Le serate del signor Proust

Le serate del signor Proust L'AUTORE DELLA "RECHERCHE,, NEI RICORDI DELLA GOVERNANTE Le serate del signor Proust "Sembrava un giovane principe appena tornato dal ballo della vita" - Parlava delle donne, degli abiti e del brio, ma "cercava l'onestà del vero" Per gentile concessione dell'editore Rizzoli, pubblichiamo un capitolo de « Il signor Proust », le memorie di Celeste Albaret che fu accanto allo scrittore nei suol ultimi dieci anni di vita. Il libro di Celeste, domestica e confidente, uscirà presto In traduzione italiana. In fondo eravamo un po' orfani tutt'e due: lui coi genitori morti e gli amici dispersi: io con la famiglia lontana, il marito in guerra, e poi morti anche mio padre e mia madre. Tanto che formammo tra noi un piccolo focolare intimo, con questa differenza: che per lui era soprattutto un cerchio di lavoro, mentre io dimenticavo i miei compiti per non veder altro che il cerchio incantato. Avevamo le nostre veglie, diciamo così, solo che, siccome la notte era il giorno, cominciavano di solito verso le due o le tre del mattitino, quasi mai prima, quando lui rincasava o quando, se non s'era mosso dalla camera, smetteva di lavorare. Veglie che andarono via via protraendosi. I primi tempi mi lasciava andare verso le cinque o le sei del mattino, fors'anche le sette; poi prese l'abitudine di richiamarmi, e così si facevano le otto, le nove e a volte anche le nove e mezzo. Per me era tutto lo stesso: lui suonava e io arrivavo subito, coi capelli sulle spalle, come ho detto, sempre sorridente e pronta ad ascoltarlo, anche se il campanello mi aveva svegliata all'inizio del primo sonno. Mi diceva: «Ah, ecco la Gioconda... Cara Celeste, lei non è riposata, ma dal momento che è qui devo domandarle qualcosa... ». « Qualcosa » era qualcuno che nel frattempo aveva rimuginato e a cui dovevo telefonare immediatamente. Mi diceva il nome della persona che desiderava vedere o che voleva pregar di accompagnarlo in qualche posto, e il più delle volte aggiungeva: « Cosa ne dice? Lei sa come me che posso fare soltanto quel che mi consente la mia salute. Crede che sarebbe lecito e saggio che uscissi stasera? ». « Eh, signore, chi lo sa meglio di lei?». Mi metteva allora addosso quel suo sguardo scrutatore e poi o persisteva, e allora mi rivestivo per scendere a telefonare, oppure rimandava la decisione; ma, quasi sempre, era un'occasione per farmi rimanere ancora accanto a lui e chiacchierare ancora un bel po' e perfino un'altra ora. Le sue prove Quando parlavamo così, in lui non c'era soltanto il desiderio di compagnia: aveva bisogno di ricapitolare; tirava le somme di ciò che pensava o di ciò che aveva riportato. Sono sicura che faceva la prova su di me, per rendersi meglio conto di quel che avrebbe scritto, e anche perché, nel raccontare, si scaldava: gli provocavo delle battute, al modo stesso che lui provocava le mie, perché gli piaceva molto che gli rispondessi a tono (...). Arrivava sempre con un bel sorriso e un grazie. Gli tenevo la porta aperta, lui entrava e si toglieva il cappello con la stessa squisita eleganza con cui se l'era messo: era il suo primo gesto. Ma già, dal momento in cui l'avevo intravisto nell'ascensore, mi aveva fatto sapere, involontariamente, se era contento o scontento della serata. Mi bastava, pzr capirlo, la posizione del cappello. Quando era contento, il cappello era ben calzato e leggermente rialzato sulla fronte; e, sotto, gli occhi scintillavano. Se no era piantato come fosse furente e un po' abbassato sugli occhi, e il sorriso, pur sempre bello, era stanco. Nell'uno e nell'altro caso, lui sapeva che l'avevo visto. C'era tra noi come un piccolo rito: sul ballatoio diceva: «E allora?». Rispondevo: «E allora, signore, eccola qui ». Nell'ingresso, levatosi il cappello e dopo ch'io l'avevo aiutato a togliersi la pelliccia, se la serata era stata brutta aspettava che domandassi: « Non va, signore? ». « Ah, mia cara Celeste, sapesse come mi pento d'esserci andato: mi sono annoiato a morte! Io che sono a corto di tempo avrei fatto meglio a lavorare». Ma quel che stupiva era che, per quanto sgradevole fosse stata la serata, conservava per me la sua uniformità d'umore e si teneva la scontentezza per sé. Se la serata era stata buona, allora era magnifico: un vero fuoco d'artificio. Il viso, dall'interno, era acceso di gaiezza. « Tutto finito in camera mia, Celeste? ». «Sì, signore, tutto pronto ». «Allora venga subito, mi segua: ho molte cose da raccontarle ». Lo seguivo nella camera. Appena entrato si sedeva in un angolo del letto, dalla parte dei piedi, io mi fermavo di fronte a lui e la cosa cominciava. Oggi, quando penso alle ore e ore che ho potuto passare così, impalata dinanzi a lui come una guardia municipale! E non ci pensavo neppure, non ho mai avuto un attimo di spossatezza! Eravamo troppo presi dalle nostre faccende. Se lui non mi ha mai invitato a sedere è perché, ne sono sicura, non ci pensava nemmeno. E io poi ero così assorta che non vedevo neppure la poltrona dei visitatori, a due passi da me. In quanto a lui, dimenticava la stanchezza. Appollaiato su quell'angolo di letto, sembrava un giovane principe appena tornato dal ballo della vita. E la cosa era tanto più stupefacente se mi ricordavo di averlo visto nel pomeriggio, appena uscito dalla sua notte e dal suo fumo, nel pallore e nell'immobilità della malattia, che risparmiava le forze, non parlava e mi faceva segno di tacere anch'io^ E adesso era una fonte di giovinezza. Mi riversava tutto: la scioccaggine o il brio che aveva incontrato, e come il signor Tal dei Tali fosse ridicolo mentre la signora Tal dei Tali era stata per tutta la sera in una forma splendida, e com'era vestita. Quando mi descriveva un abito seguivo ì particolari come avessi avuto sotto gli occhi un figurino di moda. Parecchio tempo dopo la sua morte la signora Lanvin, ch'era diventata principessa di Polignac, passò un giorno a trovarmi: le dissi che la conoscevo dalla descrizione d'un suo abito che aveva, una volta, abbagliato il signor Proust. A quell'epoca era ancora sposata col nipote di Clémenceau, mi aveva spiegato il signor Proust, e mi aveva raccontato: « Il suo abito aveva dei risvolti che mi han fatto pensare a Venezia, tanto somigliavano a gole di piccioni ». Dagli elementi che le diedi, si risovvenne benissimo di quell'abito. Ogni volta che lo vedevo lanciarsi così nelle sue immagini d'una serata gli dicevo cose come: «Bene, signore, sento che oggi ci sarà un'analisi! ». «Può darsi, Celeste, può darsi... ». E rìdeva. Alcuni sostengono che nel suo modo di vedere gli altri era cattivo. Io invece credo che fosse anzitutto e soprattutto un moralista. In ogni cosa — virtù o vizio o presunzione che fosse — cercava l'onestà della verità. Delusione Ricordo che, parlando d'un altro abito, per il quale si era complimentato con una signora, perché, diceva, il tessuto — un broccato o un lamé d'argento — e la foggia gli erari parsi davvero stupendi, era ancora tutt'indignato e amareggiato dalla replica della signora. « Celeste, non immaginerà mai che cosa mi ha risposto. Mi ha detto, tutt'altezzosa: "C'est le dernier argent de la France!". E sa chi è questa signora? La moglie del ministro delle Finanze! Ebbene, son giunto alla conclusione che su un'anima così brutta anche l'abito più bello non poteva essere che di cattivo gusto: come quel che diceva ». Perché la sua preoccupazione era di guardare fino in fondo all'anima degli individui: se il rovescio era nero toglieva la maschera e faceva le sue riflessioni. L'ironia o l'arguzia che poteva mettere nel commento la prendeva sempre là dove si trovava al naturale: nella persona stessa: in ciò che la persona pretendeva d'essere e in realtà non era. Fra i suoi intimi d'un tempo c'era un certo Constantin Ullmann, che lui incontrava in società e che continuava di tanto in tanto a passare la sera, in boulevard Haussmann, tutt'in ghingheri nel suo smokina: visite che peraltro non durarono a lungo: finì con l'essere escluso. Hanno detto che a un certo momento il signor Proust aveva pensato di farne il suo segretario, poi ci aveva rinunciato, ritenendo che quel ragazzo non avrebbe avuto la pazienza di riuscire ad esserne capace. Non ne ho mai saputo nulla ma una volta che parlavamo di lui dopo una serata in cui l'aveva rivisto il signor Pìoust mi chiese che cosa ne pensassi. « Ah, signore, è troppo pallido e poi, poverino, è così brutto! ». E il signor Proust con un sospiro: « E dire che si crede tanto bello! ». Poi, dopo un breve silenzio: « Sì, ma vede. Celeste, in certi giorni deve sentirsi molto infelice davanti allo specchio: basta vedere le arie che si dà. Per questo le persone sono spesso così cattive: perché non perdonano agli altri d'esser meno brutti di loro ». Ma sembrava soffrisse per quel povero ragazzo. Perché non amava lo spettacolo dell'infelicità. Per esempio, un giorno che m'aveva mandata a portare un messaggio alla duchessa di Clermont-Tonnerre e io, al ritorno, gli raccontavo d'aver trovato quella signora circondata da una schiera di cameriere, prima rise e poi mi dichiarò che alla duchessa voleva molto bene, per la sua intelligenza, la sua perspicacia, la sua delicatezza. « Ma quel che lei non sa, Celeste, è che suo marito era un violento e le faceva una vita d'inferno, una cosa impossibile. Credo non le abbia mai risparmiato nulla. Eppure, a vederla, era meravigliosa, bella e diafana, come se fosse stata la più felice delle donne. La rivedo seduta nel suo salotto, con la mano davanti alla fiamma del caminetto... una mano trasparente come al mondo possono essercene solo due: le sue ». Tanti nobili Ciò non toglie che si burlasse del vecchio duca Agénor de Gramont, padre della duchessa di ClermontTonnerre, e d'un suo grande amico, il duca di Guiche. « Col denaro della seconda moglie — era una Rothschild, e quindi può immaginare lu ricchezza — s'era fatto costruire un enorme castello nei pressi di Senlis, a Mortefontaine: il castello di Vallières. Poi la Rothshild morì e lui si risposò con una principessa italiana. Ebbene, Celeste, lei può non credermi, se vuole, ma il matrimonio con una principessa lo ha guarito dalla invidia che aveva per la contessa Greffulhe perché questa, nel suo castello di campagna che era più piccolo di quello del duca, aveva quarantacinque domestici. Guardi un po' dove va a ficcarsi la vanità! ». Non perdonava neppure al conte Pierre de Polignac d'aver sposato la duchessa di Valentinois, figlia naturale del principe Luigi di Monaco, il quale aveva finito col riconoscerla e darle un titolo. Gliene voleva, al conte, perché in seguito a quel matrimonio aveva rinunciato al proprio titolo e accettato di portare quello della moglie e di diventare quindi duca di Valentinois. « Quando ci si chiama Polignac » mi diceva « bella roba rinnegare il proprio nome per sposare una lavandaia! Perché tutti sanno. Celeste, che la madre della duchessa lavava la biancheria del principe di Monaco. Non vedrò più il conte Pierre ». E non solo non lo rivide più. Un giorno il conte, diventato duca, gli mandò un esemplare d'uno dei suoi libri chiedendogli una dedica: il signor Proust rifiutò. «No, no, non posso risolvermi a scrivere il suo nome. Se la persona che ha portato il libro è ancora qui glielo restituisca. Se no, Celeste, lo rimandi per posta ». Su queste cose non scherzava. Una notte rincasò specialmente contento di sé: per una buona azione, mi -spiegò. Era riuscito a indurre un uomo sposato a lui particolarmente caro, ma di cui mi tacque il nome, a rompere una relazione che egli disapprovava, ritenendola indegna di quell'uomo. E porgendomi una busta chiusa mi disse: «Ecco la lettera di rottura. Gliel'ho dettata io. E, per maggior sicurezza, gli ho detto che ci avrei pensato io a farla giungere a destinazione. E sarà lei a portarla, Celeste, e la consegnerà nelle mani della destinataria, oggi stesso ». Con Cocteau Portai la lettera. Mi aveva pregato d'aspettare che la signora l'avesse letta. Pianse dinanzi a me. Quando riferii questo al signor Proust, mi disse: «Capisco, Celeste, ma era necessario ». Non gli piacevano neppure le stravaganze. Una sera, di ritorno da una cena da Larue, mi raccontò: «Insieme a tanti altri c'era, si figuri, Jean Cocteau, il quale, appena mi ha visto entrare, s'è messo a saltare e poi a correre sui tavoli gridando: "Ecco Marcel! Ecco Marcel ". Dopodiché ha voluto a tutti i costi venirsi a sedere accanto a me per raccontarmi, s'intende, delle fandonie. Sì, apprezzo molto il suo ingegno e le sue amenità, ma il fatto è che si inaridisce a mentire per rendersi interessante, e da molto tempo non mi sentivo a disagio come stasera dopo le sue esibizioni ». Era più o meno quel che accadeva ogni volta che tornava da una serata trascorsa in compagnia di Cocteau: per esempio le due o tre volte che s'era lasciato trascinare da lui al « Boeuf sur le toit », patrocinato da Cocteau e diventato il cabaret di moda degli artisti. « Non sono seri » mi diceva. « Sì, è un Boeuf à la mode, ma che non vale quello di Félicie. Mi ci sento spaesato ». Così, ricordo, dopo una serata in casa della principessa Murai, che sposò il conte di Chambrun, ambasciatore in Italia, mi diceva: « E' una delle donne più intelligenti, più perspicaci e più divertenti che conosca; e mi creda, Celeste, non lo dico soltanto perché, oltre tutto, parla con grande ammirazione dei miei libri. Sennonché, solo per aver sposato in prime nozze un russo, si crede in dovere di imi¬ tare gli slavi in tutto e per tutto, perfino negli stati d'ar.imo e fino % portare stivali allacciati alti che deve farsi venire da là e grazie ai quali ti aspetti sempre di vedertela balzare addosso in una danza cosacca». C'era anche la signora Scheikévitch, con la quale gli era piaciuto molto parlare della letteratura russa, e soprattutto di Dostoevskij, al tempo in cui ne aveva fatto la conoscenza a Cabourg, nei primi anni del secolo. Mi diceva: « E' una donna strana. Si consuma in una folle ambizione di ricevimenti al di sopra delle sue possibilità economiche. E poi ha di quelle stravaganze! Era sposata, un tempo, col figlio del pittore Carolus-Duran: matrimonio mal riuscito; così male che lei un giorno tentò di suicidarsi. A tal fine era andata prima a chieder consiglio a una nostra grande amica comune, la signora Arman de Caillavet. Questa, legatissima ad Anatole France e terribilmente gelosa, aveva voluto fare altrettanto prima di lei, perché France l'aveva tradita con una ballerina durante un viaggio in America. La signora de Caillavet era tanto diffidente che aveva fatto seguire France dal proprio maggiordomo, il quale la teneva al corrente. Furibonda per l'infedeltà, s'era sparata un colpo di rivoltella, andato a vuoto, però. E allora guardi un po'... La povera Marie Scheikévitch che va a chiederle consiglio per poi far cilecca anche lei!... Più tardi la signora Scheikévitch si è risposata con un monco: un eroismo che però non è durato ». Un'altra sera, che aveva pranzato con lei in un ristorante di rue Daunou, mi raccontò: « Aveva una volpe bianca, e tutta sera non ha fatto altro che accarezzarmi il viso con la coda della volpe dicendomi: "Ti amo, Marcel!"». Rideva al ricordo; poi tutt'a un tratto si fece triste: « E' terribile, Celeste. La povera donna è ormai un rudere. Il che è tanto più atroce in quanto un tempo si credeva bella ed estremamente ben fatta. Andava su e giù in mezzo alla gente dichiarando ad alta voce: "Tutto in me è naturale. Vedete i miei denti? Ebbene, sono tutti miei!"» (...). Ciò detto, non era mai così contento e loquace come quando aveva incontrato qualcuno in cui la piacevolezza trionfava sui difetti. Cre¬ do, del resto, che abbia sempre fatto una distinzione tra coloro a cui voleva bene e che frequentava per il suo libro e coloro a cui voleva bene per quel che erano nella vita. In questo senso, uno degli uomini da lui forse più ammirati era l'abate Mugnier. Dapprima sacerdote nella chiesa parigina di Sainte-Clotilde, frequentata dal bel mondo del Faubourg SaintGermain, l'abate Mugnier, a quanto mi diceva il signor Proust, aveva avuto delle noie per essersi interessato a un parroco spretato: era stato quindi rimosso e ridotto alle funzioni di elemosiniere delle suore di SaintFrangois-de-Sales. Il signor Proust l'aveva conosciuto a un pranzo in casa di un'amica, la principessa Soutzo, della quale avrò occasione dì riparlare; e subito ne aveva ammirato l'intelligenza e i modi. L'abate «Non è bello» diceva. «Anzi è brutto, con la faccia tutta verruche. Ma quando lo vedo fra quella gente lì, con la sua mìsera sottana logora — perché è povero come un santo —, che si tormenta il ciuffo di capelli grigi guardandoti coi suoi occhi d'un azzurro infantile, be', allora bisognerebbe essere il diavolo per non amarlo. E che conversazione!... ». Ogni volta che si vedevano il signor Proust, al ritorno, me ne citava le parole. Il giorno che s'eran conosciuti aveva chiesto all'abate, un po' per stuzzicarlo, se aveva letto Les Pleurs du Mal dì Baudelaire. « Celeste, non indovinerà mai che cosa mi ha risposto, mentre si batteva la mano sulla sottana. "Ma, mio caro, non me ne stacco mai! Senza il puzzo dello zolfo come farei a sentire il profumo delle virtù?". E dopo il pranzo, mentre andavamo via, sempre chiacchierando, insieme agli altri, arrivati in fondo alle scale mi ha detto: "Mio caro amico, vorrei che la nostra conversazione non s'interrompesse mai; ma devo assolutamente rientrare, perché sta per scoccare l'ora in cui mi aspettano le mie galline mistiche" ». E tanto l'aveva colpito quell'espressione che me la ripetè. « "Le mie galline mistiche"! Ma mi dica, Celeste, ha mai sentito niente di più magnifico? ». Celeste Albaret Proust, di Levine: dandy e malato (Copyright N. Y. Rcvicw of Ilooks, Opera Mundi c per l'Italia La Stampa)

Luoghi citati: America, Clermont-tonnerre, Italia, Monaco, Venezia