere facendo inserire nel bollettino una motivazione — cosa del tutto inconsueta — che potrebbe essere quella di una medaglia al valore. Pinotto ha una pessima impressione di Martini e del suo direttore Agnesa; è indispettito del gesto di Orlando. Ma mi chiedo se oggi un ministro, occupato nelle vicende del partito e delle sue tendenze, avrebbe fatto ricevere un pretore da autorità più elevata di un vicecapo di gabinetto, e se il ministro della Giustizia, posto che Pinotto era stato comandato presso un altro ministero, si sarebbe occupato A. C. Jemolo

Luoghi citati: Francia, Italia, Mosca, Torino, Trento, Trieste, Tripoli