Il 1974 è Fanno importante per i rapporti tra Urss e Usa di Paolo Garimberti

Il 1974 è Fanno importante per i rapporti tra Urss e Usa A che punto è il dialogo tra le due "superpotenze 9? Il 1974 è Fanno importante per i rapporti tra Urss e Usa Il capo del Cremlino e quello della Casa Bianca si trovano di fronte a difficoltà interne che possono modificare il quadro dei rapporti - A Mosca si parla di "brezneviani" e "antibrezneviani", di giovani tecnocrati e rigidi conservatori - Il mezzo insuccesso della visita di Kissinger conferma un disagio nelle relazioni Gli uomini di Mosca (Dal nostro corrispondente) Mosca, aprile. La politica estera — che gli ha dato una statura internazionale e in patria onori tali da evocare l'idea di un nascente culto della personalità — potrebbe essere per Leonid Breznev una pericolosa buccia di banana. E' un'ipotesi che a Mosca viene incessantemente dibattuta (soprattutto dopo il «mezzo fallimento» della visita di Kissinger, che ha confermato l'attuale disagio delle relazioni russoamericane) nei corridoi delle ambasciate, nei salotti e perfino tra quei rari russi «non ufficiali» che accettano di parlare di politica con gli stranieri. Ma fino a che punto essa è realtà o fantasia di cremlinologhi, usi ad immaginare oscure lotte per il potere anche laddove non ve n'è traccia? Lo stesso Breznev sembrò darle credito nell'aprile del 1973, quando, durante una drammatica riunione del Comitato centrale, fece espellere dal Politbjura due presunti avversari della distensione, Shelest e Voronov, e disse ai deputati del partito che «la politica estera è oggi il principale problema della politica interna». Ma alcuni osservatori ritengono oggi che egli «avesse esagerato ad arte le difficoltà interne per ottenere maggiori concessioni dall'Occidente» (Marshall Shulman in Foreign Policy) e, comunque, la frase attribuita a Breznev poteva avere un altro significato: che, cioè, il successo della politica di détente, e quindi della coesistenza economica con l'Occidente, condiziona lo sviluppo dell'economia sovietica, bisognosa delle tecnologie occidentali per progredire. Ancora Breznev parve convalidare anche questa interpretazione, dicendo nella stessa occasione: «La situazione della nostra agricoltura e dell'economia è così grave che la nostra politica estera non può che essere una politica di pace». Nel fondo, però, le due interpretazioni non si contraddicono, anzi confermano che — se un dibattito esiste, come sembra tra i 26 oligarchi che siedono al Cremlino — il dilemma non è sulle possibili gradazioni di una certa politica, bensì sulle scelte fondamentali: cooperazione economica e quindi distensione, oppure autarchia e quindi chiusu ra del dialogo? Poiché la scelta di Breznev appare ben chiara, il problema, per chi vuole tentare di capire la bilancia delle forze nell'Urss all'inizio del terzo an no della Westpolitik, è di sapere qual è il grado di consenso che egli ha ottenuto attorno alla sua leadership. Negli ultimi tempi, gli osservatori hanno avuto ottimi strumenti d'analisi: i discorsi che i membri del Politbjuro e della segreteria hanno pronunciato conferendo l'ordine dell'amicizia dei popoli alle varie repubbliche e ai distretti dell'Unione, e, più recentemente, celebrato ad Alma Ata il venticinquesimo anniversario delle terre vergini. L'apprezzamento dell'attività di Breznev e della sua politica estera in particolare è stato certamente diverso da parte di ciascun oratore. Se Kulakov (uomo notoriamente legato al segretario generale del partito) ha trovato modo, nel suo discorso di Baku, di elogiare per tredici volte «// contributo personale del compagno Breznev alla politica leninista del pcus», Suslov, parlando a Vilnjus, è stato molto più parco di lodi e ricco di riserve sui «rischi della distensione». Allo stesso modo, mentre Shelepin, decorando la bandiera del Turkmenistan, ha manifestato ammirazione incondizionata per «il programma di pace portato avanti dal nostro partito e personalmente dal compagno Breznev», il maresciallo Grechko, parlando in Tataria, ha richiamato l'attenzione dell'uditorio sulla necessità di continuare a rafforzare l'esercito, garante della difesa del socialismo contro le minacce dell'imperialismo. Ma le differenze riscontrate in questi discorsi (che hanno portato alcuni cremlinologhi a dividere, un po' frettolosamente e semplicisticamente, il Politbjuro e la segreteria in «brezneviani» e «antibrezneviani») dipendono anche dai diversi ruoli che questi uomini hanno nell'apparato del partito e dello Stato, oltre che da differenti opinioni personali. Perché meravigliarsi se Mi- chail Suslov — che fu direttore della Pravda nell'era staliniana ed è considerato oggi il custode dell'ideologia — proclama che «parallelamente alla politica di distensione occorre intensificare la lotta contro le diversioni ideologiche dell'imperialismo»'? Oppure, se il ministro della Difesa Grechko perora la causa di maggiori spese militari, né più né meno come il suo omologo Schlesinger negli Stati Uniti? Grazie anche all'opportunismo di qualcuno dei suoi colleghi, come Shelepin, Breznev sembra aver iniziato il 1974 con un consenso assai ampio attorno alla sua linea politica, che è d'altra parte abbastanza flessibile e articolata (centrista, l'ha definita qualcuno) da accontentare quasi tutte le coalizioni di potere che possono essersi formate al vertice del partito. L'aperturismo nella politica estera ed economica risponde ai desideri dei più giovani tecnocrati (come Poljanskij, Kulakov o Dolgich), mentre il rigido conservatorismo in politica interna, provato dallo schiacciamento del dissenso e dalla repressiva politica culturale culminata nell'espulsione di Solzenicyn, soddisfa i fautori della purezza ideologica contro le contaminazioni del mondo capitalista. C'è poi il fattore generazionale, che sembra essere un'altra garanzia di stabilità per Breznev. Coloro che per prestigio e posizione potrebbero aspirare alla successione sono tutti più anziani di lui (Podgorny ha 71 anni, Kossighin 70, Suslov 72) o hanno la stessa età (Kirilcnko, 68 anni). Nessuno dei «giovani» sembra avere ancora le carte in regola per un simile balzo, facendo salva naturalmente l'ipotesi — che non si può mai scartare a priori — di una rivolta di palazzo della nuova generazione. All'inizio del decimo anno della sua gestione, dunque, un'eventuale crisi di Breznev non sembra provocabile da semplici giuochi di potere tra gli uomini che dividono con lui la direzione del Paese. Essa, semmai, potrebbe dipendere da qualche grosso insuccesso, che ne faccia crollare di colpo la credibilità: un disastro nella politica economica (che già si era profilato nel 1972 con la gravissima crisi agricola, ma che è stato scongiurato nel 1973 con un raccoltoprimato), oppure il fallimento del rapporto coesistenziale con gli Stati Uniti, che potrebbe dipendere soprattutto da un'eventuale caduta di Nixon. Sotto questo aspetto, il 1974 potrà essere per Breznev, come per Nixon, un anno decisivo. Paolo Garimberti II presidente Nixon e il segretario del pcus Breznev (Foto Grazia Neri-Carrubba)