Luigi Einaudi giornalista

Luigi Einaudi giornalista Luigi Einaudi giornalista In una delle non poche conversazioni che ebbi con Luigi Einaudi durante la sua discreta permanenza al Quirinale — un esempio di guida vigilante e scrupolosa sorretta da un culto riservato e quasi pudico dello Stato — il Presidente mi confidò una volta: «Se fossi sialo posto di fronte alla scelta fra la presidenza della Repubblica e la direzione del Corriere della Sera, avrei forse optato per la seconda, ma ad un patto: di assumere nelle mie mani la gerenza tipo Alberimi, di avere in pugno lutto il potere amministrativo e di conduzione dell'impresa. Perché il direttore di un grande quotidiano d'informazione non può essere il presidente di una repubblica parlamentare, è un monarca...». Non si trattava soltanto di una boutade venata d'ironia. C'era certo un fondo di paradosso, ma rivelatore dell'uomo. Negli anni del secondo dopoguerra, Einaudi — uno dei massimi profughi dal Corriere albertiniano — aveva guardato al giornale di via Solferino come ad un tempio da riconsacrare, ad un pilastro della vita italiana da riedificare sulle basi di autonomia e di indipendenza tipiche dell'epoca prefascista. «Heri dìcebamus»: aveva cominciato il suo primo articolo scritto per la gestione Janni, dopo il 25 luglio del '43. Ed uno dei profondi e magari inconfessati motivi di amarezza che lo turbarono in quegli anni difficili, successivi all'esilio svizzero, coincise proprio col mancato invito — che nell'intimo si aspettava — a prendere in mano la direzione del quotidiano lombardo, lui, l'ultimo grande superstite della generazione albertiniana, un uomo in cui la passione del giornalismo non era meno potente e prepotente di quella per la cultura accademica. Einaudi aveva sofferto come pochi altri il «trauma» del novembre 1925. Albertini obbligato a cedere le sue quote, e la congiunta gerenza, agli altri azionisti del Corriere, dietro il pretesto di un casuale errore di forma nel rinnovo decennale del contratto, in realtà sotto le ingiunzioni dell'ormai consolidato regime mussoliniano ritmate dalle invettive di Farinacci e cadenzate dalle minacciate, e mai del tutto consumate, invasioni squadristiche. Il miracolo di un venticinquennio dissipato in un giorno; una legione inimitabile di giornalisti e di uomini di cultura insieme dispersa e disanimata. La cappa di piombo del conformismo calata sulla realtà del primo giornale, non solo di una certa Italia, ma di una certa Europa: e sia pure attraverso la suadente e scettica mediazione, di pochi mesi successiva, di un Ugo Ojetti, trait d'union fra due mondi che non comunicavano più. Cessate, per quasi vent'anni, le sue prediche; abbandonata la divisa cui egli più teneva, quella di propugnatore di certi punti fermi, e demolitore di tanti falsi «tabù», dalla tribuna giornalistica, inseparabile dalla cattedra universitaria. Giornalismo e cultura: due esperienze per lui indissociabili. Non si dimentichi che Einaudi era stato giornalista, giornalista militante, «cucitore» di notizie, nelle disadorne e monacali stanze della Stampa di Roux fra la fine dell'Ottocento e i primi del Novecento, in quella Stampa che non era ancora giolittiana, che non era ancora frassatiana, prima della grande svolta liberal-democratica del nuovo secolo. Professore il mattino, era stato volentieri giornalista la sera. Per far quadrare i bilanci, per mandare avanti la famiglia amatissima, si era sdoppiato fra le due future cattedre del magistero di sempre. Ma ad un certo punto, superato il tirocinio professionale (che non disprezzerà, che non rinnegherà mai: quasi custodendolo in scrinio pectoris come un grosso titolo di nobiltà e rievocandolo tanti anni più tardi con accenti velati dalla nostalgia), aveva cominciato a levare anche dalle colonne dei giornali la sua voce di educatore, di «predicatore», di apostolo di una società diversa e migliore. Prima sulla Stampa di Frassati; poi sul Corriere di Albertini. Frassati e Albertini: due poli di un mondo che resterà sempre il suo mondo. Più vicino al secondo che al primo: per il rigore della intransigenza liberale, per il fervore quasi sacerdotale della sua fede nella libertà (nella libertà che tutto risana, tutto riscatta, anche i propri errori). Piuttosto vicino al liberalismo da vecchia Destra di Albertini che non al «liberalismo» empirico, pragmatico e sperimentale di Frassati; e sempre per quell'unità fra coscienza e azione che certe forme del trasformismo liberale di governo, rinverdite da Giolitti, sembravano incrinare o compromettere. Era stato, quello con Albertini, un sodalizio di pressoché un quarto di secolo. Ogni settimana, alle tredici, una visita al leggendario direttore-editore, appena finita la lezione alla «Bocconi», che distava allora pochi metri dal portone di via Solferino (il portone che si apriva e chiudeva all'ingresso o all'uscita del direttore, come all'Eliseo di De Gaulle). Una confidenza che si fondava sul «tu», rarissimo per Albertini. Uno scambio di idee co ;tante, puntiglioso, quasi quotidiano. Una difesa intransigente del collaboratore economico opposta dal direttore a quelle parti della proprietà — e non erano occasioni rare — che protestavano per i danni che la linea severamente liberista e anti-protezionista di Einaudi arrecava a certi dazi doganali, particolarmente utili all'industria tessile. Comuni simpatie, comuni odi, una comune concezione del mondo: anche nelle intransigenze eccessive, o nelle scomuniche preconcette, come la polemica contro Giolitti e il giolittismo (più aspra in Albertini, ma non tenera neanche in Einaudi). Lo studioso piemontese si era fatto, del giornale d'informazione, un'idea cui non rinuncerà più. Un'industria, in primo luogo, che deve essere gestita con economicità di costi: bando ad ogni sussidio, «no» ad ogni privilegio e ad ogni concessione del potere statale. Soli introiti, bastevoli ad un'impresa bene amministrata: la vendita e la pubblicità. Un contatto stretto con l'opinione pubblica, che è qualcosa di diverso dalle fluttuanti maggioranze parlamentari. Scarsi e sospettosi contatti col governo; diffidenza di fondo verso la classe politica nel suo insieme. Una visione della vita portata avanti con fermezza, con decisione, se necessario con ostinazione: al servizio della società civile, o di una porzione di essa (la dialettica fra Stato e società aveva in lui una netta origine anglosassone, quasi una vibrazione protestante). Separazione netta, tutta inglese, tra fatti e commenti, ma nella piena coscienza che il giornalismo non è solo informazione, è prima di tutto opinione, destinata a nascere dall'esame e dal vaglio e dall'inquadramento della notizia. L'indipendenza del giornale da ogni forza economica esterna rappresentò per Einaudi un punto irrinunciabile di riferimento. «Il giornale è indipendente nel senso che nessun mecenate, nessun gruppo gli fornisce i mezzi di vivere. E' solo il servo dei lettori e da que¬ sti dipende per la sua vita quotidiana». Si capisce, alla luce di queste premesse, il turbamento e il disorientamento di Einaudi davanti alle novità del giornalismo italiano dell'immediato dopoguerra, per tanti aspetti collegate all'esperienza del fascismo. Il vecchio columnist del Corriere albertiniano (1700 articoli, dopo gli oltre 400 sulla Stampa di Frassati) non riusciva a capire la figura del «direttore responsabile» creata da un capo di governo autocratico che non a caso era stato direttore di giornale. «Responsabilità» che doveva servire soltanto a legare il direttore-funzionario al partito dominante, sostituto ben più spavaldo delle vecchie proprietà. Gli era estranea l'idea dell'albo, od ordine, dei giornalisti. Detestava ogni forma di coazione in un campo affidato alla molteplicità delle tesi e alla libertà degli estri. Sognava il ritorno alle vecchie gestioni laicamente sacerdotali, alla fusione fra direttore e gerente, con in più magari un comitato di garanti assolutamente al disopra di ogni sospetto: tesi cui dedicò una bella pagina nel saggio della Nuova Antologia sul «problema dei giornali» uscito nel luglio 1945. Prediche inutili anche queste? Certo tutto marcia in senso esattamente opposto alle speranze einaudiane. Ma almeno un principio emerge intatto dall'attuale conturbante crisi dei quotidiani, ed è l'economicità della gestione come premessa all'indipendenza dei giornali stessi. E' un tema di cui abbiamo discusso settimane fa a Milano, in una tavola rotonda promossa dalla Fondazione Einaudi nel centenario della nascita del Presidente. E a me relatore è toccato di ricordare un episodio in cui si riassume tutta la morale della vicenda. Un aneddoto, anzi qualcosa più di un aneddoto degli anni immediatamente precedenti la prima guerra mondiale. Era andato a trovare Luigi Albertini — 1913 o 1914 press'a poco — uno degli esponenti del pacchetto di maggioranza del Corriere, latore di certe doglianze dell'industria tessile contro gli articoli, appunto, di Einaudi. Albertini non fece neanche finire l'interlocutore: «Il solo diritto della proprietà — esclamò nel momento stesso di riaccompagnare alla porta il visitatore — è quello di riscuotere i dividendi. Arrivederci a Natale!». Un amico presente al convegno di Milano mi interruppe: «Ma dove sono oggi i dividendi?». La crisi economica, come sempre, è inseparabile dalla crisi morale. Giovanni Spadolini

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